Ottobre 2020

In questa pagina:
Cose da fare: Denunciare non basta, guardiamo avanti (Maddalena Gissi)
Ragionando di comunità: Sulla stessa barca (Edgar Morin)
Profili di una scuola che cambia: Educazione alla cittadinanza e insegnamento della Costituzione (Michele Busi)
Ecologica: È necessario riparare la Terra (Papa Francesco)
Hombre vertical: La gentilezza e il coraggio ai tempi della semplificazione (Emidio Pichelan)
Aforismi: Il pericolo n. 1 (Leonarda Tola)
Sul filo del tempo: Autunno (Charles Juliet)
Un anno con Pinocchio: Trasgredire (Gianni Gasparini)
Consigli di lettura: Didattica (Donato De Silvestri)
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COSE DA FARE

Denunciare non basta, guardiamo avanti

di Maddalena Gissi

Non è stato facile far capire che non eravamo stati noi, ma alcune sigle a dir poco minoritarie nel settore, a proclamare uno sciopero pochi giorni dopo l’avvio sofferto e complicato del nuovo anno scolastico. Notizie diffuse in modo generico e con qualche eccesso di enfasi – tanto da indurre in confusione anche personaggi di notevole caratura intellettuale e politica – sono piovute così su una pubblica opinione sottoposta a una perenne valanga informativa, rispetto alla quale manca spesso il tempo (o la voglia) di un più meditato approfondimento. E così, nel dare conto delle tante criticità irrisolte di un ritorno in classe che avrebbe potuto e dovuto svolgersi con più serenità, e che comunque noi abbiamo vissuto come una festa, non è parso vero a qualcuno di poter aggiungere al quadro anche la pennellata, di sicuro effetto, di uno sciopero destinato a mettere in forse, per ben due giorni, il regolare svolgimento delle lezioni. Parlando genericamente di “sindacati”, senza precisare di quali si trattasse.
Un vizio diffuso, cui non sfuggono eminenti uomini e donne di pensiero e di penna: da Galli della Loggia a Concita De Gregorio, tanto per citare due “lanciatori di strali” protagonisti di recenti interventi di taglio antisindacale sulla carta stampata e in TV. Il primo spintosi ad attaccare persino sul piano personale il segretario di uno dei maggiori sindacati del settore, la seconda riferendo giudizi attribuiti alla ministra Azzolina e al premier Conte (i sindacati stanno sabotando il rientro a scuola) e rilanciandoli con tale enfasi da farli ritenere in qualche modo anche suoi.
È forse il caso, pertanto, di ricordare ancora una volta quante sono le sigle sindacali attive nel comparto istruzione e ricerca, riportate nell’elenco che chiunque può scaricare dal sito dell’ARAN: 175. Stando così le cose, parlare genericamente di “sindacati della scuola” non è solo poco corretto, ma addirittura insensato. E quand’anche ci si limitasse alle sole sei organizzazioni che possono dirsi, di fatto e di diritto, “maggiormente rappresentative”, basterebbe davvero molto poco per rendersi conto delle differenze, niente affatto marginali, che le distinguono l’una dall’altra per cultura, storia, profilo politico, struttura organizzativa, tutti fattori che compongono identità precise e difficilmente sovrapponibili. Tanto che è sempre impegnativo, e mai da darsi per scontato, definire obiettivi condivisi e azioni unitarie per conseguirli. Delle sei sigle, poi, ce n’è una che del contrasto (più o meno accentuato) alle altre cinque ha fatto un vero e proprio elemento costitutivo del suo profilo.
Detto questo, di fronte a manifestazioni così conclamate di allergia al dialogo sociale, per cui anche l’enorme complessità dei problemi indotti dalla pandemia viene presa a pretesto per dare addosso al sindacato, vale la pena ricordare ciò che abbiamo fatto da marzo a oggi (sviluppando riflessioni, analisi, proposte, sottoscrivendo intese, offrendo strumenti di supporto al lavoro in condizioni del tutto inedite) e quelle che consideriamo da qui in avanti le cose da fare con priorità e urgenza. Per affrontare e vincere una sfida durissima, facendone occasione di crescita attraverso percorsi di cambiamento necessario che riguardano per la verità non soltanto la scuola, ma più in generale, insieme ai nostri stili di vita, i modelli economici e quelli sociali cui guardare in una prospettiva di sostenibilità.
Ciò vuol dire, fra l’altro, essere chiamati ad accentuare la “confederalità” delle nostre riflessioni, dei nostri obiettivi, delle nostre azioni: a far prevalere una visione d’insieme che sempre più deve farsi tratto distintivo della nostra identità. Per questo sentiamo come nostra la mobilitazione che le confederazioni hanno messo in campo nei giorni scorsi, chiedendo alla politica di “ripartire dal lavoro”, perché sia un diritto per tutti, perché gli si riconosca dovunque il giusto valore.
Il Governo sta definendo le linee guida che dovranno orientare l’investimento delle ingenti risorse del recovery fund; istruzione e formazione sono una delle sei macro aree di intervento individuate, e ciò rappresenta certamente un fatto positivo. Sappiamo bene tuttavia, per lunga e sofferta esperienza, quale sia la distanza che spesso separa le intenzioni dichiarate dalla loro concreta realizzazione. Distanza che tante volte si è rivelata incolmabile. Oggi è anzitutto necessario declinare in modo più puntuale obiettivi e priorità, per evitare che la genericità di un progetto possa diventare la premessa di un suo fallimento. Servono scelte rapide, e soprattutto giuste. Perché questo avvenga, vanno aperte sedi di discussione e confronto, per mettere meglio a fuoco i problemi e perché le soluzioni individuate trovino il massimo di condivisione e sostegno. Non è inseguire l’unanimismo a tutti i costi, è la consapevolezza che la difficoltà straordinaria della situazione in cui ci troviamo impone il massimo di coesione possibile.
Altro che “sabotatori”, altro che “remare contro”. Tante delle nostre indicazioni, dei nostri suggerimenti, delle nostre proposte, le abbiamo viste recepite in documenti della stessa Amministrazione. Laddove l’impermeabilità al confronto è stata totale (come ad esempio in tema di reclutamento del personale) i risultati si sono visti: record assoluto di lavoro precario, intollerabile ritardo nel dotare le scuole del personale indispensabile per riaprire nelle condizioni organizzative che le più competenti e autorevoli sedi tecniche avevano indicato come opportune e necessarie. Dunque rivendicare sedi di discussione e confronto diventa oggi l’obiettivo su cui concentrare attenzione ed energia: guai se l’azione sindacale si limitasse alla denuncia, pur legittima e doverosa, dei problemi e dei disagi che troppe scuole devono ancora sopportare, in un clima dove incertezze e incognite purtroppo non mancano. Problemi grandi e piccoli sono per noi, a ogni livello, oggetto di una fatica quotidiana e di un impegno che non è mai venuto meno e che continua. Ma siamo chiamati a qualcosa di ancor più impegnativo.
Prendo a prestito, perciò, la conclusione di un recente e pregevole articolo di Mauro Magatti per dire quale sia, oggi, l’atteggiamento da assumere: “Non preoccupiamoci di avere subito tutte le risposte. Non rinunciamo, piuttosto, a porci domande ambiziose. Come vanno ripensate le scuole ... affinché riescano a diventare polmoni diffusi di conoscenza, luoghi di interazione col territorio, vettori di sperimentazione di un nuovo modello di sviluppo che sempre più è e sarà «on-life»? Come va riqualificato (e diversamente pagato) il ruolo docente affinché possa tornare a essere una figura di riferimento in grado di accompagnare le nuove generazioni a misurarsi con un mondo tanto complesso? Quali forme dovrà assumere un sistema organizzato e efficace di formazione continua, pilastro mancante nell’idea novecentesca di istruzione?”.
Potremmo anche dire, citando la veste rinnovata delle nostre pagine web: quali i profili di una scuola chiamata a cambiare?

