Dicembre 2020

In questa pagina:
Cose da fare: Giù le mani dal Natale... (Maddalena Gissi)
Ragionando di comunità: Una scuola dove la vita vi entra (Ivo Lizzola)
Hombre vertical: Va, va, ma non sa bene dove va (Emidio Pichelan)
Aforismi: Elogio della donna. Buona… saggia… forte… fedele… (Leonarda Tola)
Sul filo del tempo: Stella solare (Sylvie Germain)
Un anno con Pinocchio: Il babbo di Pinocchio (Gianni Gasparini)
Frammenti: Un racconto di Natale? (Gianni Gasparini)
Invito all'ascolto: Il Kyrie di Branduardi (Claudio Zonta S.J.)
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COSE DA FARE

Giù le mani dal Natale...

di Maddalena Gissi

Giù le mani dal Natale. Così un noto politico si è espresso per manifestare il proprio dissenso (almeno così è parso di capire) rispetto a possibili misure restrittive che il Governo potrebbe adottare, o non rimuovere se già operanti, per limitare gli eccessi di affollamento che di consueto si registrano in occasione delle festività natalizie e che facilmente sarebbero prevedibili anche per le prossime, ormai imminenti. Ci possiamo permettere, persistendo la pandemia, di trascorrere ore e ore in negozi e magazzini più o meno grandi, stipati all’inverosimile, come già successo con le discoteche di agosto e con i mezzi di trasporto a settembre? Possiamo pensare a grandi raduni fra le mura domestiche senza temere che ogni effusione, ogni abbraccio, o anche il semplice discorrere attorno a un tavolo si trasformi in un pericoloso veicolo di contagio? Se si ritiene che dietro a queste domande si celino preoccupazioni eccessive o addirittura infondate, bisognerebbe dirlo apertamente e assumendosi chiaramente la responsabilità delle proprie affermazioni, specie se si ricopre un ruolo di rappresentanza politica il cui esercizio implica che alle affermazioni segua l’assunzione di decisioni coerenti e conseguenti. Non vorremmo ri-assistere a un film già visto, con i sostenitori estivi del “liberi tutti” prontissimi a trasformarsi, in autunno, nei più accaniti censori della colpevole imprevidenza di chi non avrebbe fatto abbastanza per prevenire il riaccendersi dei contagi (ecco perché l'inciso messo tra parentesi all'inizio di queste note).

Giù le mani dal Natale… A ben vedere ci sarebbe anche un modo diverso di leggere quell’espressione. Perché tante altre mani, irrispettose e soffocanti, sono state messe ormai da tempo su una ricorrenza che un consumismo dilagante e trionfante ha in larga parte snaturato, oscurandone il significato più vero e profondo. Quello che la bella tradizione del presepe ci restituisce con immediatezza e semplicità nella sua dimensione più autentica: la venuta al mondo di un Bimbo che nasce in una stalla perché non c’è posto nell’albergo per la sua famiglia. Un Bimbo che viene per annunciare “ai poveri il vangelo di salvezza, la libertà ai prigionieri, agli afflitti la gioia”. La festa nasce per ricordare quell’evento, un ricordo che si fa meditazione, anche per chi non è credente, portandoci a vedere quanto vi sia, in quella nascita, di liberatorio e “sovversivo”. Per il mondo e per ciascuno di noi, se sappiamo leggere quel messaggio e vogliamo farcene davvero portatori.
Ecco, se essere costretti a contenere i “festeggiamenti” ci aiutasse a vivere di più, in tutta la loro pienezza, il senso e il valore della “festa”, sfrondandola di un contorno talvolta soffocante e recuperandone l’essenza, avremmo forse messo in atto quell’esortazione che tante volte ci sentiamo proporre in questi tempi, reagire alle difficoltà trasformandole in opportunità. Potrebbe essere questa, allora, una delle “cose da fare” per un Natale certamente diverso da quelli che siamo abituati a vivere, ma non per questo necessariamente più spento e triste.

