luglio 2020

In questa pagina:
Il Punto: Strane vacanze (Maddalena Gissi)
La pianta del mese: Malaxis paludosa (Eva Kaiser - Flavia Milone)
Il Cantico: C’è da cantare, c’è da laudare (Paolo Venturino)
Le fonti: San Francesco e la musica (Mario Bertin)
Il filo dei mesi: Luglio. Perché la montagna (Gianni Gasparini)
Aforismi: Experto credite - La parola agli esperti (Leonarda Tola)
Hombre vertical: Ma vi sembra questa una stagione... (Emidio Pichelan)
Note musicali: Gabriel Fauré, Requiem (Francesco Ottonello)
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IL PUNTO

di Maddalena Gissi

Strane vacanze

Da sempre luglio, per il mondo della scuola, è sinonimo di vacanza. Concluse le attività educative della scuola dell’infanzia, già interrotta ovunque la frequenza degli alunni, salvo qualche coda per gli esami di maturità, le scuole restano vuote, per tornare gradualmente a popolarsi a cavallo tra agosto e settembre. È ovvio che sto parlando di quanto accadeva negli anni scorsi, perché ciò che stiamo vivendo quest’anno è molto, ma molto diverso. Aule vuote da fine febbraio. Contatti mantenuti solo attraverso gli schermi di dispositivi di varia natura, o ancor meno, quando la loro disponibilità si è rivelata insufficiente o assente del tutto. Un parziale rientro, tra mille apprensioni, solo per gli esami di Stato degli alunni più grandi, un contatto fugace che qualcuno ha voluto vedere come prova generale di quanto si dovrà fare a settembre. In realtà non si tratta affatto di situazioni confrontabili. Un conto è organizzare, a fine giugno, la presenza in classe di mezzo milione di alunni, uno alla volta e ciascuno per un’ora di colloquio: altra cosa la permanenza per almeno quattro-cinque ore al giorno, in contemporanea, per otto milioni di studenti. Osservando precauzioni imposte da una pandemia non ancora debellata e della quale occorre evitare ogni possibile recrudescenza.

Il varo delle tanto attese “linee guida”, dopo una gestazione alquanto travagliata, è avvenuto solo pochi giorni or sono. Si tratta ora di verificare come e quanto delle indicazioni che contiene potrà trovare pratica attuazione nel concreto di ogni singola istituzione scolastica. “Davanti – come notava Carlo Verdelli sul Corriere del 26 giugno -, appena due mesi, luglio e agosto, tradizionalmente poco adatti per organizzare imprese impossibili. Con un ulteriore, doppio aggravio: risorse risibili e un sistema che già prima del virus era in stato di imperdonabile abbandono”.

La tesi di Verdelli, con cui è difficile non essere d’accordo, è che sulle problematiche del sistema d’istruzione, e nell’immediato su come far riemergere la nostra scuola da una condizione innaturale di lockdown protrattasi oltre l’immaginabile, nel nostro Paese sia andata in scena “una prova corale di negligenza collettiva”, che ha visto “declassare l’educazione a emergenza secondaria, anzi a ultima delle emergenze”.

In realtà, l’impatto della pandemia sull’organizzazione del sistema scolastico ha reso più evidente un deficit di attenzione che si trascina da tempo: la maggior parte dei problemi per i quali si fatica a trovare soluzioni non nascono certo oggi, ma sono il frutto di lunghe stagioni di miopia politica, col risultato di ritrovarci nei confronti internazionali come uno dei Paesi con percentuali di investimento in istruzione nettamente inferiori alla media.

