I guasti del "punto e a capo". Intervista a Italo Fiorin
Di recente il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha annunciato di voler rivedere le Indicazioni Nazionali. Contestualmente si è saputo che è già stata nominata una Commissione di esperti coordinata dalla professoressa Loredana Perla, pedagogista dell’Università di Bari, che avrà il compito di predisporre una prima proposta. La notizia ha creato subito un ampio dibattito.
Per parte nostra abbiamo pensato di offrire ai nostri lettori un contributo di riflessione raccontando cosa era successo in passato e cioè in che modo si era giunti alla stesura delle diverse versioni delle Indicazioni, a partire dalla fine degli anni ’90. Ne parliamo con il professore Italo Fiorin, presidente della scuola di alta formazione della LUMSA, che aveva avuto un ruolo importante e decisivo a partire dal 2007 quando vennero adottate le prime Indicazioni nazionali “post Moratti”.
Professore, lei nel 2007 fu il coordinatore della Commissione designata dal ministro Fioroni; Commissione presieduta dall'epistemologo Mauro Ceruti e formata da una dozzina di grandi esperti. Forse ripercorrere quella vicenda potrebbe aiutarci a capire meglio ciò che sta accadendo oggi e ciò potrebbe accadere in un futuro più o meno immediato.
Per capire la storia delle Indicazioni bisogna fare un passo indietro perché in realtà le primissime Indicazioni non furono quelle della ministra Moratti, ma quelle del ministro De Mauro, che aveva portato a compimento l'opera di riforma avviata dal precedente ministro Luigi Berlinguer. Non si chiamavano Indicazioni ma “Indirizzi per Il curricolo”, videro la luce nell’estate del 2000, per essere sommariamente annunciate al mondo della scuola, ma ormai quel Governo era giunto al termine e il successivo esecutivo, di orientamento politico molto diverso, decise di seguire tutta un’altra strada.
La Commissione di Berlinguer era molto ampia ed era formata da numerosi esperti di orientamento culturale e scientifico molto variegato: erano presenti studiosi di posizioni diverse, ma tutti intenzionati a trovare un punto di incontro.
Poi arrivò la ministra Moratti e con lei lo slogan del “punto e a capo”.
Gli esperti nominati dalla Moratti diedero vita ai Piani di studio personalizzati che però nella scuola non riscossero molto gradimento e, peraltro, rimasero in vita poco tempo.
Nel 2007 il ministro Fioroni nomina la Commissione presieduta da Ceruti e coordinata da lei. Come lavorò quella Commissione?
Per prima cosa ci mettemmo d’accordo su una questione centrale: ci sembrava che fosse necessario innanzitutto ragionare su quale dovesse essere la cornice culturale e pedagogica delle indicazioni stesse. Nella società post-moderna, che Zygmunt Bauman definisce “ liquida”, ci sono state di grande aiuto le riflessioni di Edgar Morin sulla complessità e su come le discipline debbano aiutarci a evitare la frammentazione, per diventare, al contrario, chiavi di interpretazione di un mondo che sta cambiando. Lavorammo molto su questo, ma prestammo anche molta attenzione alla grande tradizione pedagogica del nostro paese.
Era ormai chiaro che stava cambiando il paesaggio educativo, un paesaggio nel quale la scuola oggi è diventata molto marginale rispetto al passato, perché non è più ne’ l’unico ne’ il più importante ambiente nel quale si forniscono informazioni e non può rivendicare nemmeno l’esclusività nella formazione, e quindi deve ripensare la propria funzione e guadagnarsi un diverso tipo di centralità.
E quali erano le parole chiave che secondo voi dovevano costituire l’ossatura, diciamo così, del documento da consegnare al Ministro?
Direi che le parole chiave sono 4: persona, cittadinanza, comunità, mondo.
Le sta elencando in ordine di importanza?
Sono tutte parole importanti, più che suggerire una gerarchia vanno pensate nella loro interrelazione. Con persona mi riferisco alla singolarità dello studente che apprende e che chiede di essere riconosciuto e ascoltato nei suoi bisogni e nei suoi desideri.
La seconda parola chiave è cittadinanza. Cittadinanza è una parola chiave molto impegnativa, che assume un significato che va ben oltre la vecchia idea risorgimentale (“l’Italia è fatta, adesso bisogna fare gli Italiani”).