RAGIONANDO DI COMUNITÀ

L’idea di comunità sembra legarsi solo ad ambiti e relazioni limitate dove la prossimità, l’empatia, la condivisione, il legame solidale, l’amicizia si sviluppano facilmente nell’incontro dei volti, nella comunanza degli interessi, nella consonanza linguistica, la conformità delle abitudini e degli stili di vita. Come può esserci dunque comunità nel tempo della globalizzazione? Eppure sta proprio qui, in questa sfida, la nostra stessa possibilità di sopravvivenza: nell’individuazione e costruzione di quell’Umanesimo planetario di cui parla Mauro Ceruti commentando la Laudato si’ di Papa Francesco. Ci introduce e ci apre a questa dimensione la Prefazione di Edgar Morin all’ultimo lavoro di questo filosofo: Sulla stessa barca, Qiqajon, Comunità di Bose, 2020, € 10. (cg)

Sulla stessa barca

Prefazione di Edgar Morin al libro di Mauro Ceruti

La lettera enciclica Laudato si' di Francesco è un testo che è arrivato imprevisto, e in questo senso provvidenziale, a indicare all'umanità che è urgente cambiare via. Viviamo in un'era desertica del pensiero, che non riesce a concepire la complessità della condizione umana nell'età globale, e in particolare la complessità della crisi ecologica. È infatti un pensiero sbriciolato in tanti frammenti, che non riesce a vedere i rapporti fra le molte dimensioni della nostra crisi: economica, politica, sociale, culturale, morale, spirituale...

Nel "deserto" attuale, dunque, l'enciclica risponde alla necessità di pensare questa complessità. Anch'io sono sempre stato mosso da questa stessa esigenza di uno sguardo complesso, globale, ovvero dal bisogno di trattare i rapporti fra i diversi aspetti della condizione umana. Perciò l'enciclica è stata per me una felice sorpresa. E perciò anche invito a leggere questo libro di Mauro Ceruti, fra i pochi pensatori del nostro tempo ad avere compreso e raccolto la sfida che ci è posta dalla complessità dei nostri esseri e del nostro mondo globalizzato. Egli ci aiuta a leggere l'enciclica di Francesco nell'orizzonte di un umanesimo planetario, volto a delineare una nuova rotta per l'avvenire dell'umanità.

Francesco definisce il progetto di una "ecologia integrale", che non è affatto però quell'ecologia "profonda" che pretende di convertirci al culto della Terra, subordinando tutto il resto. Francesco mostra, piuttosto, che l'ecologia riguarda le nostre vite in profondità, la nostra civiltà, i modi delle nostre azioni, le nostre riflessioni.

La Laudato si' segna una presa di coscienza, è un incitamento a ripensare la nostra società e ad agire. E indica il cammino della costruzione della "casa comune" planetaria, che io chiamo Terra-Patria. Critica quello che definisce "l'antropocentrismo deviato", che mette l'uomo al centro dell'universo, che considera l'uomo come solo soggetto dell'universo, e attraverso il quale l'uomo prende il posto di Dio. Scivolare in questa deriva antropocentrica significa infatti fare dell'uomo, secondo la formula di Cartesio, il padrone e il dominatore della natura. Io non sono credente, ma penso che questo ruolo divino che l'uomo talvolta si attribuisce sia assolutamente insensato. Il mondo della natura è diventato un mondo di oggetti. Il vero umanesimo consiste al contrario nel riconoscere in ogni essere vivente al contempo un essere simile e diverso da me.

Francesco rigenera l'invocazione di san Francesco d'Assisi, riconoscendo la fratellanza degli esseri umani con ogni creatura. E questo sentimento di fratellanza converge, in certo senso, con ciò che la scienza è giunta a raccontarci. Oggi sappiamo che possediamo cellule che si sono moltiplicate fin dall'origine della vita e di cui siamo composti, come ogni altro essere vivente. Se ripercorriamo la storia dell'universo, ci accorgiamo così che, pure in modo singolare, portiamo in noi tutto il cosmo. Esiste una solidarietà profonda nella natura, anche se beninteso siamo diversi, per via della coscienza, della cultura. Ma pur essendo diversi, siamo tutti figli del Sole, o fratelli del Sole, secondo l'espressione di san Francesco... E il vero problema non consiste nel ridurci allo stato di natura, ma di separarci dallo stato naturale.