RAGIONANDO DI COMUNITÀ

Una scuola dove la vita vi entra

di Ivo Lizzola

La scuola è, spesso, il luogo più importante del legame, della domanda, della promessa e della speranza riconosciuto da tutti in una comunità. Dove le responsabilità reciproche, la cura di sé nello studio e i progetti d’offerta di capacità e presenza per coltivare futuro ne sono i segnavia. Le nostre scuole possono essere quelle “oasi di fraternità”, quelle “piccole arche di Noè” per l’attraversamento, di cui parla Edgar Morin nel piccolo libretto-testamento La fraternità. Perché? In esse si possono serbare, e tornare a sentire la vita, la meraviglia, il dono, la bellezza, la possibilità.
Ne abbiamo un gran bisogno. Abbiamo bisogno di sentire benedizione. Anzitutto noi adulti, un poco storditi dalla crisi delle sicurezze e delle logiche funzionali e tecnocratiche. Dalla crisi dei poteri e dei miti sfiniti della eccellenza, dello sviluppo, dell’accumulo, del merito.
La scuola può riaprire l’alba nella comunità.
Può fare sentire l’aperto quando si avverte corto respiro e chiusura. L’aperto nel tempo: pensiero al domani come rinascita, come inizio possibile, importante se si è vissuta una ‘consumazione del tempo’. Come han fatto, giovani, i nostri nonni, e tanti nel mondo in tempi diversi. E l’aperto nello spazio: il futuro chiede equilibri nuovi con la natura e l’ambiente, e relazioni attente e di corresponsabilità tra popoli e culture: “fratelli tutti”. Dovremo imparare questo vivere l’aperto, costruirne i saperi ed il sentire.
Sull’alba la scuola può fare andare nel profondo, che è oltre calcolo e misura, oltre sola correttezza di regole e grammatiche, di cui pure c’è bisogno. Il profondo è anche oltre spiegazioni, risoluzioni, cause e ragioni, e classificazioni e schemi, che pure sono punto di partenza. Il profondo è interrogazione, è questione, è fronteggiamento dell’inspiegabile e dell’ingiusto. È trafficare con il limite ed il dolore, è sentire obbligo ed amore. È contemplare e non solo leggere un’opera d’arte; riaprire relazioni, non solo applicare norme.
La scuola può fare tenere relazioni, farle riapparire sull’alba, scoprire possibili; e far sì che ci si creda, lo si torni a credere: Nelle pratiche di comunità di ricerca, nell’inclusione di ogni particolarità unica, nel vivere conflitti e nel fare cerchio. Perché, come scrive il profeta Gioele, “I vostri figli profeteranno (...) i vostri vecchi consegneranno sogni”(3,1). I nostri figli saranno iniziatori e dobbiamo affidare loro saperi e sogni, capacità e visioni di bontà e giustizia. Cui tante donne e uomini hanno dedicato la vita, e la dedicano.
Nella scuola, anche in una piccola valle, in un piccolo paese, la comunità si raccoglie sull’orizzonte, quello che si vede meglio al tramonto e all’alba. Sull’orizzonte si sente il cammino, sicuramente, ma si sente anche l’invio, la destinazione, la promessa. A scuola, sull’orizzonte, almeno lì questo va stretto, va tenuto negli occhi, va cantato insieme.
Sì, nella scuola, dove portiamo e insegniamo il meglio di quel che abbiamo ai nostri piccoli, alle nostre ragazze, una comunità non vive solo lo sforzo di disciplinare la vita ma soprattutto quello di aprirla a ciò che la fa traboccare. Quello che Francesco, il Papa “venuto dalla fine del mondo”, ha chiamato el desborde, il traboccamento. Precisando che il traboccamento si dà nel cammino, nella itineranza. A scuola, quando la vita vi entra, si vive il traboccamento dei saperi verso la ricerca del loro sapiente utilizzo, dei poteri e delle possibilità verso gli esercizi di responsabilità e gratuità, delle utilità verso l’impegno per l’equità e la giustizia. Desborde è dialogo e confronto contro i pregiudizi, è cura dell’interiorità contro il narcisismo. Desborde è sentire la trascendenza.
Servono come l’aria, serviranno nei mesi e negli anni, luoghi riflessivi, luoghi di verità e di narrazione, di domanda e di confessione, di ascolto e di confronto. Luoghi riflessivi e di cura: quella che dobbiamo a noi stessi, mentre guardiamo negli occhi le nostre piccole e i nostri piccoli. E vi vediamo “le vite irripetibili come le primavere”, come scrive Davide Maria Turoldo.
Questa la Meraviglia, donata, che ci potrà salvare.

