maggio 2020

In questa pagina:
Il Punto: I tempi che ci attendono (Maddalena Gissi)
La pianta del mese: Polygala exilis (Eva Kaiser - Flavia Milone)
Il Cantico: Rivoluzione della bellezza (Daniela Calabrò)
Le fonti: L’esperienza della bellezza in san Francesco d’Assisi (Mario Bertin)
Il filo dei mesi: Maggio, la primavera in pienezza (Gianni Gasparini)
Aforismi: Non c’è pericolo più grande di quello nascosto (Leonarda Tola)
Il dibattito: La scuola dove scorre un tempo collettivo (Francesco Lauria)
Hombre vertical: E se rimanessimo noi stessi? (Emidio Pichelan)
Ricorrenze: Su Aldo Moro e su Danilo Dolci (Follini - Mancini - Moro - Novara)
Note musicali: Franz Schubert, Du bist die Ruh (Francesco Ottonello)
Frammenti: Un Planctus per i nostri giorni (Gianni Gasparini)

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IL PUNTO

di Maddalena Gissi

I tempi che ci attendono

Nel momento in cui si entra ufficialmente in quella che è definita come “fase 2” dell’emergenza, con la graduale riapertura di altre attività oltre a quelle andate avanti senza sosta perché ritenute strettamente essenziali, e con un primo allentamento delle misure di lockdown, è ormai certo che una ripresa delle attività scolastiche in presenza non avverrà prima di settembre, e che l’anno in corso si concluderà nei modi con cui siamo stati costretti a operare praticamente dai primi di marzo: lezioni svolte esclusivamente on line, con una metodologia il cui acronimo (DAD) è ormai divenuto di uso comune, smart working per gli uffici di segreteria.

Che siano definite “agili” queste modalità di lavoro può far sorridere, alla luce dell’esperienza che stiamo vivendo; limitandoci all’ambito della didattica, non sono certo mancati i problemi per gli insegnanti, obbligati dalle circostanze a impostare in termini del tutto insoliti e diversi il proprio modo di fare scuola, acquisendo rapidamente competenze nuove e complesse nell’utilizzo di strumenti e tecnologie per le quali non è certo sufficiente la dimestichezza indotta dall’utilizzo ormai generalizzato che ne vien fatto. C’è una bella differenza tra il navigare in internet, o scambiarsi messaggi su watshapp, e il produrre una lezione e curarne lo svolgimento su una piattaforma on line. Per questo merita un grande apprezzamento non solo la generosità con cui un corpo professionale ha saputo cimentarsi in una sfida così impegnativa, dando prova di dedizione e senso di responsabilità, ma anche l’intelligenza con cui lo ha fatto, cogliendo da subito il bisogno e l’urgenza di colmare, insieme a ogni possibile deficit di istruzione, anche – e in alcuni casi soprattutto - il vuoto di relazioni dirette con gli alunni e fra gli alunni indotto dalla forzata permanenza di ciascuno al proprio domicilio.

Né si può dire che sul versante degli alunni (e necessariamente delle famiglie) le cose siano state molto più semplici; lo si poteva immaginare e l'ha ampiamente dimostrato il rilevamento di un soggetto autorevole come l’ISTAT, che ha fornito indicazioni precise sulla consistenza dei problemi riguardanti le connessioni alla rete, evidenziando come la percentuale di famiglie che non dispongono di un’efficace connessione sia, a livello nazionale, del 24%. Circa un quarto, dunque del totale. E là dove la connessione è disponibile, entrano in gioco le variabili riguardanti la dotazione di device, la dimensione e l’articolazione degli spazi delle abitazioni, il numero e l’età dei figli, gli impegni di lavoro dei genitori, e tante altre ancora, che non serve enumerare perché facilmente intuibili.

Su entrami i versanti (competenze degli insegnanti, accessibilità da parte degli alunni) sarà necessario intervenire, perché risolvere le criticità riscontrate significa anche sviluppare le potenzialità di un modello che non potrà mai sostituire la didattica in presenza, ma può esserne un’utile integrazione, e non solo nella gestione di situazioni di emergenza. Non si vede perché non si debbano sfruttarne al meglio le opportunità, alimentate da tecnologie sempre più diffuse e in continuo sviluppo. Avendo ben chiari limiti, rischi e difficoltà dell’esperienza che siamo stati costretti a gestire, cerchiamo di farne tesoro in termini di arricchimento del bagaglio professionale individuale e collettivo.

Si dice spesso che la scuola, come tutta la società, una volta lasciata alle spalle una così drammatica emergenza, non potrà semplicemente attendere di tornare a essere ciò che era, sarà necessariamente diversa. Tornare a scuola, per quanto più direttamente ci riguarda, non sarà semplicemente riaprirne le porte, lo si dovrà fare adottando misure che garantiscano salute e sicurezza, che non trasformino un evento così atteso nella riaccensione di focolai di contagio, e per questo anche il nostro modo di fare scuola dovrà seguire per qualche tempo modelli organizzativi inconsueti. Stiamo mettendo a punto, su tutti questi aspetti, indicazioni e proposte, per giungere preparati a un confronto che andrebbe aperto subito; il tempo non è molto per la quantità e la complessità degli aspetti da prendere in considerazione.

Società e scuola saranno diverse, ci è data l’opportunità di renderle migliori. Questo dipenderà da tutti noi e da ciascuno di noi.

Il passaggio alla fase 2 dell’emergenza, si dice, mette alla prova soprattutto la capacità di saper vivere responsabilmente gli spazi di libertà che, sia pure a piccoli passi, ci vengono restituiti. Limitare la libertà delle persone, come da qualche settimana sta avvenendo, si è rivelato misura efficace; recuperare spazi e diritti di libertà lo sarà altrettanto, solo se di quella libertà sapremo fare un uso responsabile. Questa la vera sfida della fase 2.