Nel contempo, la questione del rapporto degli esseri umani con la natura è a sua volta strettamente intrecciata con la questione della povertà. E, anche in questo caso, Francesco è profondo e lucido nel suo pensiero. Critica il "paradigma tecnocratico", cioè quel modo di pensare oggi dominante che sottomette ogni discorso e ogni azione alla logica tecnoeconomica del profitto. La sua critica al paradigma tecnocratico e alle sue conseguenze per gli stili di vita e per le diseguaglianze sociali ha senz'altro potuto trovare linfa vitale nella sua cultura latino-americana. In America latina, troviamo una vitalità, una capacità d'iniziativa che noi non abbiamo. Ritrovo nell'enciclica un senso della povertà che è così forte in questo continente. In Europa, abbiamo completamente dimenticato i poveri, li abbiamo emarginati. Ma, nell'enciclica, la preoccupazione per la povertà è viva.

C'era bisogno che un papa venisse da lì, con questa esperienza umana. È un papa imbevuto di questa cultura andina che oppone al "benessere" europeo esclusivamente materialistico lo star bene (il buen vivir), che rappresenta una pienezza personale e comunitaria autentica.

Un'ultima cosa voglio sottolineare: tutti gli sforzi per sradicare le religioni sono completamente falliti. Le religioni sono delle realtà antropologiche. Il cristianesimo ha conosciuto una contraddizione fra alcuni suoi sviluppi storici e il suo messaggio iniziale, evangelico, che è amore degli umili. Ma, quando la chiesa ha perso il suo monopolio politico, una sua parte ha ritrovato la sua fonte evangelica. La Laudato si' è un ritorno integrale alle origini evangeliche. E la fede può dare coraggio. In un'era virulenta come la nostra, per salvare il nostro pianeta davvero minacciato, il contributo delle religioni non è superfluo. Questa enciclica ne è una manifestazione eclatante.

Il messaggio di Francesco invita a un cambiamento, a una nuova civiltà, e lo trovo molto toccante.

Edgar Morin Montpellier, 30 maggio 2020

PROFILI DI UNA SCUOLA CHE CAMBIA

Educazione alla cittadinanza e insegnamento della Costituzione

Una recensione di Michele Busi al libro di Corradini e Mari

“L'ombra sua torna, ch'era dipartita". Si potrebbe usare questo verso dantesco per riferirsi al ritorno, a partire da settembre, dell’educazione civica nella scuola italiana.
La ministra Azzolina invierà a breve al Consiglio Superiore della Pubblica istruzione le Linee guida messe a punto da un’apposita Commissione per dare concreta e non facile applicazione alla legge 20.8.2019 n. 92 sull’“Introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica”.
Tre sono i nuclei concettuali a cui le Linee guida cercano di ricondurre la vasta materia della legge. In primo luogo la Costituzione quale cardine fondamentale della convivenza e del patto sociale del nostro Paese. In secondo luogo, i temi dello sviluppo sostenibile, dell’educazione ambientale, oltre che della conoscenza e della tutela del patrimonio e del territorio. Terzo nucleo è quello della cittadinanza digitale.
Diventa più che mai istruttivo a questo punto riprendere in mano il volume Educazione alla cittadinanza e insegnamento della costituzione, a cura di Luciano Corradini e del compianto Giuseppe Mari (Vita e Pensiero, Milano 2019).
Questo libro, concepito nel 2017 e uscito nel corso del dibattito parlamentare, che lo ha anche citato nell’Aula del Senato, affronta il tema Cittadinanza e Costituzione grazie a svariati contributi di carattere pedagogico, storico-critico, giuridico, didattico.
Il testo è organizzato in tre ampie sezioni: la prima riguarda i lineamenti fondativi dell’educazione alla cittadinanza, distinta e connessa con l’insegnamento della Costituzione, delle istituzioni dell’Unione europea e degli Organismi internazionali; la seconda è dedicata alla progettazione scolastica e a una puntuale esemplificazione didattica, proposta da presidi e insegnanti ricercatori, in riferimento alle rispettive scuole delle provincie di Brescia, Roma e Reggio Calabria; la terza infine illustra il resoconto della sperimentazione biennale condotta in merito da cinque scuole della Val Camonica.
Particolarmente interessante, dopo l’articolo introduttivo di Giuseppe Mari, che traccia gli orizzonti ideali dell’educazione alla cittadinanza, il contributo di Luciano Corradini, che è stato anche coordinatore di questa materia con quattro diversi ministri e per 7 anni vicepresidente del Cnpi. Egli ripercorre il dibattito e il tortuoso percorso con cui siamo arrivati alla citata legge 92, varata all’unanimità, a partire dal Dpr di Aldo Moro del 1958. Dopo il varo della Costituzione, avvenuto un anno prima della Dichiarazione universale dei Diritti umani, il problema di una valorizzazione anche didattica di questi fondamentali “codici” si è posto in vario modo, superando anche incertezze e dissensi. Questi grandi temi sono stati dal 2015 precisati dall’Agenda 2030 dell’Onu, anche per la scuola, come condizioni per la sopravvivenza del Pianeta.
Le pagine del volume evidenziano come la Carta costituzionale costituisca non solo la legge fondamentale del nostro ordinamento, ma anche un ‘ambiente’ culturale e pedagogico, un linguaggio dotato di forza ideale, chiarezza e organicità etica, giuridica e politica, capace di accogliere, dar senso e orientamento alle persone che vivono nella scuola, alle discipline e alle attività che vi si svolgono. C’è da tempo una crescente richiesta di buona politica e di buona educazione civica, in particolare dopo che l’esperienza della pandemia ci sta lasciando in una condizione analoga a quella della “ricostruzione” del Paese, che seppe rialzarsi dalle macerie morali e materiali prodotte dalla guerra mondiale.
La legge 92, lanciata anche da una proposta di legge di iniziativa popolare promossa dall’Anci, sottoscritta da migliaia di cittadini, con larghissime adesioni raccolte anche nella nostra provincia, con l’importante supporto del Comune di Brescia, sembra finalmente vicina ad entrare in vigore. Le pagine di questo libro mostrano come rispondere a questa richiesta sia una sfida che riguarda l’intera società, a partire da una scuola che è per certi aspetti da reinventare.

ECOLOGICA

È necessario riparare la Terra

Si cancelli il debito dei paesi più fragili

Papa Francesco

Pubblichiamo alcuni stralci (pochi frammenti) del messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato che si è celebrata 1° settembre. Tema del messaggio, nel 50° anniversario (Giubileo) del Giorno della Terra è «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti» (Lv 25,10).

