Dicembre 2022

Note di apertura: Così è, se vi appare... (Ivana Barbacci)
Un anno con don Milani: Aichear (I CARE) (Gianni Gasparini)
Il mondo intorno: E se la legge 1859 non fosse esistita? (Emidio Pichelan)
Con gli occhi della storia: Il peso del calendario civile (Paolo Acanfora)
Una scuola per Lucignolo: Sarai messo nelle condizioni migliori... (Raffaele Mantegazza)
Conoscere la nostra scuola: La scuola materna statale (Reginaldo Palermo)
Strumenti per il mestiere: Inclusione: una delle parole magiche della scuola (Donato De Silvestri)
Una pagina d'autore: E navigar è dolce… (Leonarda Tola)
Zibaldone minimo: Passo (Gianni Gasparini)
Buone letture: La carezza della scienza (Luigi Lo Papa)
Il mese sindacale

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Così è, se vi appare...

di Ivana Barbacci

Immagine e sostanza nei fatti sindacali
La scorsa settimana, su due importanti quotidiani, Luigi Sbarra è stato intervistato per conoscere quale fosse il giudizio della CISL sulla legge di bilancio il cui esame prende avvio in questi giorni. Numerose, puntuali e argomentate le critiche, per quanto lo consentisse un testo che ha visto non pochi cambiamenti prima di approdare alle Camere: da qui la richiesta di aprire immediatamente un confronto col Governo per individuare possibili modifiche condivise, nell’ottica di quella valorizzazione del dialogo con le forze sociali che la premier, stando a quanto dichiarato, intenderebbe favorire. Tuttavia, e lo si coglie già leggendo i titoli delle interviste, più che sul merito delle considerazioni esposte l’attenzione è indotta a concentrarsi soprattutto su un altro aspetto, ossia sulla possibilità che si vada o meno a una mobilitazione. Diventa questo, alla fine, il tema dominante nel dibattito e nei “ragionamenti”. Più delle critiche e delle proposte, importa capire se si intende proclamare “qualcosa”. Per chi non lo fa, è scontata l’accusa di acquiescenza, anche quando – è il caso di Sbarra – le contestazioni mosse sono numerose e non di poco conto. Ora, si può anche capire che per i media, e per chi li segue, il racconto di una battaglia sia molto più eccitante di quanto possa risultare la cronaca, fatalmente noiosa, di un confronto lungo e complesso: e tuttavia, è proprio quest’ultimo che di solito è in grado di produrre risultati tangibili. La storia del sindacato ci insegna che le azioni di lotta si dimostrano efficaci non quando sostituiscono un negoziato, ma quando lo sostengono. Da sole, rischiano di ridursi solo a uno sfogo. Non c’è titubanza, men che meno acquiescenza, nell’atteggiamento della CISL: al contrario, la volontà di svolgere fino in fondo il proprio ruolo, che non può mai essere solo quello di “apparire”, mettendo davanti a tutto la propria “visibilità”.

La narrazione del contagio
Se valga più l’apparenza della realtà è un dilemma che si pone anche su altri e differenti versanti. Non ci fossero le notizie, e le immagini, arrivate nei giorni scorsi dalla Cina, la drammatica esperienza della pandemia sembrerebbe relegata ormai tra i brutti ricordi. Sarà anche per l’irrompere di altre diverse emergenze, ma si parla da tempo assai poco di tamponi, vaccini, ricoveri, decessi, tanto da avvalorare l’impressione di una ritrovata normalità. Qui è il punto: come stanno realmente le cose? Sui media prevale il silenzio, ma ogni giorno che passa, per quanto ci può venire da diretta o indiretta conoscenza, il numero delle persone che si scoprono positive diventa sempre più rilevante. La domanda allora è: la fine dell’emergenza può considerarsi un fatto reale o è solo apparenza, determinata semplicemente dal fatto che – più o meno deliberatamente - se ne parla meno? Viene da chiedersi come potrebbero rispondere a questa domanda, in una situazione rovesciata, coloro che, persino mei mesi terribili di inizio 2020, si mostravano propensi ad avallare l’idea che la pandemia fosse in qualche modo il prodotto di una narrazione mediatica, più che di un virus.

Al freddo e al gelo
Sarà veramente un Natale “al freddo e al gelo”, oltre che al buio, quello che milioni di ucraini si apprestano a vivere quest’anno. Vorrei davvero che fossero immagini “costruite” quelle proposte quotidianamente dai reportage su quella guerra; che quella rilanciata dagli schermi fosse solo apparenza, e non la realtà vera. Purtroppo non è così. Per un intero popolo l’alternativa, oggi, è tra fuggire all’estero o trascorrere l’inverno in abitazioni che, quando non sono danneggiate o distrutte, sono prive dell’energia necessaria per illuminarle o riscaldarle. Riconoscere al popolo ucraino la condizione in cui oggettivamente è costretto, di aggressione subita, di violenza patita, è un debito di verità che chiede di essere onorato per dare forza e credibilità all’impegno di pacificazione al quale tutti abbiamo il dovere di dare il nostro contributo.
Avendo negli occhi e nel cuore le immagini di sofferenza, vere e reali, raccolte in quel contesto di guerra, e col pensiero rivolto a tutti gli altri conflitti sparsi nel mondo, il mio augurio è che il messaggio di pace proprio del Natale possa essere raccolto da uomini di buona volontà e trovare finalmente ascolto.

Aichear (I CARE)

di Gianni Gasparini

Di don Milani mi è rimasto impresso da anni soprattutto questo motto, che era scritto a grandi lettere su una parete della scuola di Barbiana: I care, in inglese, la lingua che don Lorenzo voleva che i suoi ragazzi imparassero accanto all’italiano per poter vivere nel mondo e dialogare con tutti, senza escludere nessuna tematica.
I care – mi importa – è una locuzione a se stante ma che fa riferimento implicitamente a un oggetto: io mi prendo cura di qualcuno, oppure questa cosa mi sta a cuore, o ancora io mi preoccupo attivamente di una certa situazione.
Nelle traduzioni in italiano abbiamo il vantaggio di usufruire di una molteplicità di sfumature, anche se tutte ruotano attorno all’idea della cura, del farsi carico. Penso alla cura di qualcuno di specifico, ma anche dell’altro in genere, quell’altro che mi sta di fronte nelle scelte di vita decisive e mi richiama a temperare e contrastare le mie pulsioni egoistiche, le mie tendenze egocentriche. Mi sembra che il contesto socioculturale in cui viviamo oggi, e in modo particolare l’eccesso straripante della incessante comunicazione istantanea, ci stia portando più facilmente e frequentemente verso i lidi dell’indifferenza e della banalità piuttosto che della cura dell’altro. In effetti, le crisi e le sorprese impressionanti (e negative) che abbiamo progressivamente affrontato in questi anni – di cui cito le ultime due, la pandemia da Covid-19 dal 2020 in poi e la guerra scatenata dalla Russia con l’invasione della Ucraina nel 2022 – hanno probabilmente attutito la nostra stessa attitudine a lasciarci colpire da ciò che è assolutamente importante, grave, tale da richiedere attenzione in profondità. Parecchi osservatori della realtà politica italiana hanno osservato recentemente che la campagna elettorale 2022 si è svolta senza fare riferimento alla realtà della guerra in Ucraina, nonostante la sua enorme pericolosità e la sua incidenza capillare a livello della vita quotidiana di tutti, specialmente di chi vive in Europa. Anche altre crisi di questi anni – come quella economica nelle sue varie forme e quella inerente al clima e all’ambiente – sembrano averci abituati all’idea di catastrofi sempre più gravi e numerose, alle quali è difficile porre rimedio e di cui è complicato interessarsi in concreto. Dunque, la reazione può diventare quella che in qualche modo ci si rassegna all’inevitabile attraverso forme di comportamento indifferenti, non coinvolte, che prescindono da un impegno personale. Senza contare che l’esposizione debordante ai media vecchi e nuovi – in particolare allo smartphone – ci rende oggettivamente inadeguati a reagire all’infinità di stimoli a cui ci sottopone ogni giorno il diluvio di informazioni che ci vengono offerte se non di fatto imposte. D’altra parte, è bene lasciare la porta aperta alla possibilità opposta: quella cioè che la gravità e l’incombere di certe emergenze rappresenti uno stimolo a far scattare la molla dell’I care, del “me ne faccio carico”.
Nella forma dell’infinito, il verbo to care ci parla della capacità di prenderci cura gli uni degli altri, di “custodirci” reciprocamente come cosa preziosa, ciò che richiede attenzione e perseveranza. Senza la virtù dell’attenzione, raccomandata sopra ogni altra dalla grande filosofa Simone Weil, non può sbocciare la cura, il desiderio di prendersi cura di chi nel linguaggio evangelico viene chiamato il prossimo. Nella scuola di don Lorenzo Milani si faceva osservare che il contrario di I care è il motto fascista “Me ne frego”. Oggi direi che il punto non è tanto una opposizione esplicita e aggressiva all’impegno della cura quanto lo scivolamento in una sorta di indifferenza rispetto alle miriadi di informazioni ricevute, dove ogni notizia rischia di essere assorbita in modo anonimo dalle altre. Tutto sembra uguale a tutto e finisce quindi per banalizzarsi e perdere ogni carattere qualitativo. Così, rischiamo di non accorgerci delle persone e delle situazioni che richiedono la nostra cura specifica, il nostro pur piccolo intervento per ascoltare chi accanto a noi invoca in silenzio il nostro amorevole interessamento.