A rendere possibile, nei giorni scorsi, l’intesa sulle “Linee Guida” fra Ministero dell’Istruzione e Regioni è stato anche lo stanziamento aggiuntivo di un miliardo di euro per la scuola, annunciato dal Governo, che tuttavia non appare certo sufficiente a coprire un fabbisogno che potrebbe rivelarsi di gran lunga più consistente. Definiti criteri e regole cui attenersi per garantire una ripresa delle attività in condizioni di sicurezza, si tratta ora di declinarne la concreta applicazione. Dovremo farlo mettendo a punto un protocollo condiviso fra sindacati e Amministrazione (confronto che si avvierà nei prossimi giorni), dovranno farlo, soprattutto, le istituzioni scolastiche, in primo luogo i loro dirigenti, e gli amministratori locali, auspicabilmente in un’ottica non soltanto di reciproca collaborazione, ma di forte coinvolgimento del territorio in tutte le sue espressioni.
Un compito non facile, per le troppe incertezze e incognite che ancora permangono, mentre il tempo a disposizione si fa ogni giorno più ristretto.

Difficile allora sentirsi davvero in vacanza, almeno nel senso in cui abitualmente la intendiamo, come salutare distacco da un lavoro che si è compiuto, per rigenerarsi e riprenderlo poi con più energia e rinnovato entusiasmo. È un luglio strano, perché ci lasciamo alle spalle una fatica anomala, e non sappiamo bene come sarà quella che ci attende. Nei mesi difficili che abbiamo vissuto da febbraio in poi non ci sono stati, tuttavia, solo i problemi enormi di una condizione imprevista e inedita: c’è stata anche la grande capacità di un intero corpo professionale di rimodulare, se non reinventare, il proprio lavoro. Si sono acquisite esperienze e competenze che possono rivelarsi anche in prospettiva risorse utili e preziose. Quelle su cui la nostra scuola, fra attese infinite e tante incertezze, è comunque sicura di poter far conto.

LA PIANTA DI COPERTINA

Disegno di Eva Kaiser
Testo di Flavia Milone

Malaxis paludosa

La Malaxis paludosa è una pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Orchidaceae. Descritta da Linneo come Ophrys paludosa, è stata successivamente attribuita da Olof Swartz, naturalista, botanico e tassonomista svedese, al genere Malaxia. Nel 1891 Otto Kuntze, botanico tedesco, ne propose l’attribuzione al genere monospecifico Hammarbya, in omaggio al villaggio svedese di Hammarby, residenza estiva di Linneo, ma tale attribuzione non è unanimemente accettata e la maggior parte degli autori continua a considerare valido il binomio Malaxis paludosa.

Cresce in ambiente artico-alpino, in Europa dalla Scandinavia alle Alpi. In Italia è nota una sola stazione in Alto Adige alla Torbiera di Anterselva (Antholz). Con il suo esclusivo habitat di crescita composto da muschi e sfagni è ovviamente rarissima e a forte rischio di estinzione in tutte le regioni temperate d'Europa: è iscritta nel Libro Rosso delle Piante d’Italia come gravemente minacciata.

La pianta, che fiorisce nei mesi di luglio e agosto ad una altitudine di poco più di mille metri, ha una radice rizomatosa e non supera quasi mai i 20 cm. di altezza. Presenta alla base poche foglie lanceolate e in alto fiori con sepali e petali di piccole dimensioni. Il termine malaxis deriva dal greco malakos (tenero, leggero) e potrebbe fare riferimento alla consistenza delle foglie.

IL CANTICO

C’è da cantare, c’è da laudare

di Paolo Venturino

Riuscire a filtrare il vissuto legato al Cantico francescano significa oltrepassare le letture attualizzate dell’ultimo cinquantennio: uscire dai nostri manicheismi moderno-antico, industrializzato-naturale, e persino musicalmente antico-moderno, o classico contemplativo-libero rockettaro.

La nascita del Cantico infatti, più di ogni prodotto di Francesco legato all’avvio dell’Ordine o a esigenze contingenti, è l’evento epocale che riaccende il mondo medioevale verso di noi.

Senza concessioni alla curiosità da scoop su quale melodia potesse aver ideato, osserviamo che Francesco ci ha lasciato un “canto”, una lauda, ma anche un grande monumento di teologia e preghiera. In volgare sì, ma dimostrando ben prima del “Ghibellin fuggiasco” che con il volgare si può scriver dottamente, e persino si compongono versi oranti e liturgici da cantare. Ci penserà Lutero a completare tale azzardo, continuato nella nostra lauda monodica e polifonica fino al suo tempo, ma quella è una storia successiva, e purtroppo costretta a scismi che Francesco ha evitato, offrendo un linguaggio nuovo senza contrapporre o eliminare.