HOMBRE VERTICAL

Va, va, ma non sa bene dove va

di Emidio Pichelan

Due citazioni di riconosciuti maestri e un’immagine eloquente per mettere a fuoco un ragionamento stringato sullo stato di salute della politica nostrana. La prima è di uno scrittore spagnolo, Javier Cercas, per il quale ho già confessato una particolare simpatia: “la politica di oggi, il meno che possiamo dire è che va, va, ma non si sa bene dove va”; la pandemia ci ha sorpresi “un po’ pigri, in attesa dell’uomo della Provvidenza, in deficit di appartenenza a una comunità nazionale e in persistenza di fratture e faglie, di mai sopite pulsioni anarchiche, tradizioni familistiche, insofferenza verso l’autorità, furbizie. Naturalmente, il tutto condito da tanto eroismo che non manca mai, specie nell’esplosione cieca di eventi imprevisti e in una stagione di passioni tristi”.
Le parole – è la seconda citazione – di Antonio Polito, buoni studi, cultura solida, bella scrittura, sembrano tradurre in italiano la diagnosi di Cercas: “La tragedia che stiamo vivendo mette in discussione e lo fa ogni giorno di più, le basi stesse della coesione nazionale. Crea disparità e potenziali conflitti tra i territori, tra le categorie, tra i diritti. Costringe ogni misura del decisore politico a muoversi tra Scilla e Cariddi, a scegliere tra salute e l’economia, tra gli ospedali e i ristoranti, tra il Nord e il Sud, tra i giovani e gli anziani”.
La pandemia, ospite sgradita (sostanzialmente sottovalutata), è un rivelatore poco accondiscende dello stato dell’arte di un Paese, anzi del mondo: strappa gli orpelli, mette a nudo i buchi neri, evidenzia i deficit, rivela le contraddizioni del sistema Paese (Stato, istituzioni centrali e periferiche, politica, società, economia, cultura, priorità, stili di vita, comportamenti) e del sistema mondo (globalizzazione, sistemi politici, relazioni internazionali, istituzioni sovranazionali).
Tutto è stato messo in discussione, meno la politica che ha continuato e continua a recitare il copione di sempre: la maggioranza a fare la maggioranza, l’opposizione a dire di no e a parlare d’altro, la comunicazione piegata alle aspettative delle rispettive tribù, lo schermo televisivo (tuttora il mezzo comunicativo più accessibile e influente) popolato da una nuova fauna variegata, libera di proclamare purché faccia audience. Una danza (affatto) propiziatoria dello scaricabarile, un procedere a tentoni, la testa confusa e lo sguardo smarrito, in ordine sparso, anzi divergente verso … La barchetta di sempre alle prese con marosi travolgenti e con sfide da togliere il respiro (il domani, il futuro, il mondo nuovo). Paralizzata la società del dialogo, del compromesso, del confronto.
E la scuola? Una pietra d’inciampo ingombrante, precipitata ai piedi della piramide delle priorità, senza l’ombra di un “ristoro”. L’immagine riassuntiva è quella di Anita, la bimba seduta sui gradini della “sua” scuola Italo Calvino di Torino a ricordare a tutti che si impara più dagli occhi dei prof che in uno schermo. Rebus sic stantibus, l’homo oeconomicus prevale sull’homo democraticus, quello che si forma nell’autonomia, nella dignità e al dialogo a scuola (e dove se no?).
Non c’è alternativa a due passaggi propedeutici per uscire dal caos e dalle angosce presenti: guardare in faccia la realtà e progettare un domani diverso. La realtà la si può anche negare, magari costruendosene una alternativa fasulla (i nonni le chiamavano bugie, i contemporanei anglofili le hanno ribattezzate fake news, nella totale indifferenza della sostanza); ma senza la roccia granitica e testarda della verità su cui poggiare, la non realtà è un nano dai piedi d’argilla.