[...] Il Giubileo è un tempo sacro per ricordare, ritornare, riposare, riparare e rallegrarsi.

1. Un tempo per ricordare
[...] Il Giubileo è anche un tempo di grazia per fare memoria della vocazione originaria del creato ad essere e prosperare come comunità d’amore. Esistiamo solo attraverso le relazioni: con Dio creatore, con i fratelli e le sorelle in quanto membri di una famiglia comune, e con tutte le creature che abitano la nostra stessa casa. [...]

2. Un tempo per ritornare
Il Giubileo è un tempo per tornare indietro e ravvedersi. Abbiamo spezzato i legami che ci univano al Creatore, agli altri esseri umani e al resto del creato. Abbiamo bisogno di risanare queste relazioni danneggiate, che sono essenziali per sostenere noi stessi e l’intero tessuto della vita. [...]
Il Giubileo ci invita a pensare nuovamente agli altri, specialmente ai poveri e ai più vulnerabili. [...]
Il Giubileo è un tempo per dare libertà agli oppressi e a tutti coloro che sono incatenati nei ceppi delle varie forme di schiavitù moderna, tra cui la tratta delle persone e il lavoro minorile. Abbiamo bisogno di ritornare, inoltre, ad ascoltare la terra, indicata nella Scrittura come adamah, luogo dal quale l’uomo, Adam, è stato tratto. Oggi la voce del creato ci esorta, allarmata, a ritornare al giusto posto nell’ordine naturale, a ricordare che siamo parte, non padroni, della rete interconnessa della vita. [...]

3. Un tempo per riposare
[...] La continua domanda di crescita e l’incessante ciclo della produzione e dei consumi stanno estenuando l’ambiente. Le foreste si dissolvono, il suolo è eroso, i campi spariscono, i deserti avanzano, i mari diventano acidi e le tempeste si intensificano [...]
Ci occorre oggi trovare stili equi e sostenibili di vita, che restituiscano alla Terra il riposo che le spetta, vie di sostentamento sufficienti per tutti, senza distruggere gli ecosistemi che ci mantengono. [...]
La pandemia ci ha condotti a un bivio. Dobbiamo sfruttare questo momento decisivo per porre termine ad attività e finalità superflue e distruttive, e coltivare valori, legami e progetti generativi. Dobbiamo esaminare le nostre abitudini nell’uso dell’energia, nei consumi, nei trasporti e nell’alimentazione. [...]

4. Un tempo per riparare
Il Giubileo è un tempo per riparare l’armonia originaria della creazione e per risanare rapporti umani compromessi. Esso invita a ristabilire relazioni sociali eque, restituendo a ciascuno la propria libertà e i propri beni, e condonando i debiti altrui. Non dovremmo perciò dimenticare la storia di sfruttamento del Sud del pianeta, che ha provocato un enorme debito ecologico, dovuto principalmente al depredamento delle risorse e all’uso eccessivo dello spazio ambientale comune per lo smaltimento dei rifiuti. È il tempo di una giustizia riparativa. [...]
Il ripristino della biodiversità è altrettanto cruciale nel contesto di una scomparsa delle specie e di un degrado degli ecosistemi senza precedenti. È necessario sostenere l’appello delle Nazioni Unite a salvaguardare il 30% della Terra come habitat protetto entro il 2030, al fine di arginare l’allarmante tasso di perdita della biodiversità. [...]
È necessario consolidare le legislazioni nazionali e internazionali, affinché regolino le attività delle compagnie di estrazione e garantiscano l’accesso alla giustizia a quanti sono danneggiati.

5. Un tempo per rallegrarsi
Nella tradizione biblica, il Giubileo rappresenta un evento gioioso, inaugurato da un suono di tromba che risuona per tutta la terra. Sappiamo che il grido della Terra e dei poveri è divenuto, negli scorsi anni, persino più rumoroso. [...]
Assistiamo al graduale emergere di una grande mobilitazione di persone, che dal basso e dalle periferie si stanno generosamente adoperando per la protezione della terra e dei poveri. Dà gioia vedere tanti giovani e comunità, in particolare indigene, in prima linea nel rispondere alla crisi ecologica. [...]
È motivo di particolare gioia che il Tempo del Creato stia diventando un’iniziativa davvero ecumenica. Continuiamo a crescere nella consapevolezza che tutti noi abitiamo una casa comune in quanto membri della stessa famiglia!

