Valutare o valorizzare?
“Maestra ma a te li danno i voti?”
Una bambina di otto anni
È curioso che quando si nomina la scuola il discorso abbia una specie di spostamento immediato sul campo dei voti (che sono altra cosa dalla valutazione). È anche un po’ triste che ore e giorni di esperienza scolastica (incontri, crescita comune, lavori di gruppo, lezioni ecc.) si riassumano poi in quel numerino che evidentemente continua a tracimare e che non riusciamo proprio a collocare al suo posto.
Già, ma quale posto?
Quale dovrebbe essere il ruolo e il senso della valutazione all’interno della scuola?
Cominciamo a sgombrare il campo dalla retorica. Non serve proprio a niente dire che il voto non giudica la persona ma valuta il suo lavoro se poi si permette di attribuire un giudizio come “gravemente insufficiente” a un bambino di nove anni, se si usa la valutazione in modo ricattatorio (se non la smetti ti metto 4), confusivo (saresti da 8 ma ti tolgo un voto perché disturbi) arbitrario (stavolta parto da 8 e non da 10 come voto massimo). Altrettanto inutile è la retorica sui voti se poi i genitori passano da pratiche punitive nei confronti dei figli che hanno preso una insufficienza a confronti umilianti sul filo dei decimali con il figlio del vicino. La valutazione è qualcosa di molto serio, agli adulti è richiesto un comportamento coerente e dignitoso.
Possiamo allora pensare di considerare la valutazione come momento di valorizzazione dell’esperienza scolastica di bambini e bambine, ragazze e ragazzi; una valorizzazione che prenda prima di tutto in considerazione la globalità di questa esperienza e non si limiti a quei momenti artificiali e artificiosi di “verifica” che continuiamo a scorporare dal resto della vita scolastica. Intendiamo dire che se è certo utile un momento rituale di verifica degli apprendimenti (anche a livello simbolico, di mobilitazione delle emozioni, di gestione dell’ansia), non ha più senso che sia solo a quel momento che si attribuisce il 100% del peso della valutazione. La partecipazione in classe, l’empatia, la collaborazione, lo spirito critico, la capacità di sbagliare e di imparare dai propri errori, la capacità di porsi e porre domande… tutto questo non dovrebbe contribuire alla costruzione di una valutazione che sia completa e meno limitata e limitante? Ed è possibile fare tutto ciò senza cadere nell’arbitrarietà, purché si chiarisca fin dal primo giorno di scuola quali sono le procedure di costruzione della valutazione.
Una costruzione che in una classe non può non coinvolgere anche gli studenti e le studentesse. La pratica dell’autovalutazione dovrebbe essere diffusa a livello capillare nelle scuole fin dalle primarie. Si tratta di insegnare ai bambini e alle bambine ad osservarsi dall’esterno, e anche a osservare i propri compagni, in un lavoro collettivo che non sia di mera misurazione “oggettiva” né (Dio ne scampi) di competizione ma di costruzione di una narrazione comune a proposito di “cosa ho/abbiamo imparato”, “come l’ho/abbiamo imparato”, “cosa mi/ci rimane da imparare” ecc. se la valutazione è inserita in un orizzonte di senso, se essa è condivisa fin nelle fasi della sua costruzione, se essa è intesa a valorizzare il positivo prima di sottolineare il negativo, allora quel numerino finale (che per inciso a nostro parere non dovrebbe mai essere inferiore a 3) può essere sdrammatizzato.
Il tema della valutazione degli insegnanti è troppo ampio per trattarlo in questa sede, ma crediamo che le procedure che permettono ai ragazzi e alle ragazze di dare il loro parere, motivato e strutturato, a proposito dei loro docenti, oltre che formare cittadini/e coscienti e critici contribuisce a togliere dalla zona d’ombra i non-detti dei ragazzi e delle ragazze a proposito degli insegnanti. Qualcuno afferma che i ragazzi e le ragazze non sarebbero in gradi di valutare l’insegnante, il che, preso alla lettera, può anche essere vero; infatti quello che si propone è che gli studenti e le studentesse valutino la relazione educativa, immettendo in questo processo di valutazione sia la figura dell’insegnante che la propria e indicando al docente le possibili strade alternative per ottenere l’attenzione e soprattutto suscitare la passione della classe.
Del resto se la scuola è luogo della socializzazione del sapere ci domandiamo per quale motivo la valutazione debba sempre solo essere individuale e inevitabilmente competitiva. Se non ci possano essere valutazioni di gruppo, condivise, reciproche, ovvero se la valutazione non possa rientrare in quella dimensione sociale che la scuola ha fin dal suo principio e che, rinnegandola, la Lo dico sempre anch'io porta a negare se stessa.
Tutto ciò ovviamente riguarda la percezione del ruolo del docente e l’idea di didattica che ne è alla base; se non si comprende che la didattica è una scienza relazionale e come tale non può non tener conto fin dall’inizio dell’effetto di ritorno costituito dalle reazioni degli studenti, se si pensa cioè che la didattica sia una specie di arte magica posseduta dagli insegnanti e che i ragazzi devono solo subire, allora la scuola si condanna all’inefficacia e altro non le resta da fare che usare il voto come arma di ricatto o di terrore.
La questione della valutazione infatti non può essere separata da una riflessione molto più profonda e articolata sul senso della scuola oggi. Anzi, parlare della valutazione a prescindere da questo elemento significa perpetuare il discorso sulla scuola come discorso monco, mentre il problema reale non è tanto il senso dei voti quanto il senso dell’alzarsi la mattina presto per andare in un luogo chiamato scuola, che può essere accogliente e valorizzante come può essere mortificante e addirittura mortifero. La valorizzazione del ragazzo e della ragazza passa anche attraverso la valutazione ma oggi la si può ottenere rimettendo questa al suo posto e togliendola dal centro di ogni discorso sulla scuola che le abbiamo permesso di occupare abusivamente.