AFORISMI

Elogio della donna
Buona… saggia… forte… fedele…

di Leonarda Tola

Una donna virtuosa chi la troverà? Il suo pregio sorpassa di molto quello delle perle”. Dopo aver illustrato sentenze e detti malevoli nei confronti delle donne, non si può non dare conto, per obbiettività, di una nutrita tradizione che esalta le virtù femminili in testi sacri e no. Con il passo riportato siamo nel libro dei Proverbi dell’Antico Testamento dove si tessono le lodi della donna che fa il bene e, con l’opera gioiosa delle sue mani, conquista la fiducia del marito e la venerazione dei figli; saggia nelle parole, provvede ai bisogni della famiglia che mette al sicuro da ogni indigenza: “Forza e dignità sono il suo manto e non teme l'avvenire”. Non mancano riferimenti paralleli nella tradizione gnomica e letteraria greca latina se Esiodo (VII sec. a.C. Opere e Giorni) segnala l’elemento decisivo che una donna buona rappresenta per la felicità del marito: “Un uomo infatti non può fare migliore guadagno d'una donna dabbene; d'una invece cattiva non può farlo peggiore”. Non c’è niente di meglio di una donna degna si continua a dire in epoca medioevale: “Nihil melius muliere bona” (Abelardo) e la sentenza ritorna nei secoli fino ai numerosi detti proverbiali popolari nelle lingue e dialetti d’Europa.
Le virtù femminili (mulierum virtutes) trovano in Plutarco (Γυναικῶν ἀρεταί) un autorevole catalogatore che nel tracciare la biografia di 17 donne, non necessariamente famose eroine, ne celebra le doti di virtù e di valore: si va dalla sapienza alla giustizia, fortezza e temperanza, coraggio e magnanimità (μεγαλοψυχία-megalopsichia) in una abbondanza di 28 termini che definiscono il profilo morale ora dell’una ora dell’altra protagonista. Un riconoscimento delle qualità femminili che sembra attestare, quanto al compito di vivere, una parità etica tra l’uomo e la donna.
Prima tra le doti dell’animo, per le donne, è la fedeltà che trova il suo archetipo inarrivabile in Penelope. Ovidio (Tristia 1-6) si duole di non essere grande come Omero perché altrimenti “la fama di Penelope sarebbe stata seconda alla tua” dice elogiando la consorte come “modello della moglie virtuosa” (exemplum coniugis bonae). Il poeta nato nel 43 a.C. a Sulmona, esiliato da Augusto ai confini dell’impero, mitiga il suo ardimento nel desiderio di procurare alla consorte con i suoi versi una fama di fedeltà superiore a quella di Penelope, mettendo le mani avanti: “Grandia si parvis adsimilare licet”, “Se è lecito paragonare le cose grandi alle piccole”. Un detto più noto nella versione di Virgilio (Georgiche IV): “Si parva licet componere magnis”.
Una vera “Excusatio”, utile tutte le volte che possa apparire sconveniente magnificare (soprattutto se stessi) ricorrendo a esempi più grandi (di sé).

SUL FILO DEL TEMPO

Stella solare

di Sylvie Germain

Una porta si schiude da qualche parte sulla terra, quella di un povero alloggio dove brilla il fieno di una mangiatoia. Nello stesso istante una porta si schiude nel cielo, quella di una stella che trafigge la notte. Porta doppia e unica, solstiziale. Il sole è appena entrato nella fase ascendente del suo ciclo. Un Bambino che è appena nato crescerà e illuminerà il mondo.
Nel primo giorno della Creazione Dio separa le tenebre e la luce, nel secondo fa il firmamento. Il quarto giorno dice: «Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra». Il Bambino appena nato rinnova la comparsa del primo giorno, l'astro sorto all'Oriente è il più splendente dei segni. Un segno che fa vibrare, a fior di silenzio, l'insieme degli elementi che raccontano tutti, fuori del linguaggio, «la gloria di Dio» come la proclama il Salmo XIX: «I cieli narrano la gloria di Dio, e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia. Non è linguaggio e non sono parole, di cui non si oda il suono. Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola».
Il neonato, fragile «segno» di carne, riposa sulla paglia e nel calore degli animali sotto gli occhi stupiti dei pastori e dei re magi, accarezzato dal soffio degli angeli, sovrastato dalla stella solare sorta sul frontone della notte. Sonnecchia nel punto d'incrocio di parecchi mondi: vegetale, animale, umano e angelico, terrestre e celeste, diurno e notturno, tra splendore e povertà, visibile e invisibile... Attorno a lui si equilibrano i diversi elementi e le diverse forze in gioco nella natura e nella «soprannatura». La Natività conferma e consacra le benedizioni divine che hanno scandito ogni tappa della Creazione – «E Dio vide che era cosa buona» –, constatazione che culmina nell'avvento del sesto giorno: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31). Tutto, dunque, dall'erba alle foreste, dalle bestiole più infime fino all'uomo, dall'acqua, dalla roccia fino alle nuvole e agli astri, è considerato degno di stima, di ammirazione – il che implica anche la sollecitudine e la responsabilità.
Il Verbo si è fatto carne «nel bel mezzo» del mondo, alla confluenza dei molteplici regni instaurati nell'insieme dell'universo, ricordando così quanto ogni cosa sia fondamentalmente buona. La Natività è una lode rivolta all'insieme del Creato che illumina dall'interno, in profondità, e «dall'alto», intensamente, per rivelarne i segreti e le meraviglie. Il Cantico delle creature di san Francesco si nutre di questa conoscenza, è irrigato da questa comprensione dei legami sottili che uniscono la folla immensa e tanto diversa delle creature, è vivificato dall’intuizione delle forze segrete che sono all’opera nel mondo materiale come pure nel mondo immateriale.