Due considerazioni, in chiusura, su come questa emergenza può avere cambiato la politica: chissà se anch’essa saprà fare tesoro delle difficoltà attraversate per uscirne migliore. I segnali non sono ahimé incoraggianti. E chi si sforza di leggere ottimisticamente il riemergere di attriti e polemiche in cui prevale l’approccio strumentale ai problemi, scorgendo in questo un segnale quasi confortante di ritorno alla normalità, dovrebbe riflettere un po’ di più sulle prospettive che si delineano per il nostro Paese, e per l’intero pianeta, nei prossimi mesi e forse anni. Scenari che fanno tremar le vene e i polsi se si immagina che ad affrontarli sia una politica mediocre, incapace di alzare lo sguardo dal proprio ombelico. Così come non può confortarci, avendone già sperimentato anche in tempi recenti gli esiti nefasti, il riproporsi di uno stile di governo dei problemi della scuola segnato da incapacità di ascolto e da una presunzione di autosufficienza che sta raggiungendo livelli da record assoluto.

Il punto sull’oggi è questo: noi siamo al lavoro perché quello del prossimo mese possa dar conto di qualche sollievo in più.

LA PIANTA DI COPERTINA

Disegno di Eva Kaiser
Testo di Flavia Milone

Polygala exilis

La Polygala exilis è una specie italiana spontanea inserita nelle liste della IUCN nel 2001 come minacciata. Saini e Sirotti, botanici italiani, nel 2011 ne segnalarono la presenza lungo la Foce del Reno in Emilia-Romagna; prima di allora, la Polygala exilis era considerata probabilmente estinta.

Pianta arborea, erbacea, rampicante e perenne, fu identificata dal botanico e micologo svizzero Augustin Pyrame de Candolle, che trascorse tutta la sua carriera nel tentativo di elaborare e completare il suo sistema naturale di classificazione botanica. Pianta vascolare con fiori e semi (Angiospermae), foglie alterne e spiralate. I fiori, in netta prevalenza riuniti in racemi terminali sui fusti, sono di colore blu, violetto o celeste.

In Italia si trova un po' su tutto il territorio, sui prati mediamente soleggiati e ai margini dei boschi di vario tipo. Un'antica credenza riteneva che tale erba fosse capace di aumentare la secrezione del latte nelle mucche, ma anche nelle gestanti; da qui il nome del genere “Polygala” (= molto latte), mentre il nome della specie, "exilis", allude alla sua conformazione di pianta esile, piccola e gracile.

IL CANTICO

Rivoluzione della bellezza

di Daniela Calabrò

In attesa di poter proporre, nei prossimi giorni, un più esteso approfondimento che l'autrice sta completando, pubblichiamo il testo breve che compare sull'edizione cartacea dell'Agenda.

Pensare la bellezza e dirla per poter afferrare ciò che unisce le cose del mondo, gli uomini, gli animali, la vita e la morte. Ecco il leit motiv di questo straordinario componimento.

Il Cantico delle creature è la celebrazione della bellezza: la bellezza dell’esistenza minerale; dell’esistenza spogliata, della nuda vita; l’esistenza con le cose, con il mondo, con la natura.

La bellezza non è qui rivalità o contrapposizione, ma semmai contiguità e prossimità, scambio, fratellanza, perché, come l’amore, la bellezza non si divide e non divide.

È questo pensare la bellezza delle cose umili, degli uomini ultimi, di tutto ciò che si ritiene non abbia peso ad assumere, parola dopo parola, nel Cantico delle Creature, la forma e la dignità più alte. Essere accolti così come si è, nell’unicità che si è, senza pregiudizi, senza volontà di dominio e superiorità, appunto nella bellezza senza riserve – perché nulla di altro riserva o tiene per sé; nella bellezza di ciò che tutto accoglie, fa spazio, dà luogo.

Ecco ciò che può far segno, oggi, a una rinnovata humanitas, finalmente in grado di sentire e provare la bellezza come modalità a partire da cui soltanto è possibile aprirsi all’altro e al mondo intero: il sole, la luna, l’aria, l’acqua, la terra, e infine anche la morte, ogni cosa viene restituita alla sua propria, preziosa e imprescindibile singolarità e, per questo, va "laudata" e custodita, amata senza riserve, senza regole, senza misura.

LE FONTI

a cura di Mario Bertin

L’esperienza della bellezza in san Francesco d’Assisi

L’unico modo di documentare l’esperienza della bellezza nella vita di san Francesco d’Assisi è quello di raccoglierne gli indizi disseminati nei racconti che ci hanno lasciato i suoi primi compagni e i suoi primi biografi della sua straordinaria avventura umana e spirituale. Questi indizi – peraltro assai numerosi - ci fanno scoprire una vicenda e un mondo inaspettati. D’altronde è proprio della esperienza della bellezza far vedere ciò che da soli non sapremmo vedere: una pienezza dell’essere che si traduce in una sensazione di eccedenza e di un sempre oltre. Qui proponiamo soltanto alcuni testi, ripresi dalle Fonti Francescane, che fanno intravvedere in maniera particolarmente eloquente lo spazio di questa esperienza nella vita di Francesco.

Dio è bellezza. Lodi di Dio Altissimo

   Tu sei santo, Signore Iddio unico, che i cose stupende.

   Tu sei forte, Tu sei grande. Tu sei l’Altissimo. Tu sei il Re onnipotente. Tu sei il Padre santo, Re del cielo e della terra.

   Tu sei trino e uno, Signore Iddio degli dei. Tu sei il bene, tutto il bene, il sommo bene, Signore Iddio vivo e vero.

   Tu sei amore, carità. Tu sei sapienza. Tu sei umiltà. Tu sei pazienza. Tu sei bellezza. Tu sei sicurezza. Tu sei la pace. Tu sei gaudio e letizia. Tu sei la nostra speranza. Tu sei giustizia. Tu sei temperanza. Tu sei ogni nostra ricchezza.