Francesco

Roma, San Giovanni in Laterano, 1.9.2020

HOMBRE VERTICAL

La gentilezza e il coraggio ai tempi della semplificazione

di Emidio Pichelan

Come la mettiamo se, da una parte, panta rei, tutto scorre e passa e scivola e svanisce e, dall’altra, nihil sub sole novum, niente è realmente nuovo sotto il sole?
“Un uomo non verrà mai indotto con il ragionamento a correggere un’opinione errata che non ha acquisito ragionando”, osservava J. Swift nel lontano 1772. L’Autore dei Viaggi di Gulliver conosceva di prima mano la dura realtà del muro di incomunicabilità che donne e uomini di fede religiosa sono in grado di erigere.
I progressi scientifici, tecnici, economici, sociali, comunicativi sono incredibili e ammalianti. Ma i muri della incomunicabilità, magari riverniciati, resistono imperterriti alle trombe di Gerico. Il linguaggio del “semplificatore” – povero, ripetitivo, asseverativo, rattrappito in pochi, logori slogan e, contemporaneamente, sdegnoso negatore dell’onere delle prove; in poche parole, il linguaggio proprio dell’imbonitore – nega alla radice ogni possibilità di confronto, di scambio bilaterale, di mediazione, di compromesso.
E, allora, come comportarsi con i nerboruti guerriglieri di un mondo in bianco e nero, di una esistenza interpretata come un gioco a somma zero, con i pozzi avvelenati dall’odio triste, solitario y final? Arrendersi?, guardare dall’altra parte?, rassegnarsi?, emigrare (e dove mai)? Tutte mosse da autogol fatale per sé, per la società, per la politica: praticare l’odio, diceva Nelson Mandela, è come bere un veleno nella speranza che a morire sia il nemico.
Opportuno, nel metodo, nel merito e nella tempistica, lo sbarco in libreria di Gianrico Carofiglio con Della gentilezza e del coraggio. Breviario di politica e di altre cose: 120 pagine scorrevoli, custodite da una copertina d’un azzurro sfumato, animata da una selva di matite sulle quali danzano alla Chagall (il pittore che faceva volare gli asini) una donzella e un giovane uomo. Matite pronte all’uso: scrivere, colorare, incrociare le lame gentili e coraggiose dell’umana dialettica.
La gentilezza viene qui assunta in un significato attivo, propositivo: non è grazia, cortesia, buone maniere, gradevolezza. Non è buonismo, ma “il più potente strumento per disinnescare le semplificazioni che portano all’autoritarismo”. Il linguaggio della “nuova gentilezza” se la deve vedere, ovviamente “con coraggio”, a viso aperto, con tre nemici: le paure “scomposte e rivolte a pericoli immaginari” (lo sapete che le zanzare producono ben 600mila vittime annuali a fronte delle 10 (dieci!) degli squali, mentre ammontano a ben 25mila gli “amici dell’uomo” che annualmente trasmettono la rabbia e le mucche sono più pericolose degli orsi?); l’ignoranza dei fatti (nell’anno 2017-18 si sono registrati 357 omicidi – erano 1.916 del 1991-92, mentre nello stesso anno le rapine hanno registrato una contrazione del 14% e i furti dell’11); e un linguaggio “semplificato”, da imbonitore, il peggiore e più infido dei nemici di quest’epoca inquieta.
In un mondo che proprio pacifico non è, il ricorso alla gentilezza richiede coraggio: “la natura della gentilezza autentica emerge quando per praticarla dobbiamo superare la paura, vincere la rabbia, a volte superare la disperazione. Dare senso. Essere umani”.
Carofiglio ha pensato bene di annaffiare la sua personale pianta della gentilezza, oltre che con buoni studi e la buona scrittura, con le arti marziali. A tutti noi, le parole del suo manuale sono più che utili per annaffiare la pianta della gentilezza, quanto mai indispensabile in un mondo di troppe paure “scomposte e rivolte a pericoli immaginari” e sovreccitazioni: a scuola come nei bar come nei mezzi pubblici. Alla fine, come nei vecchi film western, i buoni vincono, sciogliendo il problema di Bertrand Russell: “Il problema di questo mondo è che le persone intelligenti sono piene di dubbi e i cretini sono piene di certezze”.

AFORISMI

Il pericolo n. 1

di Leonarda Tola

Volendo chiudere la rubrica sugli aforismi ci pare che nel disquisire di sentenze ci siamo limitati a commentarne soltanto alcune (quindici) riconducibili a ristretti aspetti della vita: insegnamenti morali e pillole di saggezza popolare e colta per dire di tempo, salute, malattia, paura, esperienza, lentezza e poco altro. Sappiamo che l’eredità di sentenze e definizioni proverbiali della cultura popolare e letteraria tocca la varietà dei volti dell’esistenza e la multiforme diversità delle condizioni di vita. “Il Dizionario delle sentenze latine e greche” (a cura di Renzo Tosi), a cui questa rubrica deve molto, fa (per esempio) un elenco di 90 temi-argomenti intorno ai quali assemblare detti e proverbi. Non c’è aspetto della vita (per come finora l’abbiamo conosciuta) che non sia stato declinato con le cadenze della proverbialità e topicità. Forse vale la pena di continuare il viaggio tra gli aforismi, anche perché non si può, per obbligo di genere e obbiettività, tacere su come e quanto la donna sia stata “proverbializzata” e maltrattata più che ogni altra persona, animale o cosa.

Vasta e perseverante nel tempo la letteratura misogina a cui la preponderanza di autori maschi ha dato la stura nei secoli dei secoli. Trascriviamo da Giovenale qualche perla della velenosa Satira contro le donne (6).
Se a te sta bene la vita matrimoniale, abbassa la testa e piega il collo pronto a sopportare il giogo (submitte caput cervice parata ferre iugum): non troverai nessuna che non tormenti colui che l’ama (quae parcat amanti)”; “Le donne arrabbiate sono pericolose come sassi che rotolano dalla cima dei monti e precipitano lungo il ripido pendio”; “La donna calcola (computat), è quella che salverebbe la vita di una cagnolina mandando a morte il marito; deciderà chi può o non può frequentare la tua casa, escluderà il tuo amico ormai vecchio e aprirà la porta ai lenoni”; … “Amanti del lusso, sperperano denaro, fanno uso smodato del trucco”. Settecento esametri per dissuadere l’amico Postumo dal prendere moglie in una numerazione ingiuriosa dei vizi e delle pecche delle donne: “Meglio approfittare delle alte finestre e delle corde che non mancano che legarsi a una donna”. Dalla donna, insidia per l’uomo, alla donna infedele alla quale non bisogna credere mai neanche da mortaChi della donna si fida si fida dei ladri” è l’ammonimento di Esiodo (VII a.C) nel suo compendio di istruzioni (“Le opere e i giorni”) su come dispiegare la vita e il suo travaglio. Evitando errori e trappole.

L’adagio più noto sulla donna, resistente nel tempo e usato a tutte le latitudini è tuttavia quello che ne sentenzia la mutevolezza e la variabilità: qual piuma al vento essa, psicologicamente instabile (Ecclesiaste e altre fonti canoniche), non ha fermezza né coerenza. Come il mare cambia repentinamente d’umore, come il vento spira da ogni parte prendendo direzioni divergenti, come la luna muta volto e colore. Imprevedibile come il tempo: piove ed esce il sole. Tutte e ognuna come Didone di cui Enea, secondo il consiglio d Mercurio, deve diffidare. Lei determinata a morire può preparare agguati mortali all’amante che l’abbandona; cambiando l’amore per Enea in odio in quanto donna: “cosa sempre variabile e mutevole” “Varium et mutabile semper femina” (Eneide, IV): così Mercurio in sogno incita Enea a guardarsi dalla folle volubilità della regina di Cartagine. Ma è lei quella inchiodata al talamo e alla furia dell’amore per l’eroe scampato all’incendio di Ilio che “scioglie le vele ... e molla gli ormeggi”: in fuga, contro il suo stesso volere, dall’infelice Didone che si getta nel rogo riversa sulla spada grondante di sangue. Avendo prima imprecato con la maledizione all’origine dell’eterna inimicizia tra Cartagine e la discendenza di Enea e preannunciando un vendicatore che sorgerà dalle sue ossa (Exoriar aliquis nostris ex ossibus ultor). La mortalmente pallida Didone incarna la perfidia della donna tradita? Mentre anche sulle donne incombe l’ineluttabile fato (Ducunt volentem fata, nolentem trahunt).
La serie delle male lingue sulla fides muliebris ... continua.