***

Ma tra le forze che agiscono in questo mondo, ce ne sono di oscure, di nocive – quelle che, precisamente, tentano di spezzare i legami, di cancellare i segni, di sbarrare le porte che si affacciano sull'infinito, di confiscare il bagliore della «stella solare» per mettere al suo posto luci di scarto. E non appena nato, il Bambino è minacciato, gli invidiosi e i malevoli lo condannano a morte. Giuseppe, l'uomo che sta di sentinella sulla soglia della porta solstiziale, sente in sogno questo avvertimento: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi» (Mt 2,13). Allora si alza, prende la moglie e il neonato, li conduce al sicuro.
«Alzati, prendi con te il bambino...»: queste parole mormorate all'orecchio del cuore riecheggiano attraverso i secoli e chiamano in causa ogni vivo che passa nel mondo. Infatti, nella notte della Natività, è chiesto a ognuno di dare il cambio a Giuseppe. La fede vive in un'infanzia perpetua, non può mai dichiararsi fatta e finita, sicura della sua forza e della sua resistenza; richiede sempre vigilanza e lavoro, esige l'allontanamento dei pericoli che la minacciano da ogni parte – soprattutto dall'interno: la follia del mondo loquace e violento si accanisce a smentirla, a ridurla al silenzio, a brutalizzarla; il fanatismo si sforza di pervertirla, di deformarla in tiranno, in inquisitore, addirittura in carnefice; l'arroganza si diverte a prenderla in giro, a denigrarla, l'indifferenza la lascia insensibilmente morire d'inedia e, quanto alla disperazione, la condanna al nulla.
La fede è un bambino che non concede riposo, che non si adatta a nessuna abitudine, soprattutto all'indolenza, alla tiepidezza, e che prova ripugnanza per ogni compromesso. È un bambino ribelle, tanto vulnerabile quanto temerario, tanto meditabondo quanto avventuroso. Un bambino nato in piena notte e destinato per sempre alla prova della notte, eppure incessantemente mosso dal desiderio della luce. Un bambino più leggero di una pagliuzza – basta un nonnulla a farlo volar via, svanire –, ma anche pesante quanto il mondo. Un bambino da portare in braccio, giorno dopo giorno, fino allo stremo delle forze, fino all'ultimo respiro.
Questa è la Natività: un invito a farsi carico del Bambino dalla genealogia misteriosa e stupefacente, ad assicurare di salvarlo dalla furia delle tempeste, siano esse dentro o fuori. È assumersi la responsabilità affidata a Giuseppe, il primo a cui spettò.
Nel suo poema Alba, Rimbaud scrive:

Ho abbracciato l'alba d'estate. [...] In cima alla strada, vicino a un bosco di lauri, l'ho avvolta nei suoi veli adunati, e ho sentito un po' il suo corpo immenso. L'alba e il ragazzo caddero giù nel bosco.
Al risveglio era mezzogiorno.

Nella notte di Natale, mezzogiorno suona a mezzanotte.