L’immediatezza colpisce, del suo cantare, e direttamente, e con tale spontaneità e insieme autorevolezza. Come sempre nella sua vita, parla e canta, mette in scena, di-vulga, ma racconta di Dio e del cielo, della terra e di “quanto contiene”, come nell’Antico Testamento, celebra le gesta (chanson de geste...) di coloro che sanno star saldi nel mettere in pratica la vita vera, mette in guardia dal dissiparla nella morte dell’errore, mentre la morte fisica è una sorella che ci porta nella Luce. Siamo distanti dalle “chansons”, dai rondeau, dalle musiche di corte e di paese, dai “trionfi della morte”, o delle celebrazioni gaie o sofferte di primavere trobadoriche: qui si sta continuando la Bibbia, nella parlata dell’Italia centrale.

E c’è da cantare, da laudare. Lui lo fa, e invita tutti a fare altrettanto. “Fate questo in memoria di me”: il suo testamento vitale lo canta così, e lo lascia al mondo malato più di lui, che ormai sta spegnendosi semicieco, e deluso di un Ordine che ha fondato, ma sta andando per strade sue. Il sunto del suo messaggio finale è cantare, guardare al cielo e alla terra, e agli uomini che si salvino e lodino a loro volta.

Solo all’errore è dato uno spazio negativo: il suo cantare celebra l’universo in modo positivo. Pare non saperne di lebbra, alluvioni, carestie, guerre e prigionie, di cui ha provato orrori, morte e distruzione; di quell’Europa capitalista che sta nascendo florida e spietata, capace di lasciare da parte chi è debole, o chi perde una guerra, di sfruttare e schiavizzare. Il suo canto è un rimedio, atavico “flauto magico” che guarda a ciò che rinasce, e scaccia i topi del male col suo stesso canto, che è cielo che sta sulla terra.

Francesco dà il “la” al Nuovo Mondo. C’è solo la lode, il canto, dove non ci sono “le peccata mortali”. Tutto è dono ed è bellissimo, se visto nella finalità a cui tende. Per questo lui riesce a pensare di cantare così, nella situazione disastrosa in cui si trova. Ed è la sintesi del suo messaggio, e di ogni messaggio. Guardare al mondo costruttivamente, cantarlo come dimensione più vera e totale dell’esistere. È gioia e monizione, il Cantico, vitalità e insegnamento. Quanto vicino a molti cantautori recenti, usare la musica per dare messaggi corposi. E qui non ci sono discografici: Francesco ha cantato per cantare e far cantare la vita di tutti. Nessun protagonismo interessato, né gioco dotto di poetica. Il sunto della storia, e nulla più. “Ho vissuto, creduto e cantato: vi lascio quest’eredità”, dice attraverso quel componimento unico e alto.

“E come potevamo noi cantare..” si chiedeva e ammoniva Quasimodo alla fine delle nostre atrocità più recenti. Che abbiamo noi da cantare, davvero? La sfida di Francesco oggi è riuscire a rispondere al suo messaggio. Abbiamo qualcosa da cantare?

La motivazione ad elevare suoni, dai rauchi dinosauri fino alla voce divina della Bartoli, parte da dolore o da emozioni, da amore o da domande. Cantiamo il dramma, o la tenerezza, o la forza del vivere. La vita motiva il suono, che la arricchisce e completa.

Siamo pieni di suoni. Ne escono ovunque, dai nostri aggeggi elettronici, dal muoversi delle città, dal parlare troppo di tutto e spesso di niente, che fa più audience.

La solitudine di Francesco sui monti, la ricerca del Tutto nel niente del mondo, come il Cristo quando spariva e lo trovavano solo su un monte per ritrovarsi e ritrovare il Padre - che Francesco non chiama così, sicuramente per non compararsi al Cristo di cui ha voluto condividere tutto, ma non millantarne l’Altezza, e nemmeno il sacerdozio, rimanendo caparbiamente diacono.