Riflessioni sulla contemporaneità

E se la legge 1859 non fosse esistita?

di Emidio Pichelan

L’ultima riforma organica del nostro ordinamento scolastico risale paradossalmente alla riforma Gentile 1923, poco meno di un secolo fa. Dopo ci sono stati aggiustamenti, adeguamenti, limature, ritocchi, riformine e controriformine; nessuno ha mai provato a pensare e progettare seriamente quello che potrebbe e dovrebbe essere la scuola del futuro”. Così si esprimeva, il 26 agosto scorso sul Corriere della Sera, il Rettore della IULM, Gianni Canova. Al di là del riferimento alla Riforma Gentile, espressione del contesto culturale, sociale e politico del ventennio fascista, il richiamo a “riformine e controriformine” sembra liquidare in modo superficiale e forse anche sprezzante una stagione di fervido dibattito e di straordinari cambiamenti della scuola che l’hanno resa sempre più inclusiva, attenta ai bisogni educativi dei singoli alunni, aprendola alla partecipazione delle famiglie e della comunità.
Ne è l’esempio la L.1859 del 1962, istitutiva della media unica e dell’obbligo scolastico a otto anni, di cui il 31 dicembre ricorreranno sessant’anni dall’approvazione [vedi Reginaldo Palermo su Agenda mese di novembre - n.d.r.]: una riforma autentica, “attuativa” dell’articolo 34 della Costituzione e, va da sé, dell’art. 3, il più emblematico dei dodici Principi Fondamentali. Dunque, traduzione legislativa del “diritto allo studio” delle masse popolari, fino ad allora, potremmo dire, “organicamente” escluse dalla scuola e dalla cultura.
Rileggiamo quanto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha detto nel suo intervento a Grugliasco, all’apertura del nuovo anno scolastico, per rivolgere un augurio a studenti, famiglie e professionisti della scuola. Il custode della Costituzione non entra in polemica con le opinioni dei cittadini; si avvale della moral suasion per ricordare, indicare, suggerire, raccomandare. Ma nulla vieta di leggere l’intervento del presidente Mattarella anche come una risposta convinta e convincente all’affermazione del Rettore IULM.
Il Presidente sillaba chiaramente tre temi palesemente “disorganici” alla legge Gentile e chiaramente “organici” al dettato costituzionale di cui la legge 1859 si fa interprete: la “centralità della scuola” per un futuro di sviluppo e di buona occupazione del Paese ricordando che il compito della scuola non è solo la preparazione di “tecnici, professionisti, scienziati, imprenditori del futuro”, ma anche la formazione dei “cittadini del domani, chiamati a realizzare una società armoniosa, aperta e solidale, nella quale i diritti fondamentali di ciascuno si contemperino con i doveri nei confronti della comunità”. Infine Il Presidente che per cultura e ruolo non può che scommettere sulla propria comunità, invitando a “pensare più al futuro delle nuove generazioni”, auspica un “grande patto nazionale, proprio sulla scuola, che coinvolga istituzioni, famiglie, docenti, cittadini”, a garanzia del “diritto allo studio” per tutti.
Recita l’articolo 1 della legge 1859/62:

In attuazione dell’art. 34 della Costituzione, l’istruzione obbligatoria successiva a quella elementare è impartita gratuitamente nella scuola media, che ha la durata di tre anni ed è scuola secondaria di primo grado. La scuola media concorre a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione e favorisce l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”.

La discontinuità tra il prima e il dopo 1945 è scritta nel verbo “concorrere”: nel disegno costituzionale, al centro è posta la persona (non lo Stato etico, lo Spirito universale gentiliano), al cui servizio (e al servizio della società e dei corpi intermedi) si pone lo Stato. Il ruolo della scuola è primario e deve trovare la collaborazione delle famiglie, della società civile, dei corpi intermedi. Da classista, elitaria, selettiva, nozionistica, autoritaria la scuola doveva diventare, ai sensi dell’art. 34 della Costituzione (e dell’art. 3, contraltare indiscutibile di “credere, obbedire, combattere”, “Dio, patria, famiglia”) di massa, di tutti. A iniziare dagli ultimi che aspettavano, da secoli, il riconoscimento e il rispetto dovuti a ogni essere umano, libero per nascita. “Tutti gli uomini nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” (1).
La vicenda della L.1859/62 e dei Decreti Delegati, che con le innovazioni significative della partecipazione e della sperimentazione costituiscono l’aggiornamento obbligato dalle scosse telluriche prodotte dal ’68, ha visto la partecipazione attiva di uno stuolo senza pari di ministri, pedagogisti, filosofi, sociologi, letterati, scienziati della politica di tutti gli schieramenti, la fioritura di riviste e di esperienze sul campo senza eguali nei decenni della storia repubblicana, una capacità di investimenti finanziari senza confronti. Abbiamo imparato, allora, e purtroppo dimenticato con l’avvento del neoliberismo, che nella scuola, come nella sanità, non si spende, si investe. È stata una stagione incomparabile per capacità di studio, di riflessione, di programmazione, di fioritura di idee. di proposte, di esperienze.
Un ricordo personale: rimangono indimenticabili, entusiasmanti le lezioni del prof. Pietro Ferrarino, titolare della cattedra di Filologia Latina a Padova, sulla nuova scuola media unica e sulla Lettera a una professoressa di don Milani, appena uscita (maggio del 1967). Eppure, la nuova media unica sopprimeva il latino, la ragione della sua vita professionale.
Mandare in soffitta – semplicemente - la “organica” legge Gentile, senza rimorsi né rimpianti, questo richiedevano i tempi e i cambiamenti culturali. Insomma, rispetto al 1923 e al ventennio, siamo in presenza di un mondo capovolto. Felicemente capovolto. Avrà pure avuto il pregio senza prezzo dell’organicità la fascistissima riforma scolastica del filosofo Gentile, ma non c’era dubbio che non aveva niente a che fare con la Costituzione repubblicana e con i nuovi tempi.
Dunque la L.1859/62 era semplicemente "dovuta". E, comunque, l’esperienza insegna che tra il dettato legislativo e la pratica sul campo c’è di mezzo il mare oceano. “L’uomo vuole sempre cambiare il mondo, ma mai sé stesso, per questo il mondo non cambia mai”, ha scritto Tolstoj. Don Milani scriveva le sue osservazioni sulla nuova scuola ai maestri e prof, non criticava il testo legislativo. A me, e a centinaia di migliaia di docenti, è capitato di esserci e di spendere una vita nell’attuazione al meglio degli articoli 34 e 3 della Costituzione, della legge 1859 del ’62, dei Decreti Delegati del 1974. E, come sempre, le resistenze sul campo sono state tante, cocciute, alcune comprensibili, altre semplicemente inaccettabili.
Si poteva fare meglio, di più. Certo. Di sicuro non si doveva tagliare, come teorizzato e praticato dai troppi fedeli della religione revisionista del neoliberismo del duo Thatcher-Reagan, negatori della c.d. società civile, e dello Stato come soggetto riequilibratore delle follie del mercato, quando lasciato in preda ai suoi spiriti primitivi.
Quello che premeva qui ricordare è che c’è stato un decennio riformatore straordinario e una legge di riforma del sistema scolastico di base dal successo totale. Prova ne è la letterale impossibilità di un ritorno a quella scuola selettiva, nozionistica, autoritaria, al triangolo della morte: lezione frontale-verifica/interrogazione-voto, a quei libri di testo, a quella centralità della cattedra, a quella selezione smaccatamente classistica. E si potrebbe continuare con il numero degli alunni per classe, con l’inserimento dei portatori di handicap (una conquista democratica, colpevolmente sottovalutata), con la relazione discente-docente …
Don Milani e il suo I care sono esistiti, hanno lasciato una traccia indelebile. Di quella stagione fuori del comune è testimone, anzi protagonista il Presidente che ha inaugurato il nuovo anno scolastico. Non è un alieno. Spetta a tutti noi non lasciarlo là, solo, come il cavaliere della trista figura (el hidalgo don Quijote de la Mancha). Spetta a tutti noi raccogliere quelle istanze culturali, tutt’altro che superate, tutt’altro che realizzate: il diritto allo studio, la formazione di un cittadino padrone di sé e protagonista del mondo, la costruzione di una comunità libera, democratica, responsabile, solidale, ecologista.

(1) UDHR, Universal Declaration of Human Rights, Dichiarazione Universale dei diritti umani, Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Parigi, 10 dicembre 1948.