SUL FILO DEL TEMPO

Il breve testo che proponiamo alla riflessione “sul filo del tempo” è estratto dal libro di Charles Juliet Dans la lumière des saisons (Nella luce delle stagioni), P.O.L. Paris 1991. Charles Juliet è un poeta e uno scrittore poco noto in Italia, ma che in Francia ha aperto vie nuove alla letteratura. In questo libro si parla delle quattro stagioni in quattro lettere indirizzate a un’amica lontana. In esse sono registrati istanti d’abbandono e di lente derive, narrati con una parola nuda (sorgiva) che dà corpo al bisbiglio interiore, per un bisogno costante dell’autore di andare oltre il limite, verso “il comune, l’anonimo, il non particolarizzato”.

Autunno

di Charles Juliet

Cara amica,

È l’una di notte. Sono nella mia soffitta, circondato dai miei libri e dalle tele che amici pittori mi hanno donato. È notte. Profondo silenzio. Sonno degli uomini e della natura. Mi viene il desiderio di intrattenermi brevemente con lei, anche se ho l’impressione di non avere nulla da dirle.
Nelle quattro ore che sono a questo tavolo, non ho letto e non ho scritto nulla. Sprofondato in uno stato di ineffabile benessere, con gli occhi per lo più chiusi, ho vagabondato dentro di me, obbedendo alle intermittenze del mormorio interiore. Avrei dovuto prendere nota di molte cose, ma prendere in mano la stilografica sembrava al di sopra delle mie forze. Mi trovavo in un tale stato di passività da non poter spostare neppure la mano, e sapevo per esperienza che il più piccolo movimento avrebbe distrutto tutto. Così, per timore d’essere strappato via da ciò di cui godevo, e che era così fragile, così prezioso, così intenso, ho trascorso il tempo ad impedirmi di tracciare un qualunque gesto.

Nello stato in cui sono, la vita scorre calma, mi inonda, mi riempie di fiducia, di fervore, accresce il mio amore per gli esseri e la mia fede nella vita. I sensi di colpa, le impazienze, i tormenti, le paure sono scomparsi e io non sono più che questo flusso, che questa piacevole e inesauribile corrente la quale mi persuade che la vita è buona, semplice, formidabilmente ricca. Tagliato fuori dal tempo, non ho coscienza che le ore continuano a scorrere e, quando emergo da questo stato, tornare alla quotidianità non è più una sofferenza. Prima – lei lo ha certamente capito – lo era, e io la temevo. Ma adesso, il passaggio avviene senza strappi. L’esistenza riprende normalmente il suo corso, e tutto si fa all’improvviso più facile, più attraente, tutto si carica di un nuovo senso.

Ho passato la giornata a camminare in collina. Sciarpe di nebbia si stiravano sulla pianura, ma, in alto, una luce dorata esaltava gli ocra, i bruni, i rossi delle viti e degli alberi che si infiammavano nell’aria immobile.
Se sapesse quanto io amo l’autunno, quanto mi sento in sintonia con questa stagione. Gli ardori dell’estate hanno preso fine e, con essi, le tensioni e talora il malessere che portano con sé. C’è, presente nell’aria, una grande dolcezza, mentre le luci e i cieli impallidiscono. Nell’autunno traspare la minaccia di un certo declino ed è forse proprio questa minaccia a dare tanto valore allo splendore di queste giornate in cui la vita è presente con i suoi ultimi fuochi.
Stagione di frutti, di raccolte, della sovrabbondanza. Maturità. Ho sempre associato questa stagione a ciò che rappresenta per me la donna, la madre, a ciò che essa produce nella maggioranza di noi e di cui l’uomo è talmente incapace.

Da questo autunno passo a quello dell’esistenza umana. Anche per noi, nel corso degli anni, si succedono notti di gelo, di venti devastatori, di implacabili giornate di canicola, di uragani, di siccità, di piogge torrenziali, ed è tutto questo che finisce per creare la ricchezza di una vita. (Un volto non è mai così bello, così commovente come nel suo autunno). Dobbiamo accogliere tutto con un cuore pari e condurre le nostre vite verso la pienezza del frutto che si è fortificato di tutto ciò che gli è contrario.

Ho lasciato le vigne e, arrampicandomi su per le colline più alte, mi sono inoltrato nel bosco. La volta bruna del fogliame lasciava filtrare una luce rosata, calda, che rispondeva bene a quella che regnava dentro di me. Ho camminato per una o due ore, gustando il silenzio, respirando l’aria umida in cui aleggiava odore di funghi, osservando l’effetto dei raggi solari sui tronchi e le foglie. Camminare dentro questa luce era un puro incanto.
Questo incantesimo non è durato a lungo. Ogni volta che io entro in contatto con la natura, arriva un momento in cui scopro quanto essa ci è estranea, e il pensiero che le nostre preoccupazioni, i nostri guai, le nostre angosce, la nostra inguaribile miseria non trovano in essa alcuna eco, mi affligge, mi dà la sensazione di venire respinto e che ad ogni istante vengano spenti i piaceri di cui essa ci ricolma. […]

Ero ancora nel bosco quando cadde la notte e, con la notte, un fresco improvviso. Il silenzio è sembrato farsi più profondo. E mi ha afferrato una sorda malinconia. Molte cose si agitavano nel mio animo. Un sentimento di solitudine, un vago senso d’angoscia, il ritorno delle paure dell’infanzia, la sensazione del poco che rappresenta tutta la vita, il timore delle tante minacce che ci circondano, le idee buie nel vedere avvicinarsi la cattiva stagione… Era l’autunno che faceva irruzione dentro di me con i suoi soli spenti, le sue giornate atone, le sue foglie che marciscono…
Quando sono arrivato al villaggio, esso era già senza vita. Strade deserte, case con le imposte sbarrate, cappa di silenzio. Dentro di me era nata la voglia di un maglione pesante, di fuoco nel caminetto, di lunghe serate tranquille passate a sognare e a meditare. Una pioggia battente sferza i vetri delle finestre, il piacere di trovarsi al caldo, al riparo delle intemperie, occupato soltanto a ripercorrere e gustare la vita alla sua sorgente.