   Tu sei bellezza. Tu sei mitezza. Tu sei il protettore. Tu sei il custode e il protettore nostro. Tu sei fortezza. Tu sei rifugio.

   Tu sei la nostra speranza. Tu sei la nostra fede. Tu sei la nostra carità. Tu sei tutta la nostra dolcezza. Tu sei la nostra vita eterna, grande e ammirabile Signore, Dio onnipotente, misericordioso Salvatore.

(Le lodi di Dio Altissimo” sono state scritte da san Francesco in latino nel 1224, due anni prima della morte. Ci sono state tramandate autografe sul verso della pergamena con la “Benedizione a frate Leone”. La piccola pergamena è arrivata fino a noi piegata in quattro e sgualcita per essere stata portata indosso dal destinatario fino alla sua morte, avvenuta nel 1271)

La bellezza del creato

   In ogni opera loda l’Artefice; tutto ciò che trova nelle creature lo riferisce al Creatore. Esulta di gioia in tutte le opere delle mani del Signore, e attraverso questa visione letificante intuisce la causa e la ragione che le vivifica. Nelle cose belle riconosce la Bellezza Somma, e da tutto ciò che per lui è buono sale un grido: “Chi ci ha creati è infinitamente buono”. Attraverso le orme impresse nella natura, segue ovunque il Diletto e si fa scala di ogni cosa per giungere al suo trono.

   Abbraccia tutti gli esseri creati con un amore e una devozione quale non si è mai udita, parlando loro del Signore ed esortandoli alla sua lode. Ha riguardo per le lucerne, lampade e candele, e non vuole spegnerne di sua mano lo splendore, simbolo della Luce eterna. Cammina con riverenza sulle pietre, per riguardo a colui che è detto Pietra […].

   Quando i frati tagliano legna, proibisce loro di recidere del tutto l’albero, perché possa gettare novi germogli. E ordina che l’ortolano lasci incolti i confini attorno all’orto, affinché a suo tempo il verde delle erbe e lo splendore dei fiori cantino quanto è bello il Padre di tutto il creato. Vuole pure che nell’orto un’aiuola sia riservata alle erbe odorose e che producono fiori, perché richiamino a chi le osserva il ricordo della soavità eterna.

Raccoglie perfino dalla strada i piccoli vermi, perché non siano calpestati e alle api vuole che si somministri del miele ed ottimo vino, affinché non muoiano di inedia nel rigore dell’inverno.

   Chiama col nome di fratello tutti gli animali, quantunque in ogni specie prediliga quelli mansueti.

(Tommaso a Celano, Vita Seconda di San Francesco d’Assisi, 165)

   Tutte le creature da parte loro si sforzano di contraccambiare l’amore del Santo e di ripagarlo con la loro gratitudine. Sorridono quando le accarezza, danno segni di consenso quando le interroga, obbediscono quando comanda. Sia sufficiente qualche esempio.

   Al tempo della sua malattia d’occhi, trovandosi costretto a permettere che lo si curasse, viene chiamato un chirurgo, che giunge portando con sé il ferro per cauterizzare. Ordina che sia messo nel fuoco, fino a che sia tutto arroventato. Il Padre, per confortare il corpo già scosso dal terrore, parla al fuoco: “Frate mio fuoco, di bellezza invidiabile fra tutte le creature, l’Altissimo ti ha creato vigoroso, bello e utile. Sii propizio a me in quest’ora, sii cortese!, perché da gran tempo ti ho amato nel Signore. Prego il Signore grande che ti ha creato di temperare ora il tuo calore on modo che io possa sopportare, se mi bruci con dolcezza”.

   Terminata la preghiera, traccia un segno di croce sul fuoco e poi aspetta intrepido. Il medico prende in mano il ferro incandescente e torrido, mentre i frati fuggono vinti dalla compassione. Il Santo invece si offre pronto e sorridente al ferro.

   Il cautere affonda crepitando nella carne viva, e la bruciatura si estende poco a poco dall’orecchio al sopraciglio. Quanto dolore gli abbia procurato il fuoco, ce lo testimoniano le parole del Santo, che lo sapeva meglio di tutti. Infatti, quando ritornarono i frati che erano fuggiti, il Padre disse sorridendo: “Pusillanimi e di poco coraggio, perché siete fuggiti? In verità vi dico, non ho provato né l’ardore del fuoco né alcun dolore della carne”. E rivolto al medico: “Se la carne non è bene cauterizzata, brucia di nuovo”, gli disse.

(Tommaso da Celano, Ibidem, 166)

   E quale estasi gli procurava la bellezza dei fiori, quando ammirava le loro forme o quando ne aspirava la delicata fragranza! Subito ricordava la bellezza di quell’altro Fiore il quale, spuntando luminoso nel cuore dell’inverno dalla radice di Iesse, col suo profumo ritornò alla vita migliaia e migliaia di morti. Se vedeva distese di fiori, si fermava a predicare loro e li invitava a lodare e ad amare Iddio, come esseri dotati di ragione, allo stesso modo le messi e le vigne, le pietre e le selve e le belle campagne, le acque correnti e i giardini verdeggianti, la terra e il fuoco, l’aria e il vento con semplicità e purità di cuore invitava ad amare e a lodare il Signore. E finalmente chiamava tutte le creature col nome di fratello e sorella, intuendone i segreti in modo mirabile e noto a nessun altro, perché aveva conquistato la libertà della gloria riservata ai figli di Dio.

(Tommaso da Celano, Vita Prima di San Francesco d’Assisi, 81)

IL FILO DEI MESI

Maggio, la primavera in pienezza

di Gianni Gasparini

Maggio. La pienezza della primavera. Il ritorno di qualcosa di antico, già vissuto prima di noi ma tuttora dentro le nostre fibre.