UN ANNO CON PINOCCHIO

Il babbo di Pinocchio

di Gianni Gasparini

Geppetto è, a prescindere da Pinocchio, il personaggio-chiave del racconto collodiano, più ancora forse della Fata dai capelli turchini. Il complesso e tormentato rapporto padre-figlio, che si articola per tutto lo svolgersi della narrazione, è sicuramente uno dei motivi che spiegano l’enorme e trasversale interesse suscitato dalla fiaba di Collodi in tutti i paesi e le culture del mondo, nel corso del Novecento.
Geppetto è un padre atipico, un falegname povero – anzi poverissimo, come scrive Collodi – che ha vissuto da single tutta la vita (così si desume dal racconto) e che a un certo punto, da anziano, decide di generare un figlio di legno. Tra i numerosi tratti che si possono rilevare della figura di Geppetto, è questo desiderio di paternità il primo: esso è aspirazione alla relazione, al dialogo con un altro essere per uscire dalla propria solitudine e per confrontarsi nel quotidiano. Si tratta di una aspirazione che è stata colta bene dal film recente di Garrone su Pinocchio (2019), nella scena in cui Benigni-Geppetto annuncia con gioia incontenibile agli abitanti del villaggio che gli è nato un figlio: è un episodio che non figura nel racconto collodiano ma che mi sembra ne dica lo spirito.
Parecchi aspetti della figura di Geppetto sono stati sottolineati dalla critica e tra l’altro dalle interpretazioni filmiche delle Avventure di Pinocchio. Collodi ha messo in luce a più riprese la generosità e la capacità di sacrificio per il figlio che Geppetto manifesta nel racconto: come quando, rientrato dopo la notte passata senza colpa in prigione, rinuncia alle tre pere della propria colazione per farne dono al burattino affamato (cap. VII). Spicca poi, nella parte iniziale del racconto, l’episodio che vede Geppetto vendere la propria casacca – nonostante si sia in inverno e faccia molto freddo – per acquistare l’Abbecedario e permettere così a Pinocchio di frequentare la scuola: ma il burattino rivenderà per pochi soldi il libro allo scopo di entrare al Teatro dei burattini. Quello che qui vorrei rimarcare è la tenerezza di Geppetto: questo padre che a volte sembra burbero e severo, e lo fa per educare il suo figliolo, in realtà lascia sempre prevalere la tenerezza, il perdono, la comprensione nei confronti del suo “Pinocchiuccio”, come lo chiama quando si muove a compassione perché il burattino durante la sua assenza da casa si era bruciato i piedi sul caldano (cap. VII). Accanto alla tenerezza, emerge la virtù della fedeltà: Geppetto è un padre fedele, che non si dimentica mai del figlio e lo attende fino all’ultimo, anche contro ogni speranza, come quando lo ritrova alla fine nel ventre del mostruoso Pesce-cane (cap. XXXV).
Ma c’è dell’altro, ed è qualcosa che ha a che vedere con la dimensione poetica. Qualcosa che emerge da una lettura in profondità della figura di Geppetto, questo babbo che Pinocchio ama sinceramente nonostante infedeltà e tradimenti. Se prendiamo il momento della decisione di dar vita al burattino, leggiamo che all’anziano falegname “è piovuta in capo un’idea”, quella di costruirsi un burattino, ma un burattino diverso da tutti gli altri. Si tratta qui con ogni evidenza di un’ispirazione a fare o costruire (poiein in greco), analoga al processo che sovrintende alla creazione poetica: questo fare, che per il poeta è la poesia stessa, per Geppetto è la costruzione del suo burattino. E qui il falegname svela il suo intendimento affermando che si tratterà di un burattino maraviglioso: ora, questo aggettivo muove verso orizzonti aperti a sorprese e realizzazioni non programmabili, ben oltre la routine della vita quotidiana. Il “maraviglioso” allude in effetti al regno della poesia e del sogno. E si può ben dire che Carlo Lorenzini (a cui si può assimilare qui in qualche modo Geppetto) riuscì effettivamente a dar vita ad un racconto meraviglioso, aperto alle sorprese più incredibili, non ultima quella di diventare uno dei libri più letti in tutto il mondo.
Per finire su questo tasto, c’è nel testo delle Avventure di Pinocchio un’indicazione apparentemente fortuita che mi sembra invece sintomatica dell’opera di Geppetto e che ne conferma le alte aspirazioni. È quando Geppetto, addormentato Pinocchio con i piedi bruciati, glieli rifà con particolare cura e abilità:

E in meno di un’ora, i piedi erano bell’e fatti: due piedini svelti, asciutti e nervosi, come se fossero modellati da un artista di genio’ (cap. VIII, corsivo nostro).

In realtà Geppetto è veramente un artista di genio, dato che ha saputo chiamare alla vita Pinocchio. E Collodi sembra svelare qui, incidentalmente e in modo probabilmente inconsapevole, le sue aspirazioni su quel burattino di cui sta inventando la storia un capitolo dopo l’altro per il Giornale per i bambini: diventare ed essere riconosciuto attraverso Le avventure di Pinocchio uno scrittore di valore e “un artista di genio”, non più soltanto un giornalista e pubblicista o un autore di sussidiari per la scuola dell’Italia unificata.
Insomma, per concludere, Geppetto non è come parrebbe a prima vista un modesto artigiano dotato di limitati orizzonti. Al fondo, egli è poeta ed è capace di generare un burattino che a sua volta sarà pervaso dalla dimensione poetica, Pinocchio.