Il peso del calendario civile

di Paolo Acanfora

Tra le molte novità che l’esito delle elezioni del 25 settembre ha prodotto va annoverata anche la rinnovata attenzione alle celebrazioni nazionali. Può sembrare ad alcuni una questione secondaria, addirittura strumentale, ma il tema è in realtà piuttosto centrale, soprattutto per una maggioranza fortemente motivata a presentarsi con la veste di una destra identitaria. Direi, in realtà, che il tema è rilevante in sé.
Siamo abituati ormai da molto tempo ad ascoltare analisti che tendono a cancellare o a mettere ai margini gli aspetti emotivi, simbolici, a-razionali del comportamento sociale. L’idea che il singolo individuo agisca dentro la comunità di appartenenza in modo pressoché esclusivamente razionale è piuttosto dominante nel dibattito pubblico. È, d’altronde, la premessa o l’assunto, che porta a definire e spiegare il comportamento individuale sul piano economico e politico come inesorabilmente teso al perseguimento del proprio interesse.
Eppure sappiamo benissimo che l’essere umano non è un tutto razionale, che la ragione non è la sola guida che caratterizza le relazioni interpersonali, quelle sociali come anche quelle economiche e politiche. Anzi, proprio gli aspetti simbolici e irrazionali sono fondamentali per comprendere quest’ultime. Generalmente, nell’immaginario collettivo tendiamo ad associare il pensiero mitico e simbolico alle grandi ideologie totalitarie del Novecento (il fascismo, il nazismo, il comunismo). I miti della nazione, della razza, della classe sono rappresentati come l’espressione più evidente dell’irrazionalismo politico del XX secolo. Al contrario concepiamo la democrazia come un fenomeno fondato sul pensiero razionale e sul libero arbitrio.
La questione è, in realtà, meno dicotomica di quanto si pensi. Vi è, com’è ovvio, un’interazione continua tra elementi razionali ed irrazionali in qualsiasi sistema politico. Sarebbe d’altronde impensabile che si possa passare da un sistema all’altro (per esempio dall’Italia fascista a quella repubblicana) eliminando o assolutizzando una delle due parti – entrambe essenziali all’essere umano. Come se fosse possibile accendere o spegnere un interruttore e passare da una piena irrazionalità al suo opposto. In realtà, sappiamo benissimo o dovremmo sapere che anche il pensiero democratico – che sia di tradizione repubblicana, socialista, cristiana o ancora liberale – ha avuto bisogno dei suoi miti e dei suoi simboli, concorrenti e alternativi a quelli comunisti, fascisti e nazisti.
La politica ha sempre necessità di coinvolgere gli individui e le masse – termine quest’ultimo che oggi non si utilizza più, se non in modo selettivo (per esempio in riferimento alla comunicazione) come se non fossimo dentro una società di massa ma in una società di individui pienamente emancipati, liberi di scegliere l’opzione più razionale in ogni ambito della vita associata. Non è così, naturalmente, ma è così che spesso ci rappresentiamo. Ovviamente, non sono mancate le soluzioni di continuità, i momenti di rottura. La società di massa di oggi non è la società di massa degli anni Trenta. E tuttavia, pur in un modo completamente diverso, pur dentro una società che ha spezzato e “liquidato” i legami sociali (i cosiddetti corpi intermedi), il bisogno di appartenenza, la necessità di definirsi attraverso delle identità precise è ancora – e non potrebbe essere diversamente – rilevante.
Le elezioni del 25 settembre ne sono, in qualche modo, una puntuale testimonianza. Il partito di maggioranza relativo è un partito fortemente identitario, legato a doppio filo alla propria tradizione, ripetutamente difesa con orgoglio – come la polemica sul simbolo della fiamma ha chiaramente dimostrato. Ma anche ai partiti usciti sconfitti, come il Pd o la Lega, è stato rimproverato di aver perso i propri elementi identitari originali – quelli della sinistra classista lato sensu (il recupero del voto operaio, delle classi meno abbienti, il tema delle diseguaglianze sociali) nel primo caso, quelli del federalismo (l’autonomismo delle regioni settentrionali dopo il tentativo nazionalista che pure aveva portato ad un significativo successo nelle precedenti elezioni, il recupero dello “spirito di Pontida”) nel secondo. La domanda identitaria rimane, dunque, tutt’altro che secondaria.
In questo clima politico-culturale, anche il calendario civile, le celebrazioni nazionali, svolgono un ruolo importante. Le sollecitazioni, i dubbi, le perplessità sulla partecipazione ai festeggiamenti del 25 aprile degli esponenti politici ed istituzionali della nuova legislatura palesano le difficoltà a convergere su un terreno comune, su simboli condivisi, su valori ritenuti da tutti la base indiscussa della convivenza civile, su identità che raccolgano il consenso della società nella sua interezza (o, più verosimilmente, di una sua ampia maggioranza). È un tema tutt’altro che nuovo, naturalmente. Ma oggi acquista un significato più pregno e rilevante. Non è un caso che sin dall’immediato insediamento del nuovo governo è emersa l’esigenza di indicare altre date celebrative come il 4 novembre (la “vittoria” nella Grande guerra, nel 1918) a lungo celebrato in Italia, poi dimenticato, poi di nuovo riproposto; o ancora il 17 marzo (la proclamazione del Regno d’Italia, nel 1861), riscoperto nel 2011 nei più che sobri festeggiamenti del 150esimo dell’unità del paese. Qualcosa, insomma, che nelle intenzioni dei protagonisti della destra radicale possa dare sfogo alla celebrazione dell’orgoglio nazionale.
Ad osservare tutto ciò con lo sguardo dello storico c’è però da registrare qualche dato meno scontato. Innanzitutto, non è poco significativo sottolineare che la tradizione politica da cui – pur nel quadro di diverse trasformazioni – proviene il partito di maggioranza è stata forgiata in origine dal mito della “vittoria mutilata”. Ossia dall’idea che la vittoria italiana nella Grande guerra fosse stata tradita da una classe dirigente inadeguata che non è stata capace di farla fruttare. Una data-simbolo che ha rappresentato più l’ostilità verso la classe politica nazionale che non il trionfo della nazione. Il 17 marzo è, invece, una data celebrativa dello Stato unitario. Data simbolo che ha, naturalmente, un posto fondamentale nelle celebrazioni del patriottismo italiano (è a partire da qui che si festeggiano i “giubilei della patria”) ma che pure è più il prodotto dell’abile diplomazia della classe dirigente piemontese che non del rivoluzionario spirito nazionale delle masse italiane.
Al netto di queste considerazioni – che certamente il corso della storia supera assegnando agli eventi valori diversi – queste due date-simbolo, pur non divenendo festività, sono state rivalutate da due figure presidenziali che certo poco hanno a che fare, per formazione e tradizione politica, con l’attuale maggioranza: l’azionista Carlo Azeglio Ciampi (presidente della Repubblica dal 1999 al 2006) che ha rivitalizzato il 4 novembre; il comunista Giorgio Napolitano (presidente della Repubblica dal 2006 al 2013 e poi ancora, per un secondo mandato, sino al 2015) che, nel quadro del 150esimo dell’unità d’Italia, ha rilanciato il 17 marzo. È un dato che ha il suo significato. Si tratta di due culture politiche – azionismo e comunismo – che hanno visto nel 25 aprile il trionfo della nazione antifascista, il recupero del binomio libertà-nazione proprio della tradizione risorgimentale, presentando la resistenza come il secondo risorgimento (quello sociale che seguiva a quello politico), espressione di una rivoluzione finalmente popolare che, ai loro occhi, “sanava” il difetto rivoluzionario del primo risorgimento. Un mito politico anch’esso, che rilanciava l’idea di una nazione che potesse tornare ad essere la casa di tutti, dopo l’identificazione esclusiva tra fascismo e nazione caratterizzante il regime. 17 marzo 1861, 4 novembre 1918, 25 aprile 1945 (a cui si potrebbe aggiungere il 2 giugno 1946) sono, dunque, le tappe di un percorso celebrativo della nazione che non presenta (o non dovrebbe almeno) fratture o divisioni.
Com’è ampiamente noto, nel corso dei decenni, non sono mancate strumentalizzazioni politiche, rivendicazioni esclusive, divisioni riverberatesi anche sul piano organizzativo. Ma certamente non si può dire che il 25 aprile non sia stata a lungo una data simbolo che rappresentasse la nazione italiana. Una nazione diversa ed opposta a quella fascista, dominata da partiti che proponevano diverse idee di nazione ma che pure operavano in un quadro politico comune. È senz’altro vero che in certi periodi (si pensi soprattutto agli anni Sessanta e Settanta) questa data ha acquistato un valore politico diverso in cui la nazione sembrava essere scomparsa dall’orizzonte celebrativo. Ma sono ormai decenni che il ritorno dell’idea di nazione (fenomeno globale, seguito alla fine della guerra fredda) ha ridato al 25 aprile questo significato. Per celebrarla oggi non occorrono abiure ma il semplice riconoscimento che i valori liberali e democratici, il pluralismo politico, la tutela delle minoranze, la garanzia dei diritti individuali e sociali sono patrimonio comune ed inalienabile della nazione italiana.

Emozioni, paure, speranze, etica: i tanti motivi per cui suona la campanella

Sarai messo nelle condizioni migliori perché il tuo apprendimento sia verificato

di Raffele Mantegazza

Lunedì verifica di italiano, martedì interrogazione di latino, mercoledì restituzione dei lavori di gruppo di inglese, giovedì due verifiche, scienze e fisica, e forse venerdì un compito a sorpresa di greco, perché con quell'insegnante non si sa mai.
(Domanda: ma perché non mettere in aula insegnanti un bel cartellone – o aprire un doodle. su cui ogni docente segna settimanalmente le sue verifiche, in modo che il collega può constatare che la settimana è già piena e magari programmare la propria verifica per la settimana successiva? È curioso che spesso gli insegnanti rimproverano ai ragazzi di non sapersi organizzare e poi danno prova in casi come questi di una incapacità di lavorare in gruppo, di pensare alla collegialità non solo come vuoto rito o come parola magica ma come metodo di lavoro concreto e efficace).