La forza della linfa che sale dalle radici verso la cima degli alberi e li vivifica, li trasforma. La profusione dei fiori nei prati, nel sottobosco, nei giardini di città: i loro colori che si accostano e si alternano armoniosamente. Giallo, bianco, viola, lilla, rosa, rosso si stagliano sul verde dell’erba nuova. Gli insetti si muovono, ronzano e impollinano: farfalle e libellule, api e vespe, maggiolini e formiche. Gli uccelli riprendono a cantare dai loro posatoi arborei, gli animali si affacciano furtivi dalle tane.

Le giornate si allungano, la temperatura si fa mite. I cavalieri del medioevo escono per una corsa nei campi attorno al borgo o attraverso il bosco, si preparano alla stagione delle competizioni e della guerra. Ma chi può escludere che anch’essi non siano colpiti dal medesimo sentimento di incanto per la natura che ci pervade oggi - noi uomini e donne del XXI secolo - quando ci inoltriamo a primavera in un sentiero o in un cammino fiorito?

È a maggio, Lanquand li jorn son long, che Jaufre Rudel, conte di Blaia in Aquitania, scrive dell’amor de lonh, la più grande invenzione della poesia provenzale:

Allor che i giorni sono lunghi in maggio
amo d’uccelli il dolce canto, lontano,
e quando poi di là io me ne vado
mi risovvengo d’un amor lontano.
Di desiderio vado curvo e mesto,
tanto che canto o fior di biancospino
non m’è più grato del gelato inverno.

L’amor lontano, il sublime sentimento che lega il trovatore alla sua domna, non ha termine mai, non potrà mai essere colmato: la lontananza, come quella insuperabile del mare che divide il poeta dalla donna amata, ne è pungolo, segno e custodia. L’amor de lonh, che non può mai essere appagato, risorge ogni volta maggiore.

Diverso è l’amore cantato secoli dopo, nel Rinascimento toscano, da Lorenzo il Magnifico o dal Poliziano come in questi celebri versi:

Ben venga maggio
e ‘l gonfalon selvaggio!
Ben venga primavera,
che vuol l’uom s’innamori
e voi, donzelle, a schiera
con li vostri amadori,
che di rose e di fiori,
vi fate belle il maggio.

L’esuberanza si comunica, si fa festa condivisa nei cortei danzanti. Gioia sfrenata e insieme senso dell’effimero, che la natura stessa comunica. L’incertezza radicale percepita sul domani non blocca ma anzi invita al godimento, alla lietezza che esalta l’hic et nunc, l’attimo o il giorno che fugge. Si raccolgono rami fioriti, si trasportano alberi persino. I giovani intonano stornelli e composizioni in musica per le loro innamorate. Ancora oggi alcune di queste antiche tradizioni sono restate, per celebrare una stagione che a maggio più che negli altri mesi primaverili trova una pienezza debordante.

Intanto, mesi e stagioni indicano la storia dell’uomo e delle società accanto a quella della natura, che sembra ripetersi ogni anno invariata. Quest’anno, lo sappiamo, la storia del mondo è segnata drammaticamente dalla pandemia del coronavirus. Eppure, il Primo maggio e la festa del lavoro restano come una sottolineatura con la matita rossa sul calendario, un punto messo in evidenza nello scorrere inarrestabile del tempo cosmico. È come una sosta per affermare un valore essenziale della modernità in cui viviamo: il lavoro nella sua dignità e creatività, con tutto ciò che lo accompagna in termini di modi di vita e di qualità della vita. Un valore in cui continuare a credere anche quando le nostre certezze vengono scosse violentemente da sorprese inaudite: come quella di un virus sconosciuto e inquietante che contagia il mondo intero.

AFORISMI

 a cura di Leonarda Tola

Non c’è pericolo più grande di quello nascosto

Nella tradizione popolare e colta di aforismi e proverbi ricorre insistentemente il tema dei pericoli di cui è cosparso l’insidioso cammino della vita umana. Si ritiene che tra i pericoli, quelli conosciuti, per quanto siano mali e non cambino, risultino meno gravi in quanto vengono affrontati con la forza che viene dall’abitudine a combatterli e vincerli. Per la stessa ragione le cose note, anche nocive, incutono meno timore e sono più sopportabili: “Infatti colpisce meno pesantemente (laevius laedit) qualcosa che prima abbiamo previsto”, dice Catone che avverte sulla necessità di predisporre tutti gli accorgimenti perché le disavventure che sono di là da venire possano essere sventate con agio e qualche successo. Gran parte del danno derivante da un pericolo è dunque il trovarsi impreparati a respingerlo e scongiurarlo: “Il peggiore dei pericoli è quello che se ne sta nascosto (“O pessimum periclum quod opertum latet”) dice una sentenza attribuita a Publilio Siro. Inoltre ogni male è più grave (gravius malum omne est) se non vi è corrispondenza tra l’ingannevole aspetto esteriore e la pericolosità occulta: per esempio l’aspide che si cela nell’erba o lo scorpione sotto il sasso. Con frequenza si sentenzia che, pagato l’inevitabile prezzo della paura, non vi sia tuttavia pericolo che non si possa fronteggiare e superare. Serve la perizia del navigante-timoniere che in ogni tempesta o avversità sappia trovare salvezza in un porto sicuro (inveni portum / ἤλυθον είς λιμένα).

In questi giorni di crudele pandemia torna utile un proverbio africano suggerito da S. Agostino: “La peste pretende una moneta: dagliene due e sparisca” (Nummum quaerit pestilentia: duo illi da et ducat se”). Curioso che la pestilenza, altro nome per dire il diavolo, sia messa in relazione con il denaro che non è propriamente l’acquasanta tanto che la stessa pecunia è detta sterco del diavolo. Per mettere in fuga un pericolo esiziale, è lecito dunque pagare un prezzo anche doppio rispetto a quello preteso.

Opporre alla pericolosità della pandemia “la potenza di fuoco” del danaro per il salvataggio dell’Europa: è quanto si chiede. “Il nemico se puoi pagalo”, dice un altro proverbio (sardo). Covid-19 non saprà mai quanto è costato.