FRAMMENTI

Un racconto di Natale?

di Gianni Gasparini

Oggi o mai più – disse a sé stesso mentre camminava per le vie poco frequentate del quartiere. Era uno scrittore, ma non di romanzi o racconti. Scriveva poesie e saggi di antropologia, due generi che di solito non si incontrano tra loro. Aveva sempre immaginato che prima o poi il romanzo – il suo romanzo – sarebbe arrivato. E invece no, lui non era un tipo da romanzi. Una volta sola gli era riuscito di scrivere una serie di racconti immaginari su alcuni dei suoi autori preferiti, Dowland e Carolan, Pessoa e Herbert, Collodi e Saint-Exupéry oltre a qualche altro, che erano confluiti in un volumetto presto dimenticato.
Aveva una sensibilità particolare per la diversità dei luoghi e per ciò che ciascuno di essi comunica a differenza degli altri, il genius loci. Ma anche per le caratteristiche cangianti del tempo, sia cronologico che atmosferico, una sorta di genius temporis come lo chiamava lui scherzosamente. E quella giornata di fine novembre, stranamente, sembrava fatta apposta per trasmettergli qualcosa di singolare, di unico forse.
Non era un giorno di sole e neppure di pioggia. L’alta pressione regnava indisturbata, ma nebbie e caligini gravavano sulla città, si erano come adagiate su di essa. Sin dal mattino l’atmosfera si era mantenuta stabilmente di un colore indefinito, tra il grigio e il bianco: senza l’orologio non si sarebbe potuto distinguere il mezzogiorno dal tramonto o dal crepuscolo.
Era una giornata di quelle che si definiscono uggiose, tetre, malinconiche, e che sono insopportabili per i meteoropatici. Eppure, a lui suggeriva che la creatività stava per venire a visitarlo e che, se fosse stata ben alimentata, avrebbe potuto fargli scrivere un racconto: sul Natale forse.
Camminava e rifletteva, collegava realtà e fantasia; cercava soprattutto di lasciarsi andare. Non voleva imporre lui il ritmo ad un’ispirazione che – lo sentiva – stava per trovare modo di manifestarsi in quell’atmosfera biancastra impenetrabile dai raggi solari. L’aria era immobile, ma lui avvertiva come un soffio impercettibile, una brezza leggera che sembrava prender piede.
Pensò alla creatività, quella singolare caratteristica umana che ha cambiato infinite volte il mondo, lasciando tracce e memorie in moltissime delle cose che facciamo e gustiamo oggi con i nostri sensi. La creatività di un poeta unico come Dante e quella di chi escogita in cucina un nuovo modo di fare l’omelette. La creatività di un bambino che a due anni inventa parole estranee alla propria madrelingua, come quando declina un verbo irregolare al modo dei regolari: io ando, tu andi, da andare. La creatività di chi ha scritto un racconto di Natale, da Dickens in poi.
La creatività di chi ha realizzato per una chiesa moderna vetrate i cui colori nelle giornate luminose si riflettono a terra creando armonie inedite. Di chi ha scelto pietre e cristalli di colori sfolgoranti da incastonare nella parete che incombe su un fonte battesimale dove scorre acqua viva. Il cristallo turchese, la pietra rosso fuoco, e poi quella verde pallido, viola, grigia, nera… Pietre che a malapena in quella giornata cupa erano in grado di diffondere la loro cromia stupefacente all’interno della cappella, ma che a lui comunicavano memorie di grazia e di forza.

I pochi passanti per la strada camminavano guardinghi, evitando di avvicinarsi gli uni agli altri. Si era in periodo di confinamento o lockdown, il quarto da quando era scoppiata la micidiale pandemia. Oramai ci si era rassegnati a continue scosse e intermittenze tra attività e clausure; ma questa volta, a differenza delle altre, si era in prossimità del Natale.
Filippo – questo era il suo nome – continuò il giro quotidiano per il quartiere, aprendosi agli incontri fortuiti che animavano le sue camminate: un amico che non vedeva da tempo, una fila di alberi che mostravano le foglie ingiallite, un raggio di sole che rivelava una prospettiva diversa delle case. Cercava qualcosa che si accordasse al grigiore biancastro in cui era immerso. Di più: sperava che in quel giorno e in quella città si manifestasse una sorta di epifania, una rivelazione che lui avrebbe accolto e comunicato agli altri per Natale.
All’incrocio di due vie un uomo stava in piedi appoggiato al muro, immobile, muto. Non chiedeva la carità, ma aveva lasciato un bicchierino di plastica davanti a sé per terra, per raccogliere le monete di chi avesse voluto aiutarlo. Aveva occhi profondi e una grande barba ben curata, che richiamava quella di certi santoni orientali: nonostante il suo evidente stato di indigenza, diffondeva un senso di dignità che colpiva quelli che facevano scivolare qualche centesimo nel bicchierino.
Più avanti, un bambino e una bambina appena usciti dalla vicina scuola elementare – rimasta aperta malgrado il lockdown – si erano tolte le mascherine dal viso e correndo le brandivano l’uno contro l’altra in una lotta scherzosa. Si misero poi a giocare al gioco del teatro, il più antico del mondo: finsero di essere Arlecchino e Colombina e inventarono lì per lì, mentre tornavano a casa, una storia strampalata che si costruiva momento per momento.