Al ritorno dalla lezione di educazione fisica dopo una giornata calda, sudati ed accaldati, occorre mettersi subito nei banchi per il compito in classe di italiano, c'è poco tempo, soltanto un'ora, occorre fingere di non sentire la presenza sudata del proprio compagno di banco e sbrigarsi a concludere il tema.
(Domanda: nell'attesa del momento nel quale finalmente i ragazzi vedranno riconosciuto il loro diritto a fare la doccia dopo le lezioni di fisica è possibile provare a capire, quando si inizia una verifica, che cosa è successo nelle ore precedenti e quali sono le condizioni fisiche e psicologiche degli studenti? La rigidità degli orari scolastici, che dovrebbe essere uno dei primi elementi a subire una modifica radicale in una reale riforma della scuola, ci costringe almeno per il momento a incasellare le nostre ore di lavoro con i ragazzi in una griglia della quale dobbiamo perlomeno tener conto, e mostrare agli studenti e alle studentesse che siamo perfettamente consapevoli che il nostro intervento è inserito in una giornata nella quale sono accadute alcune cose e ne stanno per accadere altre).

L’insegnante di inglese ha detto che la verifica è andata molto bene ma che siccome era troppo facile ha deciso di partire non dal dieci ma dall'otto con le valutazioni.
(Domanda: perché l’insegnante sta facendo pagare i ragazzi un proprio errore, del momento che è stato lui a programmare la verifica? Non si può semplicemente dire ai ragazzi che in quella verifica hanno avuto tutti i risultati alti, ma che nella prossima si metteranno alcune difficoltà in più e quindi che devono continuare a studiare e magari approfondire il loro studio, ma senza negare loro la valutazione data in questa situazione? Si parla tanto di sdrammatizzare il voto, ma comportamenti come questi lo rendono un feticcio, qualcosa che può essere modificato dal libero arbitrio dell'insegnante, che in questo caso oltretutto va anche contro la normativa).

Il professore universitario deve interrogare 25 studenti durante tutta la giornata, li convoca tutti alle nove, fa l'appello e poi li fa aspettare, fino all'ultimo studente che viene interrogato alle 17.
(Domanda: siccome è evidente che siamo di fronte ad una ridicola esibizione di potere è mai possibile che nessuno dica a questo insegnante che quello che sta facendo è sbagliato e che sta introducendo una iniqua sperequazione tra il primo studente interrogato e l'ultimo, stremato dall'assurda attesa?)

E poi Lucignolo scappa. E magari qualcuno lo porta anche dallo psicologo per capire che cosa non funziona nella sua mente, quando invece la fuga da questo modello di scuola è uno dei comportamenti più intelligenti e più razionali che una ragazza o un ragazzo possano mettere in atto. E abbiamo appositamente inserito un esempio dal mondo universitario perché molto spesso esso costituisce il vertice di una piramide di disattenzione nei confronti dei bisogni formativi dei ragazzi e dei giovani che sembra aggravarsi man mano che questi crescono.
La questione fondamentale è capire se le verifiche dell'apprendimento sono delle punizioni o sono delle occasioni per comprendere quanto i ragazzi e le ragazze hanno realmente appreso e per farlo capire prima di tutto a loro. È del tutto ovvio che se le verifiche vengono usate come strumenti di repressione, dicendo per esempio “siccome avete disturbato domani facciamo una verifica”, è poi ipocrita attendersi che i ragazzi credano veramente che l’operazione che si sta compiendo è una serena valutazione delle loro conoscenze.

Anzitutto occorre ricordare che accanto ai momenti di verifica formalmente previsti, che secondo noi non devono essere eliminati perché possono costituire delle ritualità anche interessanti dal punto di vista educativo, si può verificare l'apprendimento in molti modi: ascoltando le domande dei ragazzi, osservando le loro relazioni nei lavori di gruppo, cercando di valorizzare il loro contributo alla lezione. Il tutto potrebbe anche trasformarsi nel segno “+” messo sul registro, ma in realtà occorre andare al di là di questa strana concezione per cui a un intervento positivo corrisponde un segno matematico, e accertarsi che l'intervento dello studente o della studentessa sia stato condiviso dalla classe e diventi oggetto di apprendimento per tutti, e perché no anche per il docente.

Quando si parla poi di momenti di verifica formali, sembrerebbe rispondere a una semplice logica di buon senso il fatto che più lo studente è messo in condizioni di serenità, più ha la possibilità di restituire nella verifica ciò che ha capito è ciò che ha studiato. A volte sembra che ci si accanisca a far svolgere compiti e interrogazioni in un clima che è esattamente l'opposto di ciò che servirebbe per poter avere una valutazione il più possibile libera da elementi di disturbo esterni. Questo non significa che il collega che ha le ultime due ore del venerdì non debba mai interrogare i ragazzi, ma che deve esplicitare il fatto che comprende la loro stanchezza e che ne tiene conto, e che è certo che alle prime due ore del martedì il rendimento potrebbe essere diverso. Crediamo che tutti gli studenti di fronte a questa considerazione si sentirebbero compresi e cercherebbero comunque di dare il massimo per quanto consentito dalla situazione, proprio perché hanno visto che essa è presa in considerazione dall'insegnante.

Un'altra questione molto importante e spinosa riguarda i criteri di correzione delle verifiche che devono essere resi noti agli studenti in maniera chiara prima che la verifica abbia inizio. Conoscere i criteri di valutazione non è soltanto un diritto fondamentale di chiunque sia valutato, ma in questo caso è una importantissima scelta pedagogica, che porta a far crescere la capacità di autovalutazione. Purtroppo molti insegnanti pensano ancora che la parola “autovalutazione” comporti un'espropriazione del loro diritto-dovere di valutare, un agguato al loro ruolo, una messa in discussione della loro autorità; certamente ad essere sfidato è l'autoritarismo di alcuni insegnanti, ma la capacità di far crescere nei ragazzi e nelle ragazze la consapevolezza di ciò che stanno facendo e della possibile valutazione a cui saranno sottoposti i loro comportamenti e i loro prodotti è fondamentale, perché la valutazione e la verifica non siano pensate come strumenti ansiogeni.
Quando si parla un po’ genericamente nel fatto che la valutazione non deve trasformarsi in un giudizio sulla persona, la chiarezza negli obiettivi, nei metodi e nelle modalità di verifica e valutazione è un passo importante in questa direzione. Ovviamente il tutto nel contesto del quale abbiamo parlato prima, ovvero di una serenità non priva di quella tensione positiva che i ragazzi e le ragazze vivono quando battono il tiro libero decisivo in una partita di pallacanestro o si accingono a dare il primo bacio al loro partner, mae proprio per la potenza di queste emozioni non rinuncerebbero a quel momento così magico per nulla al mondo. È solo un'utopia pensare che anche una verifica scolastica possa essere vissuta in questo modo?