IL DIBATTITO

La scuola dove scorre un tempo collettivo

un invito a riflettere di Francesco Lauria

Da Francesco Lauria, sindacalista impegnato da anni in attività di formazione presso il Centro Studi CISL di Firenze, riceviamo una breve riflessione sul valore della scuola accompagnata dalla segnalazione di un'esperienza - quella delle scuole itineranti promosse dal Movimento dei Contadini senza Terra in Brasile - che ne sottolinea il ruolo fondamentale come fattore di emancipazione e di autentica democrazia.

Ciao, ieri ascoltando le "non" parole di Conte sulla scuola mi è venuto un grande moto di sconforto.
Poco prima avevo visto invece un bel servizio sulle 301 fattorie didattiche presenti in Veneto che si proponevano come luogo, all'aperto e in sicurezza, per assicurare (quando sarà possibile) una ripresa della didattica, ma anche della socialità dei bambini e delle bambine.
Ho pensato, certo non con grande originalità, che la debolezza del nostro sistema territoriale, sanitario, come scolastico ci rende molto più vulnerabili, direi quasi soli.
Abbiamo una grande tradizione, quella delle 150 ore per il diritto allo studio, ma anche il grande successivo sforzo sindacale per i decreti delegati cui si affiancò la riforma organizzativa (prima unitaria e poi solo Cisl) delle zone e dei comprensori dentro le organizzazioni dei lavoratori.
Ho letto molto di quegli atti e di quelle speranze vanificate anche dai tempi del riflusso e dal ripiegamento/ripensamento del sindacato confederale non solo in Italia. Il tema è molto complesso, ma credo non privo di interesse e attualità.
Rilancio una riflessione che viene da una terra lontana, ma a noi cara, il Brasile. Terra in cui mi risulta essere previsto anche un rilancio della collaborazione formativa con la Cisl.
È credo dalle righe che seguono che può giungere un'ispirazione, meglio un'aspirazione democratica e collettiva valida per la scuola dei bambini e come degli adulti, per la formazione, per l'apprendimento cooperativo, per il pensiero critico.
Sarei curioso di sapere cosa ne pensiate. Alla fine la globalizzazione, anche in tempi di Covid 19 e di fasi 2 senza scuola, vale anche per le speranze e per le esperienze di speranza, non solo per le merci e le catene globali del valore.

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Escola Nacional Florestan Fernandes.
Passi che si incrociano, seguono le orme dei sentieri, ci allertano a non sentirci padroni della Terra ma scoprirci ospiti, abitanti temporanei, viandanti transitori in lotta per la giustizia. Passi che si muovono sui passi, occupano latifondi, recuperano terre abbandonate dalla povertà, dalla miseria, col duro lavoro dei campi. Piedi nudi che camminano insieme, percorrono migliaia di chilometri, marciano rivendicando la riforma agraria, spesso feriti. Mani nelle mani che si incontrano seminando, piantando, coltivando, raccogliendo, si uniscono, impugnano penne, imparano a leggere e a scrivere. Voci che discutono, dialogano, dibattono, cantano nelle baracche o all’ombra degli alberi. Lavoro che trasforma le mani, i piedi, le vite, le coscienze negli accampamenti, nei centri culturali, nelle «scuole itineranti».

LA PEDAGOGIA del Movimento dei contadini senza terra è parte di una secolare tradizione di lotte contadine in Brasile. Dal 1984, anno del primo congresso nazionale, i militanti del Mst, storicamente espropriati dalle terre, oppressi, tenuti in una condizione di sfruttamento e analfabetismo, organizzandosi in nuclei, settori regionali e nazionali, lottano per un’equa distribuzione della terra che vuol dire alimentazione, salute, lavoro, educazione. Nel corso di questo cammino hanno costituito più di duemila scuole, accogliendo oltre duecentomila studenti. In una terra a Guararema, zona rurale nella periferia di São Paulo, più di mille volontari hanno lavorato insieme per giorni, settimane, mesi, anni. Non importa il tempo, non serve contare i giorni, si sollevano nubi di polvere, braccia al cielo si uniscono e lavorano, bisogna costruire una scuola, anzi un’idea, una pedagogia a favore dell’alfabetizzazione, della salute, del pensiero critico, del lavoro cooperativo, dell’agro-ecologia.

LA COSTRUZIONE della Scuola è stata parte di questa intenzionalità politico-pedagogica in un processo organizzativo costituito da brigate di lavoratori accompagnati da un collettivo composto da professionisti, responsabili per l’ingegneria e la tecnica. Il processo educativo è sorto fin dalla architettura, nel dibattito su come distribuire gli ambienti, le aule, il teatro, la mensa, i dormitori, su come intercettare la luce, sull’utilizzo delle energie rinnovabili. Ci sono idee che prendono forma in attimi o secoli. La Scuola Florestan Fernandes è stata realizzata in due anni, inaugurata nel 2005, ma la si immaginava da tempo indefinibile. Nel pensiero pedagogico della Scuola confluiscono la tradizione sindacale, la chiesa di base, la commissione pastorale della terra, la formazione dei lavoratori. Alcuni principi del marxismo latinoamericano si integrano con un’organizzazione di attività quotidiane scandite da un ritmo collettivo in armonia con la natura e col lavoro. Da un lato, c’è lo studio, dall’altra il principio formativo del lavoro.

