Ivana Barbacci

L’unità possibile

Questi miei appunti, che vengono pubblicati in una data particolarmente importante per il mondo del lavoro, il 1° maggio, per evidenti ragioni li ho scritti nei giorni precedenti. Dunque, non so dire quale sarà lo svolgimento della manifestazione in programma oggi a Monfalcone, una manifestazione che vede insieme la tradizionale triade CGIL CISL UIL, dopo mesi nei quali in più circostanze le tre organizzazioni hanno percorso strade diverse, talvolta anche con momenti di forte tensione polemica.
Vedremo oggi se in piazza prevarrà lo spirito unitario, nel segno di una lunga tradizione di cammino comune fra organizzazioni diverse, o se avranno il sopravvento le spinte a tradurre le differenze in rivalità più o meno “esplicitate”. Personalmente mi auguro che si realizzi la prima delle due eventualità, poiché sono convinta che nella rappresentanza del lavoro sia sempre opportuno tendere a costruire le condizioni che rendano possibile un’ampia unità d’azione. Perché ciò possa avvenire, un presupposto fondamentale è che si riconosca in tutta la sua pienezza, assumendolo come un valore e non come un limite, un dato che caratterizza da decenni il sindacalismo italiano, ossia la pluralità dei soggetti che ne sono i principali protagonisti, in quanto maggiormente rappresentativi del mondo del lavoro.
È facile constatare, ripercorrendo la storia del nostro Paese dall’ultimo dopoguerra, come il pluralismo sindacale trovi qualche riscontro in quello delle maggiori correnti di pensiero politico, anche se con gradi di diretta corrispondenza che appaiono molto diversi da sindacato a sindacato. Una marcata autonomia, che arriva a stabilire precise incompatibilità fra ruoli sindacali e politici, è un tratto distintivo che caratterizza la CISL fin dal suo nascere, ed è una delle principali ragioni che spingono milioni di lavoratrici e lavoratori a riconoscersi in un’organizzazione nella quale possono convivere, e infatti convivono, opzioni diverse, grazie a una distinzione sempre molto netta fra il piano dell’azione sindacale, nel quale è centrale il ruolo negoziale con le controparti private e pubbliche, e il piano dell’azione politica, dal quale l’agire sindacale non può e non deve subire condizionamenti.
È in forza di questa visione che la CISL ha sempre considerato un diritto e un dovere confrontarsi con ogni governo, a prescindere dal “colore” della maggioranza che lo sostiene. Non è indifferenza alla qualità delle proposte politiche, su cui i cittadini sono chiamati democraticamente a fare le proprie scelte: si chiama autonomia. Autonomia nell’andare al confronto sulla base di precise proposte, autonomia nel valutarne gli esiti, sapendo che non spetta al sindacato dare o togliere la fiducia a un esecutivo. Quando i piani dell’azione sindacale e politica si confondono, si corre facilmente il rischio di sottovalutare l’importanza dei risultati conseguiti, essendo prevalente la tentazione di lasciarli in ombra per enfatizzare un ruolo oppositivo, al quale viene data priorità. E viceversa, nel caso di maggioranze e governi ritenuti “più affini”.
L’evoluzione dello scenario politico italiano, oggi totalmente diverso da quello del secolo scorso, consegna probabilmente alla storia le corrispondenze cui ho fatto prima riferimento, quando ho ricollegato ad esse, in una certa misura, anche il nostro pluralismo sindacale: ma mi piace sottolineare, usando per semplicità schemi di lettura allora piuttosto consueti, che il punto di più profonda divisione nel movimento sindacale si ebbe quando alla guida della nostra organizzazione vi era quello che può essere considerato il leader più “di sinistra” che la CISL abbia avuto, Pierre Carniti: che tenacemente si impegnò per realizzare un accordo, quello sulla scala mobile, su cui fondare una diversa e più efficace tutela dei salari. Andando per questo a una rottura con la CGIL, che toccò (paradossalmente?) al “democristiano” Marini, in seguito, ricomporre. Ne ho già parlato in precedenti “Appunti di viaggio”, se ci ritorno è solo per avvalorare il concetto espresso in apertura di queste note: l’unità è sempre possibile, se riconosce e valorizza le differenze. Senza banalizzarle, o distorcerle, come avviene quando di vagheggia di “colpi di fulmine” della CISL per il governo oggi in carica. L’unità è sempre è possibile, a patto che non la si intenda come “allineamento” degli altri alla propria visione delle relazioni sindacali, nella presunzione che possa ritenersi “superiore” quella che assegna alla conflittualità (più o meno condizionata dai contesti politici) un ruolo prioritario.
In questo primo quarto del ventunesimo secolo, del resto, momenti di unità e di divisione dei sindacati si sono più volte riproposti, ogni volta con variazioni sul tema. Gli anni dal 2008 al 2011, come pure i primissimi anni 2000, hanno visto la CGIL percorrere strade diverse dagli altri sindacati (si pensi alle intese per il recupero degli scatti di anzianità, per quanto riguarda la scuola); negli anni successivi, il fronte sindacale si è spesso esteso, nel nostro settore, oltre i confini delle organizzazioni confederali, con un coinvolgimento frequente di SNALS e GILDA, anche se firmarono con qualche esitazione il CCNL nel 2018. L’ultimo contratto, come è noto, firmato anche dall’ANIEF, non è stato invece sottoscritto dalla UIL, che pure sta condividendo con la CGIL iniziative condotte senza la CISL.
La descrizione di un quadro del genere induce al pessimismo? Non lo credo, per diverse ragioni, una delle quali è che quell’articolazione di posizioni e di scelte è ben poca cosa, se si considera che le sigle censite dall’ARAN nel solo comparto istruzione e ricerca sono ben 195. Una frammentazione rispetto alla quale fanno tuttavia giustizia i numeri, stabilendo in modo oggettivo e documentato quali sigle abbiano titolo per essere considerate maggiormente rappresentative (sei in tutto, oggi).
Allora torno al pluralismo come espressione di democrazia, per cui l’esistenza di organizzazioni sindacali con visioni e pratiche differenti del proprio ruolo può e deve considerarsi non una patologia, ma una sana fisiologia. Fra organizzazioni diverse, l’unità è comunque possibile, a patto che ognuna di esse assuma la diversità come un valore, non come il manifestarsi di un errore (altrui) rispetto a una (propria) presunta infallibilità.

L’unità possibile è quella in cui non si chiede ad altri di allinearsi, ma si lavora per trovare punti di condivisione e di sintesi. Una strada impegnativa, difficile e faticosa: ma l’unica che può produrre risultati.

Buon primo maggio.