La scuola materna statale

di Reginaldo Palermo

Il tema della educazione “pre-scolastica”, come all’epoca veniva denominata, fu ben presente nelle intenzioni della politica fin dai primissimi anni della Repubblica.
Guido Gonella, il primo Ministro dell’Istruzione dal 1946 al 1951, nel suo progetto di riforma del sistema scolastico si era posto la questione senza peraltro riuscire a raggiungere un risultato concreto.
Alla fine degli anni ’50 si ebbe un primo tentativo di intervenire in modo più sistematico, grazie anche al “Piano di sviluppo della scuola” proposto dal ministro Giuseppe Medici.
In un corposo studio preliminare Medici forniva dati interessanti mostrando come dal 1951 al 1958 il numero degli alunni frequentanti le “scuole di grado preparatorio” fosse passato da 990mila a 1 milione e 80mila, con un incremento di insegnanti da 24.900 a 29.700.
Già allora, però, si osservavano importanti differenze territoriali: al nord i bambini che frequentavano l’ “asilo” erano il 59% del totale dei bambini di 3-6 anni; nell’Italia centrale la percentuale scendeva al 42%, al sud si arrivava al 37% mentre nelle isole si superava di poco il 34%.
Ma il limite principale riguardava le modalità di gestione delle scuole: solamente il 29% delle 16.650 funzionanti nel 1957/58 era gestito da enti pubblici (prevalentemente Comuni), il 26% era gestito da enti religiosi e il 44% da privati.
Sempre nel 1958 con il DPR 584 vengono emanati gli “Orientamenti per l’attività educativa nella scuola materna”, a carattere non prescrittivo, che evidenziano una impostazione ludico-ricreativa dando ampio spazio alla educazione religiosa e a quella fisica oltre che al disegno libero e al canto orale.
Per la verità già negli anni ’50 in alcune scuole private gestite da grandi aziende del nord si svilupparono esperienze pedagogiche altamente innovative (un esempio fra tutti è quello dei servizi educativi Olivetti di Ivrea per i quali Adriano Olivetti volle come consulenti pedagogisti e psicologi di fama nazionale).
Nel 1963 nacque a Reggio Emilia la prima scuola materna comunale della città, affidata alla direzione di Loris Malaguzzi che contribuì in modo significativo a costruire una nuova idea di “asilo”: si diffusero anzi le espressioni “scuola materna” e “scuola dell’infanzia”.
Con queste esperienze matura e si consolida sempre di più un principio psico-pedagogico fondamentale: i bambini e le bambine di tre-sei anni devono poter frequentare una “vera” scuola pensata su misura per loro, una scuola cioè finalizzata alle loro esigenze psico-evolutive; la scuola per questa fascia di età non deve rispondere solo ad esigenze assistenziali e neppure servire come “preparazione” alla scuola elementare.
I tempi incominciano a maturare e si inizia così a parlare con sempre maggiore insistenza di scuole materne statali, fino a che nel mese di dicembre 1964 viene presentato dal Governo il disegno di legge 1897 “Istituzione di scuole materne statali”.
Il dibattito parlamentare fu vivacissimo per tutto il 1965: la proposta di legge, sostenuta in particolare dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Socialista, venne osteggiata, per opposte ragioni, sia dal Partito Comunista sia dai partiti della destra (MSI soprattutto); per i comunisti la legge era troppo “timida” e non adeguatamente finanziata.
Il 19 gennaio 1966, a sostenere con forza l’approvazione della legge, si presentò alla Camera Aldo Moro in persona, all’epoca Presidente del Consiglio.
Moro pose la questione di fiducia che venne prontamente votata dai deputati della maggioranza di centro-sinistra.
Nella seduta del giorno successivo, però, i deputati furono chiamati ad approvare gli articoli della legge; la votazione, effettuata a scrutinio segreto, fu fatale per il Governo: si contarono 3 astensioni, 221 voti a favore e 250 contrari. Aldo Moro fu costretto alle dimissioni.
Pochi mesi dopo lo stesso ministro Luigi Gui ripresentò un nuovo disegno di legge che iniziò il suo iter parlamentare al Senato, arrivando poi alla Camera all’inizio del 1968.
Nonostante i molteplici tentativi di mediazione, alla fine l’articolo 1 sulle finalità della scuola materna rimase intatto: “La scuola materna statale, che accoglie i bambini nell’età prescolastica da tre a sei anni… si propone fini di educazione, di sviluppo della personalità infantile, di assistenza e di preparazione alla frequenza della scuola dell’obbligo, integrando l’opera della famiglia”.
Scontato il voto contrario del PCI e della destra, la legge venne approvata e il 18 marzo veniva pubblicata nella Gazzetta Ufficiale segnando in un certo modo anche il successo personale del ministro Luigi Gui che nel dicembre del 1962 aveva già firmato la legge sulla scuola media unica.
L’anno successivo, con il ministro Ferrari-Aggradi, venivano approvati anche gli “Orientamenti dell’attività educativa”: nasceva finalmente la scuola materna statale, il passaggio dall’asilo alla scuola dell’infanzia era ormai segnato.

Inclusione: una delle parole magiche della scuola

di Donato De Silvestri

Foto di Ralph da Pixabay

Se proprio si voleva cambiare di nome al Ministero, cosa che non ritengo così urgente e fondamentale, io, piuttosto che merito, avrei aggiunto inclusione.
Non voglio qui entrare nel merito del merito, perché molti altri lo hanno fatto in questo periodo. Tra gli altri mi è piaciuto moltissimo l’esaustivo richiamo di Ivana Barbacci alla Costituzione ed alla scuola di Barbiana. Ma vi confesso che la prima volta che ho letto la nuova dizione ho sorriso pensando alle infinità modalità con cui si esprime la creatività italiana. Si è aperta una nuova strada. Io proporrei anche Economia Finanze ed Onestà Contributiva, Difesa Pace e Fratellanza, Infrastrutture Trasporti e Guida Prudente, Salute e Longevità, Giustizia ed Equità Processale, Turismo Senza Code. Infine dedicherei un ministero tutto intero alla Responsabilità.
Ma, al di là dello scherzo e al cupo presentimento che altro non sia che un ennesimo cambiamento “gattopardesco”, io sulla porta di ogni scuola scriverei: Questo è il luogo dell’inclusione.
Una scuola infatti per essere BUONA, e BELLA, dovrebbe essere inclusiva, ossia capace di accogliere e valorizzare al massimo chiunque, favorendone lo sviluppo e promuovendone il potenziale. Talora si ritiene erroneamente che l’inclusione sia qualcosa che riguarda solo gli alunni che presentano forme certificate di disabilità o disturbi di apprendimento. Per capire il senso dell’inclusione basta riferirsi invece a quanto affermato dalla Costituzione: Art. 34: la scuola è aperta a tutti. Art. 3: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali dinanzi alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Il Piano d’Inclusione che ogni scuola è chiamata a predisporre annualmente dovrebbe riguardare tutti gli alunni perché, a ben vedere, ognuno di loro presenta Bisogni Educativi Speciali. La logica di riferimento dovrebbe essere quella dell’ICF (1) anche per chi non presenta problematiche di funzionamento patologiche. Ognuno funziona in modo diverso e sta alla scuola ed ai docenti creare dei contesti in cui siano progressivamente rimosse le barriere che impediscono di funzionare al meglio e siano attivati tutti i possibili facilitatori per favorire il pieno successo di tutti ed ognuno. Eccole le due parole che connotano l’azione inclusiva.
Barriera è un termine polisemico e può avere anche un connotato positivo come il Mose che vorrebbe salvare Venezia dall’acqua, o le barriere antirumore, e perfino magico come la barriera corallina. Ma nel nostro caso il concetto è quello di cancello, di chiusura, di impedimento, di qualcosa che non ti lascia passare, che ti esclude. Ci sono insegnanti convinti che ostacoli di questo tipo siano salutari, benefici, una sorta di necessaria legge di sopravvivenza che “darwinianamente” fa sì che siano i più forti, i più adatti al sistema, a progredire ed avere successo: premiamo il merito! Io con questi insegnanti ci vorrei parlare, senza ostilità, magari sotto un albero e con un bicchiere di vino. Vorrei parlare con loro dei danni che ogni anno, ogni giorno, questa insana idea di merito produce su un numero grandissimo di alunni di ogni età.
Un paio di mesi fa Save the Children ha pubblicato un rapporto dal titolo emblematico “Alla ricerca del tempo perduto”. Se ne ricava che il 12,7% dei nostri studenti non completa gli studi. L’abbandono scolastico, varia da regione a regione e ci sono zone d’Italia in cui tale percentuale raggiunge addirittura il 25%. Il confronto con l’Europa poi è deprimente, anche se si registrano vistosi progressi: la nostra dispersione è ben lontana dall’obiettivo del 9% indicato come traguardo da conseguire entro il 2030. Il tutto senza fare i conti con la cosiddetta dispersione implicita e con il malessere, talora devastante, che vivono anche molti studenti che i dati non classificano tra i dispersi. Ci sono troppi alunni che trascorrono una parte così significativa della loro vita sempre sentendosi inadeguati, con l’immagine di una continua serie di ostacoli, troppo alti, troppo frequenti, che non “promuovono” e non capiscono la soggettività, in nome di assurdi standard di omologazione, quasi sempre incompatibili con i documenti di sfondo che regolano gli ordinamenti scolastici e con i Ptof che dovrebbero guidare l’azione didattica.
Cercherei di ragionare sul concetto di facilitatore, che non esime dalla responsabilità, dall’impegno e dallo sforzo necessario che implica il “viaggio”. Da quando vado in montagna facilitato dai bastoncini da north walking le salite sono diventate più agevoli ed ho scoperto che anche un paio di scarpe adatte fanno la differenza. Indossare abbigliamenti diversi e percorrere diversi sentieri è forse una minaccia all’idea di equità nel raggiungimento della meta?
Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di immagini lontane dalla scuola e dai percorsi che la qualificano.
Parliamo dei suoi ingredienti allora. Parliamo di come può essere facilitata la produzione di un testo scritto, o l’attività di ricerca, o lo studio individuale. Perché noi nella vita quotidiana e nell’attività lavorativa ci facciamo aiutare dal word processor, mentre nella scuola si ritiene ancora che l’attività amanuense costituisca il solo modo di scrivere? Eppure la ricerca ha ampiamente dimostrato il valore aggiunto, anche in termini di scrittura cognitiva, facilitato dall’uso di un word processor. Già le ricerche di Hayes e Flower, spiegavano che la maggior parte dei problemi di scrittura, sia da parte dei bambini che da parte degli adulti, deriva dalla mancanza di un controllo e di una guida consapevole del proprio processo di composizione. L’uso di un word processor consente di abbassare il carico cognitivo separando la fase di ideazione, da quella di produzione, di equilibrazione delle parti, di riscrittura, di revisione, di presentazione formale. È inoltre possibile cooperare nella produzione del testo e farlo diventare mutimediale e ipertestuale. Prendiamo poi la questione dello studio, che è, non a caso, l’agente di successo/insuccesso prevalente nel modello didattico ancora così diffuso nelle nostre scuole. Mi riferisco a quello che parte dalla lezione, che fa seguire l’esercizio e che richiede che a casa si svolga il lavoro più impegnativo: la riflessione e l’approfondimento. Tralascio la questione della verifica e della valutazione formativa che necessiterebbero una ben più ampia trattazione.
Ebbene, un modello alternativo alla linearità del suddetto algoritmo è quello della Flipped Classroom, che spostando a scuola il momento della riflessione, può costituire un efficace aiuto per molti alunni, quelli che nei consigli di classe vengono identificati con: non ha un buon metodo di studio o non si impegna, non dedica la giusta attenzione ai compiti. Vygotskij parlava di area di sviluppo prossimale, ossia di quel meraviglioso spazio in cui la presenza facilitante dell’adulto o dei compagni rende possibile anche ciò che sembrerebbe impossibile.
Togliamoci una volta per tutte l’idea che la buona farina sia solo quella che “esce dal proprio sacco”: assieme si producono farine migliori ed è la complementarità e l’agire in gruppo che contraddistingue anche le più grandi imprese: dalla scalata di una vetta, alla scoperta di un vaccino, alla realizzazione di un percorso scolastico dignitoso, in cui qualità significa arrivare tutti nel migliore dei modi possibili.
Personalizzare e facilitare non abbassa la qualità e non costituisce un’ingiustizia: tutt’altro.
Ho appena terminato un corso all’università dove insegno e due studenti con DSA hanno ottenuto il massimo dei voti con il ricorso a dei, oserei dire banali, facilitatori. Ma questo si sa, la scuola sembra averlo accettato, purché vi sia una certificazione ufficialmente riconosciuta. Anche quest’anno poi ho avuto un gruppo di studentesse in Erasmus provenienti dalla Spagna e mi sono chiesto come facilitare il superamento dell’evidente barriera linguistica di chi si trova da poco a studiare all’estero. Ho cercato di usare a lezione un linguaggio chiaro ed un ritmo accessibile, ho utilizzato molto immagini e grafica. Ho poi accettato che scrivessero in spagnolo i loro elaborati individuali e le prove d’esame. Era quello che io potevo fare, altri probabilmente avrebbero potuto escogitare altre modalità per includere quelle studentesse.
Sono consapevole che nella mia attività di docente non c’è nulla di eroico, figuriamoci, ma nemmeno di particolarmente originale. Cerco soltanto di ascoltare e di adattarmi ai bisogni ed ai desideri dei miei studenti. Cerco che alla fine del corso i loro esiti siano comunque positivi, sostenendo e sollecitando, mettendomi in discussione e rinunciando al potere che potrebbe derivarmi dal porre delle barriere fin troppo facili da inventare.
Penso che, in fin dei conti, sia quello che ci si aspetta da chi dovrebbe fare dell’Istruzione e del Merito la propria appartenenza.
Scriviamolo allora, se non sulla porta della scuola almeno sull’idea che di essa abbiamo: questo è il luogo dell’inclusione.