LA FORMULA DI LAVORARE, studiare, condividere, organizzarsi è intervallata dalla mistica, pratica di condivisione dei valori etici e spirituali caratteristico della storia del Mst, ricerca di giustizia, umanità, solidarietà: è essa stessa un lavoro che costruisce i principi di una società solidale, cooperativa, profondamente in contraddizione col sistema globale basato sul profitto e lo sfruttamento. Poi si va in classe, si discute di educazione popolare, di Paulo Freire, di Antonio Gramsci, ci si impegna sul metodo di alfabetizzazione, la formazione degli educatori, si dialoga sulla parità di genere, sui diritti del lavoro, si incontrano culture diverse e lontane. Si riflette a partire dalla pratica, non si fa apologia ideologica, ma si studia rigorosamente, con attenzione, andando alle fonti, frequentando la biblioteca, utilizzando la tecnologia. Si opera un superamento dell’individuo a favore del collettivo, in un processo educativo utile a costituire un modello di agricoltura libera da ogni oppressione, in cui sono eliminati gli agro-tossici e le forme di sfruttamento capitalista della terra. La Scuola è riferimento e ispirazione per università e centri di ricerca con cui ha stretto accordi istituendo centinaia di corsi su tematiche di educazione rurale, educazione alla salute, educazione popolare, ecofemminismo, pedagogia dei movimenti sociali. Un luogo di incontro per la pedagogia latinoamericana, aperto a una cultura plurale, critica, trasformatrice, ma anche dalle forti contraddizioni: difende, infatti, principi socialisti in un mondo aspramente capitalista; mette radici in zone rurali in un mondo attratto dalle grandi urbanizzazioni; pratica la solidarietà in un mondo di chiusure ed egoismi; vive di cooperazione in un mondo di consumi spesso sfrenati.

QUESTE CONTRADDIZIONI degenerano in conflitti di fronte alle abissali negazioni dei diritti in Brasile, all’offensiva del neoliberismo, come attestano le persecuzioni mediatiche, militari, ideologiche. Gli atti di violenza ai danni del Mst si sono moltiplicati nella storia del movimento: le stragi di Corumbiara ed Eldorado dos Carajás, del 1995 e 1996, in cui persero la vita centinaia di lavoratori per attacchi da parte di miliziani armati, segnano la memoria del movimento; recentemente, in una diretta facebook, l’attuale presidente Jair Bolsonaro ha dichiarato di voler equiparare le occupazioni del Mst ad atti di terrorismo e, mimando entusiasticamente l’uso dei fucili, ha affermato che i latifondisti possono sentirsi liberi di utilizzare le armi come si fa in Italia con la «legittima difesa». A questa dichiarazione hanno fatto seguito una serie di azioni criminali contro i lavoratori.

NONOSTANTE LE CONTINUE e sistematiche azioni di aggressione, linciaggio, calunnie, la Scuola resiste come luogo di innovazione culturale a livello internazionale tanto da far dichiarare a Roberto Leher, ex rettore dell’Universidade Federal do Rio de Janeiro da sempre vicino al Mst, che «è uno dei luoghi più inventivi in termini di pensiero critico, uno spazio plurale in cui circola il meglio della produzione scientifica brasiliana, latinoamericana, africana e di altri Paesi e compie una funzione importantissima nella formazione dei movimenti sociali». Così si ribalta la prospettiva della pedagogia nel suo senso più ampio e complesso. Chi ha avuto negato il riconoscimento della propria cultura, l’accesso all’educazione pubblica, all’alfabetizzazione, si organizza in modo cooperativo, costituisce una propria storia educativa che dà una grande lezione alle università e al sapere istituzionale affinché si vada oltre i confini materiali, intercettando il vento di trasformazione sociale che proviene dalle realtà di base, dalle militanze politiche, dall’impegno civile, da una pedagogia capace di dialogo, contraddizione, trasformazione sociale in cui, come raccomandato dallo stesso Florestan, sociologo da cui prende il nome la scuola: «la teoria possa servire da azione per la trasformazione umana e sociale».

www.rrrquarrata.it/www/la-scuola-dove-scorre-un-tempo-collettivo/

HOMBRE VERTICAL

di Emidio Pichelan

E se rimanessimo noi stessi?

Per García Lorca, mago inarrivabile di parole e di metafore, di suoni e di tempi immaginifici, il momento della verità arriva, puntualmente, a las cinco de la tarde, alle cinque del pomeriggio.

Secondo altri, il grande dolore, la sciagura improvvisa e fatale rendono l’uomo migliore: perché, come nella fiaba del re nudo, lo spogliano di tutte le stratificazioni e di ogni orpello, frantumano gli alibi, riportano i capri espiatori a quello che sono: capri espiatori, appunto, deviazioni dalla ricerca della verità (possibile).

Dostoevskij, che non è un padre della Chiesa ma che vanta una conoscenza dell’anima umana (non solo russa) di grande spessore, la pensava diversamente: “Un dolore autentico, indiscutibile è capace di rendere talvolta serio e forte, sia pure per poco tempo, anche un uomo fenomenalmente leggero; per un dolore vero, sincero, anche gli imbecilli sono diventati qualche volta intelligenti, ma sempre per qualche tempo”.

Come a dire: nella buona e nella cattiva sorte, rimaniamo quello che siamo. L’impatto degli avvenimenti esterni, non importa quanto devastanti e significativi, dipende dal singolo. Dalla volontà del singolo.

È più facile dare il nome e il cognome e la paternità e la maternità e l’infanzia al nemico esterno che a quello interno (o, più probabilmente, ai vari nemici interni), acquattato e ben pasciuto in anni e anni di complicità nel più profondo dell’io. E’ più facile riconoscere i vicini e lontani come esseri malvagi, corrotti, mafiosi, ipocriti, ottusi, narcisi, biliosi, predicatori di paure (sempre meglio usare il plurale, le paure), campane vuote (perché, per dirla con Paolo di Tarso, l’impareggiabile grafomane, ignorano che cosa sia l’amore) che attaccare il codice di riconoscimento alla propria ignoranza, alla personale pigrizia, alla individuale propensione allo scaricabarile, alla irrazionale (e pericolosissima, per sé e ancor più per la comunità) voglia di affidarsi all’uomo forte (salvatore della patria, tagliatore di tutti i nodi gordiani passati, presenti e futuri). E che dire delle piaghe radicate nella storia italiana, quali il familismo (amorale), la sfiducia verso lo Stato, la disistima per le istituzioni?