Oggi, infatti, si è contemporaneamente cittadini del proprio luogo, del proprio paese (nel nostro caso l’Italia), del proprio continente (nel nostro caso l'Europa), del mondo e perfino del pianeta per usare un riferimento al pensiero di Edgar Morin.
La terza parola chiave è comunità intendendo la scuola non tanto come un luogo dove si va per apprendere (d’altronde oggi i luoghi che consentono di imparare sono davvero tanti), ma per apprendere in un contesto sociale.
La scuola si caratterizza sempre di più come un luogo dove si impara insieme con gli altri, dove è essenziale la dimensione relazionale.
Si tratta di una dimensione che va curata con la massima attenzione perché è ciò che fa della scuola il luogo dove, per elezione, si scoprono gli altri, dove si impara a condividere, a confrontarsi e perfino a litigare in modo costruttivo.
Come avrebbe detto Dewey, la scuola è il luogo dove i giovani sperimentano la vita di comunità e dove fanno le prime pratiche di democrazia.
Siamo alla quarta parola-chiave, mondo…
Scrivendo il testo delle Indicazioni ponemmo molta attenzione al fatto che la scuola ha a che fare con le sfide globali, sfide molto alte, che vengono anche elencate: il degrado ambientale, la distribuzione iniqua delle risorse, la pace e i conflitti... Sono situazioni che non sono estranee alla scuola perché riguardano la vita degli studenti e che, per essere comprese e affrontate, richiedono consapevolezza critica.
Tutto questo è molto chiaro, ma come lo si traduce in pratica didattica quotidiana?
Nelle Indicazioni c’è una frase che esprime con molta nettezza come intendere l’insegnamento. La cito alla lettera: “Le trasmissioni standardizzate e normative delle conoscenze, che comunicano contenuti invarianti pensati per individui medi non sono più adeguate”.
La frase non è bellissima ma è molto chiara: l'insegnamento per alunni ‘medi’ non è proponibile semplicemente perché gli alunni medi non esistono. A scuola si incontra la diversità delle persone, la loro singolarità, e quindi bisogna pensare a un altro tipo di approccio.
E cioè?
Diciamo che bisogna partire sempre dal riconoscimento dei bisogni e delle esigenze degli studenti, e questo deve essere considerato un criterio prescrittivo. Non si può insegnare a prescindere dagli studenti ma bisogna partire da loro, dalla loro esperienza, dal loro volto.
Ricordate come inizia Lettera a una professoressa? Si apre con queste parole: “Cara professoressa lei non si ricorderà certo di me, ne ha bocciati tanti.”
Ecco, non si parte mai da un numero, uno dei tanti, ma da un volto.
Secondo criterio: l'insegnamento deve promuovere un apprendimento attivo, anzi esplorativo; questo significa immaginare la scuola come un centro di ricerca, come un luogo che si misura con i problemi e che insegna agli studenti a confrontarsi con situazioni sfidanti.
Altro criterio prescrittivo: la classe, le classi devono essere organizzate in modo collaborativo. Dentro la classe gli alunni devono crescere come gruppo capace di lavorare insieme.
Come avevate affrontato la questione delle discipline, dei contenuti dell’insegnamento?
Le discipline sono gli strumenti culturali per eccellenza e su questo si era sviluppato un dialogo serratissimo con la comunità scientifica nazionale: cito fra tutti Tullio De Mauro e Francesco Sabatini, linguisti di chiara fama. Ma in tutti gli ambiti disciplinari abbiamo avuto l’opportunità di avvalerci della generosa collaborazione di studiosi straordinari.
Vogliamo spendere due parole sulla storia, tema di cui molto si sta discutendo in questi giorni?
L’insegnamento della storia pone una serie di problemi, sia riguardo alla scelta dei contenuti, sia all’impostazione metodologica. Per quanto riguarda i contenuti, sappiamo che la materia è talmente ricca che sarebbe impossibile presentarli tutti. Inoltre (ma questo non vale solo per la storia) non era nostra intenzione suggerire una didattica enciclopedica e quindi abbiamo lavorato per un curricolo, come direbbe Morin, che aiuti ad andare in profondità, non vasto, ma essenziale.