(trad. di Mario Bertin)

Charles Juliet è nato nel 1934. A dodici anni entra in una scuola militare che frequenta fino ai vent'anni, quando viene ammesso alla École de Santé Militaire di Lione. Tre anni dopo abbandona gli studi di medicina per dedicarsi alla scrittura. Lavora per quindici anni prima di vedere pubblicato il suo primo libro, Fragments. Dal 1978 comincia a pubblicare un diario. Nel 2013 ha vinto la sezione poetica del Premio Goncourt, il più importante riconoscimento per uno scrittore francese. Delle sue opere ricordiamo L'Oeil scrute (1976), Afftits (1979), Failles (1980), Le pays du silence (1987). Alcune opere nascono dall'amicizia, dalla frequentazione, dalla comune ricerca con alcuni dei massimi artisti del nostro tempo: Bram van Velde (1975), Giacometti (1985), Rencontre avec Samuel Beckett (1986), Pour Michel Leiris (1988), Entretien avec Pierre Soulages (1990).

UN ANNO CON PINOCCHIO

Trasgredire

di Gianni Gasparini

L’immagine prevalente che Pinocchio ha trasmesso di sé ai lettori è quella di un burattino (o di un burattino-bambino) trasgressivo, che infrange continuamente le regole, che non vuole andare a scuola e dice le bugie. Del resto, a ben vedere, c’è una singolare carica di trasgressività nell’autore stesso prima che nel suo personaggio: essa si manifesta sin dalle prime parole del primo capitolo, quando Collodi scrive:

C’era una volta…
Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno. (cap. I)

Collodi fa iniziare la sua fiaba-antifiaba in modo del tutto anomalo, aspro e provocatorio come scrive Manganelli, se si pensa che i destinatari deputati del libro sono dei piccoli lettori, dei ragazzi (Pinocchio: un libro parallelo, Adelphi, Milano 2002). E, per di più, dei ragazzi che vivono a fine Ottocento in un paese come l’Italia, che ha conosciuto l’unificazione da un paio di decenni soltanto. Questo incipit, che secondo Manganelli andrebbe indagato scrutando in profondità tra gli interstizi delle prime sette parole, è un indicatore non solo dell’originalità assoluta delle Avventure di Pinocchio, che parlano di “un semplice pezzo di legno di catasta” per accendere il fuoco d’inverno, ma del carattere del suo autore, oscillante tra vocazione pedagogica esercitata negli anni dell’Italia post-unitaria e residui incancellabili di una militanza mazziniana che lo portava a vedere con simpatia comportamenti trasgressivi.
E Pinocchio ci viene presentato come un trasgressivo quando è ancora un pezzo di legno nella bottega di Maestro Ciliegia, prima di nascere effettivamente per le cure e il lavoro amorevole e creativo di Geppetto. Pinocchio con la sua vocina misteriosa e le sue frasi insolenti riesce a far arrabbiare e scatenare i due vecchi falegnami l’uno contro l’altro; poi, nella bottega di Geppetto si diverte a canzonarlo, gli tira fuori la lingua, gli ruba la parrucca e se la mette in testa, gli dà un calcio sul naso… al punto tale che il padre di Pinocchio si rattrista, rendendosi conto che c’è nel figliolo di legno che sta plasmando una componente negativa, quella che Geppetto chiama mancanza di rispetto:

Birba d’un figliolo, non sei ancora finite di fare e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male! (cap. III)

La nascita di Pinocchio si conclude, come si poteva immaginare, con una fuga da casa: il burattino ha capito benissimo che le gambe e i piedi servono per metterli in moto, per correre, per scappare da casa al fine di esplorare il mondo esterno. Sarà un carabiniere, piantato a gambe larghe in mezzo alla strada, ad acciuffare “pulitamente per il naso” il burattino e a consegnarlo al padre Geppetto: il quale però, a furor di popolo, viene poi messo senza alcuna colpa in prigione, primo indicatore di una giustizia derisoria e rovesciata che verrà raccontata ancora nel libro.
E intanto Pinocchio, tornato nella casa vuota e priva di ogni alimento utile ad acquietare la fame, fa il suo primo incontro con il Grillo parlante, che gli ricorda in modo pedante regole e doveri e al quale il burattino, infuriato per la predica, tirerà una martellata spiaccicandolo sul muro. Un omicidio preterintenzionale, si direbbe, ma anche – come vedremo – una morte apparente del personaggio che nella storia rappresenta più di ogni altro l’ordine di contro alla trasgressione.
A questo riguardo, è interessante rilevare che proprio l’incontro con il Grillo parlante permette a Pinocchio di esporre, in questa prima fase della sua vita appena iniziata, un progetto pienamente trasgressivo, centrato sul rifiuto di frequentare la scuola e di imparare un mestiere normale, quello che permetterebbe – come suggerisce il Grillo – di guadagnarsi onestamente un pezzo di pane.

Io, di studiare non ne ho punto voglia, e mi diverto più a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere gli uccellini di nido…
Fra i mestieri di questo mondo non ce n’è che uno solo che veramente mi vada a genio: quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo
(cap. IV)

In questo inizio impetuoso il burattino sembra avere dunque le idee ben chiare sul proprio progetto di vita; ma vedremo che gli eventi, gli incontri e la sua stessa crescita provocheranno significativi cambiamenti. La trasgressione o trasgressività, che è stata qui evocata all’inizio, non è certo – come vedremo – l’unica componente delle Avventure di Pinocchio.