“Andrà tutto bene”; lo slogan occupa spazi televisivi, corre di balcone in balcone, danza dalle pareti delle nostre case, è impresso nelle pagine dei quaderni dei nostri figli e nipoti. Suona carezzevole, sale dal nostro profondo con la forza di una nuova vita, contagia vicini e lontani, alimenta la comunità. E ci mancherebbe. A una condizione: che non si parli più di cambiamento, parola usata e abusata e logorata e consumata da una inguaribile inerzia morale e culturale.

Ma si parli di metànoia: di “profondo mutamento nel modo del pensare, del sentire, del giudicare le cose” (Treccani). E quando si parla di conversione (metanoia), le cose si fanno serie. Molto più serie. Come ci ha dimostrato e insegnato ad abundantiam il Poverello di Assisi.

RICORRENZE

 

Tre le ricorrenze che proponiamo in questo mese: il 9 maggio, anniversario dell'uccisione dio Aldo Moro, avvenuta per mano delle Brigate Rosse nel 1978; la giornata internazionale del vivere insieme in pace, che si celebra il 16 maggio; quella degli operatori di pace della Nazioni Unite, il 29 maggio.
Non citiamo il 1° maggio, che per il mondo del lavoro è ricorrenza fondamentale, solo perché già celebrato nel momento in cui escono questi approfondimenti.

9 maggio - Anniversario dell'uccisione di Aldo Moro

Il corpo di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse dopo la lunga prigionia seguita al suo rapimento, fu ritrovato a Roma il 9 maggio 1978, nel bagagliaio di una Rénault rossa abbandonata in via Caetani, "la prima traversa a destra di via delle Botteghe Oscure", come ebbe a precisare chi diede telefonicamente l'annuncio dell'avvenuta "esecuzione" (si seppe poi che si trattava del brigatista Valerio Morucci), fornendo all'assistente di Moro, Francesco Tritto, le necessarie indicazioni per ritrovarne il corpo.

L'evento segna la conclusione tragica di una vicenda di cui numerosi aspetti non sono stati mai definitivamente chiariti, nonostante che per far luce su di essa ben due commissioni parlamentari abbiano lavorato per anni. Da ultimo quella presieduta dall'on. Giuseppe Fioroni, istituita nel 2014 e che ha presentato nel dicembre del 2017 una lunga e dettagliata relazione di cui è disponibile la pubblicazione negli Atti Parlamentari.
Al di là delle numerose pubblicazioni (ricordiamo fra le prime "L'affaire Moro" di Leonardo Sciascia), cui è sempre possibile fare riferimento, segnaliamo tre pezzi più brevi, quindi immediatamente utilizzabili anche in ambito didattico: il primo è uno scritto di Marco Follini, che proprio Moro avviò alla politica negli anni Settanta, affidandogli la guida del movimento giovanile della Democrazia Cristiana. Il ricordo di Follini non è rivolto tanto al profilo dello statista e ai contenuti della sua azione politica, quanto all’umanità di Aldo Moro, alla cura e all’attenzione da lui dedicata alle persone e ai loro problemi, in quella che Follini ricorda come una lezione sulla politica, fatta di fatica e disponibilità. Lo scritto, già comparso sulla rivista mensile "Formiche", è stato pubblicato tra gli approfondimenti dell'Agenda Cisl Scuola nel 2014 per gentile concessione dell’autore.

L'umanità di un politico

Il secondo, da noi pubblicato nel 2018, quarantesimo anniversario della morte di Moro, è uno scritto di don Italo Mancini (Schieti, 4 marzo 1925 –Urbino, 7 gennaio 1993), sacerdote, filosofo e teologo, che riporta un brano dell’omelia da lui pronunciata in una messa di suffragio celebrata nel settimo giorno della morte.

Teologia dell'olocausto

Il terzo è il testo dell'intervento con cui lo storico Renato Moro, allievo di Renzo De Felice e nipote dello statista ucciso dalle Br, ne tracciò il profilo nel corso della cerimonia svoltasi al Quirinale il 23 settembre del 2016, data di quello che sarebbe stato il suo centesimo compleanno.

Un costruttore di reti tra stati e popoli 

16 maggio – Giornata Mondiale del vivere insieme in pace

Giornata Internazionale istituita dall’Assemblea generale dell’ONU l’8 dicembre 2017 con documento A/72/L.26.

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29 maggio - Giornata Internazionale degli operatori di pace delle Nazioni Unite

La Giornata internazionale delle forze di pace delle Nazioni Unite rende omaggio a civili, polizia e militari per il loro prezioso contributo al lavoro delle Nazioni Unite. È anche un'opportunità per onorare il ricordo di quasi 4.000 soldati di pace che hanno perso la vita mentre prestavano servizio sotto la bandiera delle Nazioni Unite dal 1948 a oggi.

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Due sono dunque le date, nel mese di maggio, che ci invitano a riflettere e mettere a tema l'educazione alla pace. Proponiamo per questo un breve testo in cui Daniele Novara ricorda il pensiero e l'azione di un importante educatore che della non violenza, della condivisione, della solidarietà e dell'impegno sociale ha fatto il compito di tutta una vita, Danilo Dolci.
Di Daniele Novara indichiamo anche il suo testo "Scegliere la pace", edizioni Gruppo Abele.