Scelta per noi da Leonarda Tola

L’originalità è già nell’oggetto libro dell’editore Rrose Sélavy (Macerata), casa editrice (2012) che pubblica pochi libri l’anno di autori che scrivono libri per ragazzi, anche per la prima volta. Dietro ogni libro un’accurata scelta editoriale nella stampa, la carta, il formato, il carattere. Così si arriva al libro Pietra Pane e il mondo che c’è (2021) di Simona Baldanzi e dei coautori ai quali si devono la presentazione (Paola Zannoner) e l’illustrazione della copertina (Manfredi Ciminale): color giallo sole, intarsiata da quattro fori a figura geometrica che rimandano all’interno per l’immagine intera.
Un volumetto di circa 130 pagine che potrebbe essere un ebook a costo di intristirsi intimamente. Un libro da consigliare ai ragazzi (dai 9 anni) da adulti invitati a leggerlo.
Chi è Pietra Pane? Una bambina che vuole crescere, dura come la pietra e soffice come il pane: il contraltare femminile dell’universale Peter Pan, piccolo per sempre nell’
isola che non c’è dell’infanzia incantata.
Pietra Pane vuole nascere alla svelta da una madre levatrice che fino ad allora aveva fatto nascere altri bambini: si affaccia sulle pietre del lavatoio, ai piedi del fiume, pelle color miele e occhi sfolgoranti del grigio delle rocce e dell’acciaio. Figlia di un
amore a filo di lama: un padre artigiano affilatore di lame, misteriosamente perso da bambina e poi fiabescamente ritrovato. Pietra cresce in fretta e aiuta la madre quando si leva il primo vagito del bambino: a tagliare il cordone ombelicale con il piccolo coltello dal manico di corno, prezioso talismano paterno che tiene sempre in tasca; riescono gli ombelichi più belli del mondo, a forma di mandorla, di vulcano o di tortellino. Tra le donne che lavano i panni al fiume Petra è forza della natura che dispensa energia e vita allegra. Si accompagna con un merlo parlante dal collare bianco che educa alle domande e alle risposte, alla comprensione del mondo che c’è da cui è fortemente attratta. Un natante fiabesco, un veligibile che solca il mare comandato da un Capitano con la missione del sequestro di tutte le armi, causa di dolore e di morte; dove una moltitudine di affiliati al bene si uniscono per disarmare le fabbriche dell’odio, depotenziando l’uso letale delle armi di ferro e di alluminio e di ogni metallo per farne arnesi della vita e del lavoro: magari tubature per l’acqua in un Paese che non ce l’ha. Una riconversione radicale che salva la bellezza tenace della materia del mondo nel riciclo verso un uso di cambiamento e di pace. Saranno poi le api di tutto il mondo a donare il miele da lasciare nelle stive svuotate di armi, vera dolcezza contro le guerre.
La storia di Pietra Pane non sarebbe una fiaba se non celasse lo scrigno d’oro dell’amore: una ragazza e un avventuroso Capitano, una madre che aspetta il ritorno del padre di sua figlia. Bella storia di crescita e di compimento al gusto dolce del miele.

E navigar è dolce…

TUTTE LE BAMBINE CRESCONO
Tutte le bambine crescono, ma alcune crescono più velocemente di altre. Pietra Pane era una di queste. Sua mamma l'aveva svezzata dopo pochi mesi, c'era poco tempo da perdere e tanto lavoro da fare e anche la bambina, con quel caratterino, ci aveva messo del suo. Lo aveva capito subito che doveva crescere alla svelta, e non le dispiaceva affatto.
Se non fosse nata a quel modo, se non avesse imparato a camminare e poi a saltare e poi a pescare, se non avesse avuto un pennuto come amico, se non si fosse fatta delle domande e non le avesse affidate al fiume, se non avesse avuto quel coltello in tasca, se non fosse stata curiosa del "Mondo che c’è" non staremmo qui a interessarci a lei. Insomma, se non fosse cresciuta, non avrebbe vissuto tutta quest'avventura e ci dispiacerebbe perché oggi non ci sarebbe niente da raccontare.
Pietra Pane sta distesa sotto un albero a dormire. La maglietta le copre l'ombelico. Che forma ha il suo ombelico? Nessuno lo ha mai visto. Poco prima di addormentarsi sotto l'ombra dell’albero Pietra Pane ha ripiegato un pezzo di carta dentro una bottiglia. Sogna suo padre e quando le capita la lama che tiene in tasca brilla, pulsa d'argento. Questa cosa magica accade da quando è. piccolissima, ma lei non la sa, perché succede sempre quando dorme. Un giorno quella lama smetterà di pulsare. Però quando accadrà? Anche le storie nascono e poi crescono, ma non così in fretta, sennò che gusto c'è? Quindi ripartiamo dall'inizio, da come Pietra Pane arrivò nel "Mondo che c’è”.

TRA LA PIETRA E IL PANE
Quella mattina la donna si recò al fiume con la cesta dei panni da lavare. Salutò le compagne, stese una tovaglia sulla pietra e iniziò a sfregare il pezzo di sapone. Poi alzò il capo e disse: «Ci siamo».
Aveva sempre aiutato a far nascere i bambini degli altri, ma ora era lei con la pancia gonfia sotto il poncio di lana. Non avrebbe fatto in tempo a tornare a casa, se lo sentiva.
Le altre donne distesero un po' di lenzuola e altri panni sull'argine del fiume e l'aiutarono. Erano i primi freddi e il fiato che si alzava da quelle gonne diventava un cerchio di vapore.
Sulle pietre del lavatoio, ai piedi del fiume, si alzò un pianto. E urla di gioia. La partoriente indicò alle donne il cesto dei panni dove custodiva un piccolo coltello col manico di corno. Serviva per tagliare cordone ombelicale.
Dalla strada sopra l'argine passò il fornaio col suo carretto. Una delle lavandaie gli urlò agitando il braccio: «È nata la figlia della levatrice. Aiutaci!»
L'uomo diede una mano alla donna con la bambina in fasce a salire sul retro del carretto. In mezzo alle balle con dentro il pane ancora caldo, la bambina si attaccò al seno della madre. In quel momento la donna decise che l'avrebbe chiamata Pietra Pane.
Il "Mondo che c'è", duro come la roccia e morbido come il pane, aveva accolto un'altra bambina pronta a crescere.