Filippo si chiese quale fosse la rivelazione che gli veniva da quel giorno prossimo al Natale. Era forse un richiamo alla solidarietà tra gli abitanti del mondo intero di fronte ad una pandemia angosciante dalla quale non ci si era ancora liberati? L’immagine dell’uomo in piedi, il mendicante straniero all’angolo della strada, era emblematica: voleva dire che tutti noi siamo poveri e mendicanti anche se non ce ne accorgiamo. Tutti stiamo viaggiando gomito a gomito su una fragile imbarcazione in cerca di salvezza. E il giorno del Natale, che celebra la nascita di un dio poverissimo e rifiutato, sembra proprio additare una via di umiltà e di lietezza aperta a chiunque si riconosca bisognoso e abbia buona volontà.
Ma poi c’era stato l’incontro con i due bambini per strada, che lo aveva molto colpito. I bambini avevano giocato, avevano corso e riso, avevano diffuso gioia. A questo punto parve a Filippo di intuire finalmente ciò che stava al vertice: era la leggerezza del gioco. E loro, i bambini, rappresentavano gli annunciatori della rivelazione attesa.
Ecco. Era questo il significato profondo e nascosto del Natale: il gioco che diventa segno di speranza, di coraggio e di allegria. E che si trasforma in sorriso: quello di un divino Infante venuto a consolare gli uomini e a sorreggerli nelle loro sventure.

INVITO ALL'ASCOLTO

Da Abitare nella possibilità, la newsletter della rivista Civiltà Cattolica, riprendiamo l’invito all’ascolto del Kyrie di Angelo Branduardi con la bella presentazione del brano curata da Claudio Zonta e il link per ascoltarne l'esecuzione su Youtube.

Il «Kyrie» di Branduardi

di Claudio Zonta S.J.

Kyrie eleison è un’espressione greca che si trova più volte già nei vangeli, rivolta a Gesù dai due ciechi (Mt 9,27), da una donna cananea (Mt 15,22), da un indemoniato (Mt 17,15) e dai dieci lebbrosi (Lc 17,13). Successivamente è passata a esprimere un’invocazione liturgica «Signore, abbi pietà!» attestata già dal IV sec. nella chiesa di Gerusalemme e successivamente nella liturgia latina.
«Abbi pietà» con il verbo greco eléēo che traduce l’ebraico rhm (misericordia), significa avere cura dei miseri, essere compassionevole. Ed è proprio questo sentimento che è espresso dal Kyrie della Missa Luba, composta negli anni ‘50 dal padre francescano Guido Haazen in Congo, con testo in latino, ma su ritmi e modalità della cultura musicale zairese.
Angelo Branduardi lo prende come base per la sua canzone omonima. La forte ritmica che accompagna la semplice armonia, così come il canto del coro fanciullesco sembrano sottolineare una compassione che si spinge verso la gioia, la danza, il sapore della vita.
Ma il testo – scritto da Luisa Zappa, moglie del cantautore e da tempo collaboratrice per i testi delle canzoni – sembra contraddittorio rispetto al sentimento espresso dalla musica:
«Perché lungo è il cammino / quando avanza la sera / Ed un lume non basta / per portarmi la luce / Tutto il pane non basta / per saziare la fame / Tutta l’acqua non basta / per calmare la sete / E l’amore non basta / per lenire il dolore». In questo cammino dell’uomo in questo periodo di fragilità frastornante la luce fioca di un lume non è sufficiente a portare luce; sembra che gli sforzi siano inutili. L’uomo, come l’astuto Sisifo, è condannato a spingere sempre da capo il suo macigno. Branduardi giunge a cantare che anche l’amore, sentimento d’infinito non è sufficiente a «lenire il dolore».
Il brano innesca così una tensione forte, aspra, decisa: la musica che porta con sé il sapore del pane della misericordia, della riconciliazione si scontra con il canto, quasi cantilenato dal cantautore, che non cede alla speranza di amore che possa recuperare un mondo trafitto da pandemie, ingiustizie, ineguaglianze. Angelo Branduardi così svela il cuore dell’uomo, dove si svolge quella lotta tra speranza e disperazione, tra carità ed egoismo, tra amore e odio. Il finale del brano, tuttavia – in quell’appianarsi della musica che si risolve in un tappeto di archi e in un accordo maggiore – sembra suggerire una tregua, uno spazio sacro dove l’esistenza coglie il proprio anelito più profondo, forse prima di riprendere il proprio cammino.