La pedagogia maieutica di Danilo Dolci

NOTE MUSICALI

a cura di Francesco Ottonello

Franz Schubert (1797 – 1828): Du bist die Ruh (Tu sei la pace), op. 59 n. 3, D. 776

In Italia, alla parola tedesca Lied normalmente associamo un tipo specifico di composizione vocale, per lo più accompagnata da pianoforte; ad essa conferiamo anche un ambito cronologico ben definito, che all’incirca va dalla fine del Settecento fino a tutto l’Ottocento, con alcune propaggini nel Novecento storico. In realtà il termine Lied, in tedesco, ha un significato molto più ampio e indica tutte quelle composizioni poetiche che hanno una forma strofica e che solo occasionalmente vengono posti in musica.
Sovente, i poeti tedeschi che hanno composto forme di questo genere non hanno pensato che esse potessero essere messe in musica da questo o quel compositore. Tuttavia, per converso, è vero che la grande tradizione vocale cameristica germanica proprio nella melodia vocale con accompagnamento di pianoforte ha trovato una delle proprie espressioni più originali e fortunate.
Nella storia dell’evoluzione del Lied un ruolo di primaria importanza riveste Franz Schubert, che ha fatto della melodia vocale con accompagnamento pianistico il genere più praticato nell’ambito dell’intera sua produzione musicale: sono oltre 700 i Lied concepiti nel corso della propria attività di compositore, ed è grazie a Schubert che al Lied viene impressa una forza propulsiva tale da affrancarlo da un ruolo squisitamente domestico-salottiero, per accedere con successo alle sale da concerto ed essere posto a pari grado della musica strumentale da camera.
Schubert eredita e fa propri tutti gli aspetti della liederistica che l’avevano preceduto, infondendovi nuova linfa vitale, trasformando un genere prettamente borghese in un momento di riflessione sui valori dell’universalità umana. Tutti i parametri che compongono una melodia accompagnata dal pianoforte vengono rivisitati, ripensati e reimpostati. Il singolo Lied diventa un mondo in cui si incrociano passioni, tormenti, speranze, sentimenti: una sorta di microcosmo universale.
Il Lied intitolato Tu sei la pace (Du bist die Ruh), forse uno dei più belli di Schubert, racchiude in sé molte delle potenzialità descrittive che possono scaturire, quando la parola poetica e la musica si incontrano.

Ecco la traduzione del testo in Italiano
(Testo originale di Friedrich Rückert):

Tu sei la pace,
la dolce tranquillità,
sei la nostalgia,
e ciò che l’appaga.

A te io consacro
piena di gioia e dolore,
quale dimora
gli occhi e il cuore.

Entra in me
e richiudi
in silenzio dietro a te
la porta.

Allontana il dolore
da questo petto!
Pieno sia questo cuore
della tua letizia.

Questo sguardo
dal tuo solo splendore
illuminato,
riempilo tutto!

(Traduzione di Pietro Soresina)

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FRAMMENTI

Un Planctus per i nostri giorni

di Gianni Gasparini

Nel 2002 Arvo Pärt, forse il più grande e il più intenso tra i musicisti contemporanei, ha scritto un Lamentate per piano e orchestra che si pone nella linea delle composizioni musicali del Planctus o del Lamento che si sono susseguite dal Medioevo in poi. Anche in poesia questo genere ha conosciuto espressioni memorabili: come il Llanto por Ignacio composto nel 1935 da García Lorca per l’amico caduto nella corrida, che riecheggia in una sola persona morente tutto il dolore del mondo.

Pärt ha scritto che il suo Lamentate, ispiratogli da una grande scultura dell’artista Anish Kapoor, Marsyas (colui che perde la sfida con Apollo e viene scorticato vivo), è come una riflessione profonda sul tempo: “Ebbi forte la sensazione di non essere pronto a morire… e mi chiesi che cosa avrei potuto fare nel tempo che ancora mi restava da vivere”. Il Lamento non è per i morti, ma per i vivi: per noi che dobbiamo far fronte alla sofferenza e alla morte, che lottiamo contro il dolore e la disperazione.

Se fossi musicista, vorrei tentare anch’io di comporre con le mie forze e i miei limiti un Lamento, un Planctus per il mondo colpito dalla tragedia del virus che in poche settimane ha cambiato la nostra vita, il tempo presente e quello futuro, mentre il passato si sgrana davanti a noi come un tempo storico altro, diverso, irrecuperabile così com’era. Un Lamento per non dimenticare nessuno: i morti anzitutto, quelli che hanno lottato pochi giorni o molte settimane prima di cedere; quelli che sono morti senza la consolazione dei vivi, di qualcuno accanto a loro nel giorno estremo. Ma, soprattutto e come dice Pärt, un Lamento per noi che siamo qui a far fronte, a “fare con” quello che non possiamo rifiutare.

Un Lamento per i bambini che non vanno più al nido e all’asilo, che non si preparano più in questi mesi agli anni della scuola attraverso il gioco e la socialità infantile. Per i bambini e i ragazzi delle scuole elementari e delle medie, privati improvvisamente di ciò che era normale: non solo dei loro insegnanti, ma dei compagni di scuola e di tutte le attività sportive e culturali che svolgevano. Per gli adolescenti dei licei e scuole superiori: per il loro sforzo di apprendimento frustrato, per i riti che la sospensione della scuola ha interrotto bruscamente, malgrado l’offerta di lezioni on-line. Per gli studenti universitari privati del rapporto creativo e dinamico che è possibile solo in una lezione dal vivo anziché a distanza. Per le maestre e maestri, insegnanti, docenti e ricercatori di ogni istituzione scolastica e universitaria. Per tutti quelli impegnati nelle attività artistiche e culturali. Per gli anziani che avevano ancora progetti e sogni per gli anni a venire e li vedono venir meno.

E per tutti quelli che vivono con coraggio le condizioni più rischiose negli ospedali, nei luoghi di residenza degli anziani e dei soggetti deboli. Per chi si prodiga a favore degli altri, di chi ha perso un lavoro precario o apparentemente sicuro, di chi continua anche ora a dormire all’aperto su una panchina o sotto un portico… Un Planctus per non dimenticare nessuno. Anche se è impossibile. Anche se ci vorrebbe ora un grande compositore o un grandissimo poeta per scriverlo, per dirlo; e forse non basterebbe.

Eppure questo Planctus, questo Lamento io lo sento necessario per conferire senso e nobiltà, per dare espressione e conforto a quanto stiamo vivendo. Per innalzare un ponte di mille anni tra passato e futuro, accettando questo nostro presente con dolore e speranza insieme.

Gianni Gasparini, 3 maggio 2020