Tratto da: Simona Baldanzi, Pietra Pane e il mondo che c’è, Rrose Sélavy, 2021.

Passo

di Gianni Gasparini

Passo è una tipica parola polisenso, che si presta a molteplici accezioni e apre in direzione di numerose esemplificazioni e spunti applicativi.
Anzitutto, il passo è il gesto costitutivo e l’elemento-base di un cammino che si svolge a piedi. Iniziamo allora da qui, dal passo che esprime la fisicità di un movimento coordinato e alternato di un piede davanti all’altro, di seguito, per un tratto che potrà essere breve o lungo e che avrà una certa andatura e direzione, seguirà un dato ritmo, si svolgerà su un terreno determinato, avrà un modo d’incedere di un certo tipo, e così via.
Il gesto del camminare passo dopo passo è uno dei più antichi e ricorrenti nella condizione umana: un gesto che si è mantenuto dalle origini ad oggi. Si potrebbe affermare che il camminare è uno dei pochi o pochissimi comportamenti indifferenti a quella che oggi chiamiamo la modernità, un gesto a-moderno per così dire. Si camminava moltissimo nelle società antiche e preindustriali, dove a meno di avere una cavalcatura si ci spostava a piedi anche per lunghi tratti; si è continuato a camminare nelle società industrializzate, anche se in misura inferiore data la presenza di mezzi di trasporto meccanici per via di terra, d’acqua e d’aria che rappresentano anzi uno dei tratti tipici di tali società; e si ritorna, nelle società attuali (postindustriali? postmoderne?), a valorizzare il gesto del camminare a piedi, sia nella natura wild che negli spazi urbani. Oggi, tra l’altro, si riprendono antichi e lunghi percorsi a piedi come il Camino de Santiago, la Via francigena ed altri.
Tra le altre accezioni di passo che è opportuno nominare vi sono quelle legate in un modo o nell’altro al tempo: il passo è in questo caso un atto, una decisione, una iniziativa che si prende ad un certo momento e che segna un cambiamento in chi la prende e/o in chi ne porta le conseguenze. Penso anche a locuzioni come “fare il primo passo”, “fare un passo falso” o “decidersi al gran passo”.
Passo si confonde e si sovrappone spesso a passaggio, termine anch’esso di grande pregnanza e di svariati usi. Il passaggio può alludere a una porta (come nei riti di passaggio studiati da Van Gennep e dall’antropologia culturale), un’apertura, un pertugio; in montagna, a un transito, un varco, un valico tra una valle e l’altra. Il passaggio è anche il passare o il trascorrere del tempo; in senso figurato il grande passaggio, ben presente come tale nelle culture arcaiche, è la morte, il trapasso che attende ogni essere vivente e ogni uomo, da questo a un altro mondo.
Tra le molteplici accezioni di passo, personalmente privilegio quella che allude alla fisicità del camminare, e cioè di un movimento che richiede anzitutto le gambe e i piedi ma impegna e coinvolge tutto il corpo. In un sistema sociale globalizzato che ci ha abituato agli spostamenti veloci e iperveloci come quelli che avvengono per via aerea il passo del camminare ci educa e rieduca agli spostamenti relativamente lenti, graduali e continui, ci permette di valorizzare lo spazio che attraversiamo con la nostra dotazione di base di mammiferi eretti e camminanti, ci apre spesso a dimensioni di bellezza della natura – persino in città – che una fruizione meccanica e troppo veloce ci aveva impedito. E ci permette anche – last but not least – di aderire ad una dimensione sostenibile dei consumi energetici, in linea con il cambiamento climatico in atto.

"La carezza della scienza". Tra scuola, fede ed Europa

di Luigi Lo Papa

Altro prezioso contributo di pensiero di Sergio Pargoletti alle comunità nelle quali agisce operoso.
La carezza della scienza
, pubblicata da Edizioni Radici Future, Bari, la nuova fatica letteraria, densa di argomenti e di riflessioni, tratta un tema spinoso, sensibile, che ha diviso e continua a dividere non solo l’opinione pubblica.
Pargoletti, saldo nelle sue legittime convinzioni, mette il lettore, il cittadino con le spalle al muro: non bisogna aver dubbi, bisogna aver fiducia nella ricerca e nelle scienze per garantirci lo star bene, la sostenibilità ambientale, la coesione sociale e la stessa democrazia. Senza fiducia non c’è relazione, non c’è dialogo, non c’è accoglienza, non c’è solidarietà, non c’è responsabilità sociale. Pargoletti individua l’elemento principe di prova della validità della scienza medica nel dato inoppugnabile della longevità, della qualità della vita, esiti fecondi dello sviluppo della medicina e della pratica dell’igiene.
I vaccini contro il Covid-19, prodotti in tempi record, hanno ridotto ospedalizzazioni e morti.
Giornalista e saggista, serio, Pargoletti ricorda a se stesso e ai colleghi di verificare l’attendibilità e l’autorevolezza delle fonti nello svolgimento del proprio lavoro.
Si interroga sul perché dei comportamenti diffusi di contestazione violenta, di dispregio dei vaccini e della scarsa considerazione se non del rifiuto dei risultati della ricerca, presupposto ineliminabile per la fondazione, la legittimazione delle scienze.
Annota, con cura, una serie di eventi, di atteggiamenti “antiscientifici”.
Esamina la situazione italiana in occasione della pandemia e rileva il ruolo che hanno giocato i media, il web, in particolare, le parti sociali e, non ultimo, la schiera degli epidemiologici, che hanno occupato la Tv; ruolo, chiosa, con disappunto, non sempre adeguato rispetto all’improvvisa comparsa di un virus in una condizione socio-economica già critica che richiedeva e richiede misura e prudenza.
Un eccesso di informazione – infodemia – ha generato confusione, disorientamento, inquietudine e discredito nei confronti delle stesse istituzioni.
Prende le dovute distanze dallo scientismo, dal dogmatismo e dalle forme di semplificazione, di demagogia, di propaganda, di spettacolarizzazione degli opinionisti da strapazzo in cerca di consenso.
La scienza, afferma, non è un talk show!
Dalla lettura del testo si evince la netta distinzione tra scienza, opinione e le cosiddette dottrine – discipline ad uso ideologico, politico.
La scienza non è affidata all’ispirazione del singolo ricercatore ma ad una comunità che si dà, in un processo sempre aperto, codici di comportamenti, regole e tecniche, sottoposte ai principi di dimostrazione, correggibilità, validazione o di falsificazione, per dirla alla Popper.
All’opinione manca la garanzia di certezza, di validità e di consenso.
Tra le dottrine ad uso ideologiche, le più lontane dalla ricerca della verità, Pargoletti cita l’Eugenetica, che ha avuto cultori anche in Italia. Il pugliese Nicola Pende è considerato uno degli ispiratori delle politiche razziste e antisemite del nazifascismo.
Discipline, che predicavano il determinismo genetico, che ha prodotto mutilazioni ed orrori indicibili, dimostratesi, nel tempo prive di fondamento scientifico. La personalità, infatti, è combinazione di dati biologici e di tanti altri fattori, tra i quali assumono rilievo: il clima vissuto in famiglia, il livello culturale, le istituzioni educative, il contesto politico e socio-economico, la disponibilità finanziaria, le esperienze personali.
Dall’analisi dei comportamenti tenuti durante questa persistente pandemia emergono, a mio modesto parere, due visioni, due concezioni di pensiero, di azione e di valutazione che hanno condizionato orientamenti e azioni non solo degli italiani: la concezione razionale, guidata dal principio del dubbio, dell’errore, del riscontro continuo che rendono affidabile, nel caso in discussione, il tampone, il vaccino e la concezione che chiamerei mitica, prelogica che poggia sul sentito dire, sulle credenze, sulla pigrizia mentale, sul complottismo, sul pregiudizio, modelli culturali anacronistici che non reggono la prova delle esperienze e del pensiero critico.
Ma, come sempre accade nelle situazioni problematiche, quando si sperimenta la fragilità della condizione umana, l’impotenza, l’angoscia e la paura e si percepisce il futuro come minaccia, l’uomo pretenderebbe dalla scienza anche l’impossibile, l’immortalità, dimentico del memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris.
Pargoletti, nella sua visione olistica della persona, che non è riducibile ad un grumo di cellule, a una macchina anche se perfetta, si pone la domanda delle domande: chi è l’uomo?
Ricordo un salmo che dice: “Che cosa è l’uomo, perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Di poco inferiore lo hai fatto agli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato, gli hai dato potere sulle opere delle tue mani”.
E correlato a questo punto di domanda si chiede se davvero dobbiamo accettare la risposta inquietante del Dio è morto, che ha dato origine alla cultura del relativismo, del nichilismo.
L’aspirazione all’Assoluto, il desiderio di Trascendenza, il bisogno del Soprannaturale, racchiusi nella finitezza dell’uomo, porta Sergio Pargoletti a rimarcare i limiti della scienza. “La scienza può molto, ma non può tutto”; essa può assicurare progresso, sviluppo, crescita ma non placa l’inquietudine, non dà risposta alla dimensione misteriosa dell’uomo in cerca di verità, identità, di senso dell’origine e del fine della sua esistenza.
Per illuminare la condizione dell’uomo tutto intero non bastano le scienze esatte; vanno valorizzate tutte le discipline, da quelle classiche, Teologia, Filosofia a quelle nuove, le scienze umane; Pargoletti annette importanza all’Antropologia Culturale.
Credo che egli, nella sua riflessione sulla condizione umana, inviti a considerare lo specifico di ciascuna scienza, non gerarchizzandole, ma chiamandole a convergere e solleciti a recuperare una concezione autentica di cultura quale concezione dell’uomo, visione della realtà, tavola dei valori supremi, universali che ci rendono umani.
A chi fatica a non credere, a non aver fiducia nella scienza Pargoletti suggerisce di scommettere come Blaise Pascal sull’esistenza di Dio. Se esiste Dio, ho guadagnato il Paradiso, se non esiste ho perso niente, dichiarava l’illustre filosofo.
Cosa fare?
Da educatore attento, insegna Diritto e Economia, Pargoletti è consapevole che non sarà l’intelligenza artificiale, strumento a servizio dell’uomo, a risolvere i gravi problemi dell’umanità. Avverte che la questione ecologica è divenuta questione antropologica, il futuro del pianeta Terra è nella mente, nelle mani, nell’opera creatrice dell’uomo e che le scelte, gli stili di vita personale hanno ricadute sulle comunità nelle quali viviamo.
Bisogna, allora, non ci sono alternative credibili, investire sull’emergenza educativa e formativa. Prendersi cura di ciascuna persona. La sfida si vince nella scuola, nella formazione, con le conoscenze. Per cambiare il mondo bisogna conoscerlo. Superare il deficit di formazione scientifica, lavorando ad uno statuto, ad una didattica interdisciplinare e formare personalità capaci di pensare in proprio, di leggere e interpretare la realtà, ricercando le cause reali dei fenomeni, degli eventi.
Non è un caso che Pargoletti consegni il testo alle giovani generazioni. La Scienza deve essere vissuta non come un atto di violenza, un limite alla propria libertà e un tradimento delle regole del vivere insieme, ma dono, un atto d’amore, una carezza. La carezza si fa con le mani; la scienza e la tecnica devono dare una mano, rendere un servizio a ciascuno di noi per realizzare un benessere equo e sostenibile.
Non meno sorprendente, significativo lo scenario del prossimo futuro tracciato nella seconda parte nella quale Pargoletti segnala alcune sedi, strutture nelle quali si fa ricerca medica avanzata: il Distretto dell’innovazione di Milano, il Distretto Biomedicale del Salento, il progetto Deeper che apre, con l’Optogenetica, prospettive nuove per la cura delle malattie degenerative dell’occhio e delle patologie neurologiche, pensiamo all’Alzheimer.
Innovazioni e tecnologie delle scienze della vita finalizzate a ricreare le condizioni di uguaglianza e fare giustizia, che va intesa come difesa della vita e della dignità della persona.
Pargoletti, sintetizzo, declina la giustizia in tre ambiti interconnessi: proteggere, in ogni modo, la vita, senza valutare, com’ è successo nella pandemia, chi salvare; il rispetto della vita è dovere e comandamento supremo dell’esistenza umana; salvaguardare il creato, ricreandolo con la sostenibilità; garantire la sicurezza sul lavoro e praticare la giustizia sociale, mezzo insostituibile per vivere insieme in comunità.
Nella lettura di questa parte dello splendido saggio il pensiero è andato a Laudato sì e Querida Amazzonia di Papa Francesco. Oggi si parla tanto di giustizia ambientale.
Sergio Pargoletti, da attento analista e acuto osservatore politico, sa bene che la risposta educativa e formativa, l’investimento sul capitale umano sono strumenti fondamentali, necessari ma non sufficienti per dare soluzione alle inedite emergenze che travalicano i confini, non solo fisici, dei singoli stati.
Siamo ad un bivio, la guerra dissennata in Ucraina, ci riporta ai fantasmi, agli orrori del passato con il riemergere del virus, del dogma del nazionalismo, che rischia di rinchiuderci in comunità rancorose e instabili. Resta inconcepibile oggi pensare la cittadinanza confinata in uno stato-nazione.
Se non vogliamo condannarci all’insignificanza politica sullo scacchiere mondiale dove si confrontano, anzi si scontrano giganti, va colta l’opportunità offerta dalla pandemia. È il momento di osare, di realizzare il sogno degli Stati Uniti d’Europa, divenuti urgenza e necessità culturale, politica, militare, economica, sociale, istituzionale e storica.
L’Europa, durante la pandemia, è stata ciò che vuol diventare: Stati Uniti d’Europa.
Se vogliamo consolidare il nostro modello di società occidentale libera, multiculturale, multireligiosa, rispettosa dei diritti delle tante etnie e culture, adesso è l’ora del passo decisivo.
Al mondo intero, dichiara Pargoletti, serve l’exemplum Europa Unita, coscienza critica del Pianeta Terra.
Il modello della civiltà europea si caratterizza per i giacimenti culturali, la qualità del patrimonio scientifico, gli standard di libertà e istituzioni democratiche e, soprattutto, per lo stato sociale, strumento pregiato, capace di coniugare crescita eco-compatibile con equità. Preservare, riqualificare ed estendere il welfare significa riconoscere a ciascuno il diritto inalienabile all’istruzione, alla salute, al lavoro, alla previdenza, all’inclusione e far crescere la consapevolezza di essere un solo pianeta, una sola umanità o essere Fratelli tutti, condizione indispensabile per garantire gli ideali di sicurezza e di pace, minacciati di cui abbiamo estremo bisogno.