CONSIGLI DI LETTURA

Forte è il bisogno di una Pedagogia costruzionista: che costruisce la cosa di cui si occupa, non accontentandosi di solo di parlarne guardandola da lontano; una pedagogia in grado di disegnare modelli, proporre pratiche, avviare e sostenere sperimentazioni, insomma collegarsi sistematicamente e quotidianamente al lavoro degli insegnanti in classe. E così occuparsi delle loro difficoltà e dei loro problemi, ascoltare le loro domande, sentire la loro passione, sostenere e accrescere le loro competenze.
Serve anche prendere e valorizzare l’esperienza che gli insegnanti possiedono, serve confrontarsi con la cultura professionale che hanno, con la conoscenza puntuale degli allievi che crescono e del contesto in cui la loro scuola opera.
Serve condividere le comuni sfide che si presentano, i grandi e veloci cambiamenti sociali, culturali, scientifici e tecnici con cui fare i conti. A chi insegna serve il lavoro della ricerca scientifica così come a chi fa ricerca e a chi deve formare i futuri insegnanti serve tutta la sapienza che solo la buona pratica può presentare e offrire.
Certo un progetto educativo si regge, prima che sulla pratica, su solide fondamenta valoriali, e si sostiene su piattaforme scientifiche che solo un grande lavoro accademico può garantire, ma le soluzioni realmente determinanti dei problemi della vita della scuola, e poi conseguentemente del futuro di un paese vengono solo da grandi alleanze: prima fra tutte quella fra ricerca e pratica educativa.
Questa premessa per indicare concretamente che il luogo privilegiato di questo incontro è la didattica e che è su questo terreno che si gioca l’ammodernamento e la qualità della scuola che vogliamo.
Con piacere dunque presentiamo questo volume di Donato De Silvestri
(Tecnodid Ed., 2020, € 26).

(gc)

Didattica

di Donato De Silvestri

Introduzione

Questo volume è indirizzato agli insegnanti che vogliono riflettere su uno dei lavori più belli del mondo, a coloro che vogliono prepararsi per diventarlo, agli educatori, ai formatori e a chi in generale è interessato a come si insegna e si impara, sia in contesti formali che informali, come la famiglia, lo sport o l'ambiente lavorativo.

Ho voluto affrontare le questioni fondamentali della didattica oggi, cercando di mantenere rigore scientifico, ma utilizzando un linguaggio comprensibile a tutti, anche ai non addetti ai lavori. Il testo alterna quindi riferimenti alla ricerca accademica e racconti, spesso riferiti alla mia lunga esperienza di insegnamento sia scuola che all'università. Ritengo infatti che una delle prerogative di una buona didattica sia la leggerezza, il mettere a proprio agio, l'imparare in una dimensione di benessere e il saper mettersi in gioco con schiettezza ed onestà. Apprendere non dovrebbe mai produrre sofferenza, che è altro dallo sforzo, quello che è richiesto quando vogliamo metterci alla prova, per conoscersi e conoscere, così come accade se si va a fare una passeggiata in montagna o una nuotata al mare.

Il testo parla molto di scuola, dei suoi problemi e delle prospettive di cambiamento che io considero una necessità non più procrastinabile. Lo dico con grande stima ed affetto per i tanti insegnanti che ogni giorno affrontano il loro lavoro con dignità ed impegno. Ho avuto modo di conoscerli da vicino e so che hanno bisogno di capire meglio le nuove sfide a cui sono chiamati, di trovare un suggerimento sulle piste da intraprendere, pur senza rinnegare la loro storia.

Si parla però anche di temi che riguardano in generale l'attualità del tempo che viviamo, come la questione delle nuove tecnologie, tra rischi ed opportunità, del lavoro a distanza, delle relazioni interpersonali e di gruppo, della gestione dei conflitti. Si ragiona di emozioni e di educazione dell'intelligenza emotiva, di giudizi e pregiudizi e di cura, di quella cura che vorremmo per noi e di quella che gli altri si attendono da noi.

Una parte ampia di questo lavoro è dedicata alla questione della valutazione, che io, come dico nel testo, considero una "brutta bestia", così importante e così pericolosa.

Ho deciso di chiudere questo lavoro con un riferimento al teatro ed alle prospettive educative che offre, un po' perché l'ho praticato a lungo, un po' perché rappresenta il senso di un vivere tra realtà e finzione, tra il nostro essere ed i ruoli che interpretiamo, perché a teatro anche la più piccola parte diventa fondamentale, perché quando è vero teatro gli attori ed il pubblico diventano un tutt'uno, per il piacere dei sorrisi, per le tante emozioni, per le magie dei silenzi, e per l'applauso finale che metaforicamente spetta a tutti coloro che sanno essere educatori e maestri.

Donato De Silvestri è Professore a contratto presso il Dipartimento di Scienze Umane dell'Università degli Studi di Verona e presso l'ISSR-VR, ed ha una lunga esperienza come insegnante e Dirigente Scolastico, nonché come formatore di docenti e dirigenti in tutta Italia. È autore di numerose pubblicazioni su didattica, progettazione educativa, innovazione tecnologica, relazioni interpersonali e di gruppo e cura una rubrica sulla rivista Scuola e Formazione.

Con Maturità-Diario di un presidente curioso, abbiamo avviato una collana dal titolo La bella scola, espressione utilizzata da Dante per indicare il bel gruppo di antichi saggi collocati nel Limbo e composto da Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, a cui si aggiunge Virgilio e in cui viene accolto lo stesso Alighieri.
Queste le terzine sulla bella scola

Così vid’i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’aquila vola.

Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e ’l mio maestro sorrise di tanto;

e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.

(Inf, IV, 94-102)

Il testo di Raffaele Mantegazza, allegato all’ultimo numero di Scuola e Formazione, lo abbiamo già presentato nella Agenda Mese di settembre, in cui si osservava che dal racconto di quella esperienza emergeva un concreto modello di Scuola Comunità.
Sul profilo della scuola-comunità Mantegazza ci aveva già offerto un contributo significativo nel n. 1-4 2020 di Scuola e Formazione dove ci sorprendeva indicando che erano tre gli elementi necessari a costruire quel valore, così, accanto ai primi due attori: gli Insegnanti e gli Allievi ne poneva un terzo ugualmente importante: la Cultura.
Affermava in un bel passaggio: “La scuola non insegna solo i contenuti ma soprattutto le relazioni tra soggetti e contenuti e le relazioni tra persone instaurate e rafforzate grazie ai contenuti”. Ed esemplificava: “Se due ragazzi cambiano il loro modo di parlare di morte dopo aver letto le lettere di Eloisa ad Abelardo, se i loro discorsi d’amore non possono più fare a meno di Paolo e Francesca, se sentono crescere dentro le loro anime il senso dell’immenso dopo aver affrontato il calcolo infinitesimale, allora la scuola avrà svolto il suo compito”.
Una apertura ulteriore a dire il significato scelto come titolo della collana che abbiamo inaugurato.