È, quindi, chiaro che bisogna fare una accurata selezione. Le Indicazioni sono molto essenziali e lasciano agli insegnanti la scelta di selezionare i contenuti considerati più adatti al contesto in cui operano. Ma non si può insegnare la storia come un raccontino perché questo non ha nulla a che fare con la scienza storica. I riferimenti metodologici vengono offerti dal modo di lavorare proprio della disciplina storica. La storia insegna a misurarsi con i documenti e con le testimonianze, a leggere criticamente le fonti, a confrontare punti di vista diversi. Questi elementi metodologici possono essere affrontati anche da un bambino piccolo, come molte esperienze possono testimoniare. Ovviamente bisogna aver chiaro che l’obiettivo è quello non tanto di formare uno storico di professione ma un giovane cittadino con una mentalità critica.
Andiamo avanti con la nostra ricostruzione…
Nel 2012 il Ministro Profumo si rende conto che è arrivato il momento di fare un po’ di manutenzione al testo delle Indicazioni 2007, che nel frattempo erano state utilizzate, sperimentate e apprezzate dalle scuole.
Profumo incarica un gruppo di lavoro di rivedere il testo, tenendo conto di alcuni aspetti che noi non avevamo adeguatamente considerato, come ad esempio le raccomandazioni europee sulle competenze chiave. Io non facevo parte di questo gruppo, ma mi piace qui ricordare Giancarlo Cerini, che diede un contributo particolarmente significativo.
Il ministro Profumo non si accontenta di ufficializzare il testo rivisitato, quello delle attuali Indicazioni 2012, ma decide di istituire un comitato scientifico con il compito, del costante monitoraggio della applicazione delle Indicazioni, della manutenzione del testo e di suggerire proposte di eventuali integrazioni o modifiche. La formalizzazione di questo Comitato è prevista dall’art. 3 del Regolamento che istituisce le Indicazioni.
E lei faceva parte di quella Commissione?
Sì, anzi ebbi l'onore di essere chiamato a coordinare questo comitato scientifico, che aveva una durata 2 anni con la possibilità di essere rinnovato per altre 2 volte.
L’ultimo rinnovo ci consenti di lavorare fino al 2018, quando fu varato il documento Indicazioni nazionali e nuovi scenari, come integrazione delle Indicazioni del 2012. Con l’attuale governo il comitato non è stato rinnovato nei suoi componenti, né è più stato convocato.
Questa scelta a me sembra frutto di una disattenzione grave, perché significa che non si è recepita la lezione che la breve storia delle Indicazioni racchiude. Garantire una costante manutenzione del testo delle Indicazioni consente di favorire un processo di innovazione che tiene conto dell’esperienza dei docenti, dei cambiamenti che si manifestano nella società, delle nuove sfide che nel tempo si presentano e che richiedono di essere considerate. Tutto questo avviene secondo una linea evolutiva, di continuità e mette la scuola al riparo dalla logica del ‘punto e a capo’ che tanti danni ha fatto. Oggi mi pare che si ritorni all’idea che ogni ministro che cambia ha il diritto di cambiare la scuola, per renderla quanto più somigliante alla sua visione.
Si spieghi meglio…
Dovremmo pensare che le Indicazioni sono un bene comune, non la proprietà di questo o quel ministro.
L’idea che il cambio dell’orientamento politico e il cambio dei ministri autorizzi ogni volta fare punto e a capo tradisce una concezione proprietaria della scuola. Questo è molto preoccupante. Io penso che, pur nella conflittualità politica, che una democrazia deve saper tollerare e gestire, ci debbano essere valori e beni comuni da considerare e tutelare: la salute e l’istruzione dovrebbe essere fra questi.
Adesso si parla di rivedere le Indicazioni, lei cosa si augura?
Per coerenza con quanto ho detto fin qui mi augurerei, innanzitutto, che ci fosse una ripresa di questa logica di manutenzione del curricolo e di un cambiamento ragionato, frutto di ascolto, confronto, partecipazione democratica, in un’ottica pluralistica, con grande rispetto per le diverse sensibilità. Penso, infatti, che la democrazia, il bene comune più prezioso che abbiamo, sia in buona salute non quando la maggioranza ha il potere decisionale, ma quando le minoranze sono rispettate e le si sa ascoltare.