A cura dell'Ufficio Sindacale CISL Scuola

Rinnovo CCNL
A partire dal 1° dicembre e in date successive ancora da concordare prosegue la trattativa per il rinnovo del CCNL relativo al triennio 2019/2021, dopo la firma della sequenza che anticipa quasi interamente la parte economica (vedi notizie e documentazione sul nostro sito). Oltre al completamento di quest'ultima, presumibilmente dopo l'approvazione della legge di bilancio, occorre definire tutti gli aspetti della parte cosiddetta "normativa". Nell'immediato il confronto si incentra sulla definizione dei nuovi profili professionali personale ATA, a partire dalla valorizzazione del profilo DSGA da collocare nelle elevate qualificazioni (sul modello adottato dal CCNL delle funzioni locali, debitamente adattato) e di un nuovo inquadramento del personale assistente amministrativo facente funzione.
Altri nodi da affrontare sono le progressioni orizzontali e verticali del restante personale ATA, l’aggiornamento dei profili (con particolare riguardo a quello degli assistenti tecnici del primo ciclo), la formazione in servizio, le posizioni economiche.

CCNI sulla mobilità
Continua presso il Ministero la serie di incontri finalizzati all’aggiornamento del CCNI dell'anno scorso, a seguito delle modifiche introdotte da disposizioni di legge nel frattempo intervenute. La CISL Scuola è impegnata in particolare nella rimozione del vincolo di permanenza sulla sede ottenuta dai neo assunti a tempo indeterminato per il restante periodo di vigenza del contratto (movimenti per il biennio 2023/24 e 2024/25). Altri interventi di manutenzione riguarderanno la definizione delle precedenze (derivanti da situazioni di assistenza) dopo le recenti novità introdotte dal D.Lgs. 105/2022.

Legge di bilancio
Il mese di dicembre vede come sempre il dibattito parlamentare per l’approvazione della legge di bilancio; Confederazioni e federazioni di categoria sono impegnate nel confronto col Governo e con i gruppi parlamentari per sostenere le correzioni che ritengono necessarie al testo in discussione. Se ne darà conto puntualmente attraverso i consueti canali informativi (sito, newsletter, canali social).

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Aggiornamenti in tempo reale e più dettagliate informazioni sulle iniziative eventualmente promosse dalle strutture territoriali sono disponibili sul nostro sito e in particolare nella pagina degli “Appuntamenti.

I NOSTRI AUTORI

Paolo Acanfora, docente di Storia contemporanea all'Università La Sapienza di Roma.

Donato De Silvestri, professore a contratto di Progettazione e documentazione del lavoro socio-educativo presso l’Università di Verona. Ha pubblicato: Didattica. Essere buoni docenti oggi, Tecnodid 2020.

Gi(ov)anni Gasparini, sociologo e scrittore. È autore di scritti di sociologia, poesia, critica letteraria, teatro, spiritualità, natura.

Luigi Lo Papa, laureato in filosofia e già docente di scuola secondaria, è stato segretario nazionale del SISM CISL e componente del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione.

Raffaele Mantegazza, pedagogista, educatore, saggista e narratore. Docente universitario. Uno dei suoi ultimi libri: La scuola dopo il coronavirus, Castelvecchi 2020.

Reginaldo Palermo, già maestro e dirigente scolastico, giornalista pubblicista, ha collaborato con riviste di pedagogia e didattica. Attualmente è vicedirettore di La Tecnica della Scuola.

Emidio Pichelan, insegnante e sindacalista della Cisl. Formatore del Centro Studi Cisl. Ha fatto parte del CdA del Cede e del Cedefop a Berlino.

Leonarda Tola, studi classici. È stata insegnante e dirigente scolastico, è giornalista pubblicista. Collabora da tempo con la nostra rivista Scuola e Formazione.