Francesco resta umano, e Lui è l’Altissimu. Tu solus Sanctus, tu solus Dominus, tu solus Altissimus, Jesu Christe. Così sentiva cantare nelle chiese del suo tempo. Così per Francesco è l’Immensità: la canta e ne partecipa, e invita a parteciparne.

“Quante volte ho guardato il cielo?”…Renatone Zero cantava questo in quel 1978 sciagurato che ci ha portato via due papi e Aldo Moro. Cantava di un destino cieco, il suo, ma anche quello di quel mondo impazzito, che rimbalza ancora nei nostri disastri sociali. “Quanta violenza sotto questo cielo”, e “le ali bruciate dalla vanità”.

“Non è solo una macchia scura, il cielo”. Sui monti si andava per “vedere Dio”. “Sul monte Dio si fa vedere”, sapevano gli Antichi. Chi scende poi racconta Cosa ha visto. Francesco raccontava il Cielo che aveva visto, con le parole, o con i segni mimati alle suore che si aspettavano la vanità di una bella predica, o cantando. Ha terminato cantando. Perché “gli amori conquistano il cielo, perle d’oro nell’immensità, (…)” L’Amore “vincerà finché avrà abbastanza stelle, il cielo”.

Tunc imponent super altarem tuum vitulos” (salmo 50), allora avremo da cantare e da celebrare. Risentiremo l’Italia cantare il suo sorriso, quando rialzerà gli occhi a vedere le stelle di Abramo, quelle che ha visto Francesco cantandocele con il Cielo che le contiene. E tornerà a cantarle e a cantarsele, perché il sorriso e il Cantico sia di tutti davvero.

LE FONTI

di Mario Bertin

San Francesco e la musica

Il Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi, da un punto di vista letterario, può essere classificato come una composizione in “prosa assonanzata”, che alcuni storici nel passato erano soliti assimilare ai testi sapienziali della Bibbia, ma che più propriamente invece deve essere collegata alla poesia trobadorica, che Francesco doveva conoscere molto bene. Essa, nata in Francia e dedicata alle gesta cavalleresche e alla contesa d’amore, si era diffusa presto anche in Italia attraverso l’uso del volgare, nel quale era stato concepito anche il Cantico in vista di una sua divulgazione popolare. Il Cantico inoltre era sicuramente musicato, come esplicitamente dichiarato nelle Fonti e come appare dal Codice 338 di Assisi, in cui era lasciato lo spazio destinato per la trascrizione dello spartito. La sua diffusione era affidata a frati, i quali avrebbero dovuto cantarlo alla maniera dei “giullari”. Questi ultimi, per l’appunto, erano persone incaricate di cantare quello che i “trovatori” componevano. Questo avveniva in particolare quando la composizione era rivolta alla donna amata.
Il Cantico delle creature non rappresenta un caso isolato di ricorso al canto da parte di Francesco come mezzo di comunicazione religiosa. Le Fonti ci rivelano che egli ne facesse un uso abituale, assieme alla lingua francese (che egli aveva appreso dalla madre) soprattutto nei momenti di gioia
.

All'epoca in cui Francesco era presso Rieti, alloggiando per alcuni giorni in una camera di Tebaldo Saraceno per motivo del suo male d'occhi, disse una volta a uno dei compagni che nel mondo aveva imparato a suonare la cetra (*): «Fratello, i figli di questo secolo non sono sensibili alle cose divine. Usano gli strumenti musicali, come cetre, arpe a dieci corde e altri, per la vanità e il peccato, contro il volere di Dio, mentre nei tempi antichi gli uomini li utilizzavano per la lode di Dio e il sollievo dello spirito. Io vorrei che tu acquistassi di nascosto una cetra da qualche onesto uomo, e facessi per me una canzone devota. Ne approfitteremmo per accompagnare le parole e le lodi del Signore. Il mio corpo è afflitto da una grande infermità e sofferenza; così, per mezzo della cetra bramerei alleviare il dolore fisico, trasformandolo in letizia e consolazione dello spirito».
Francesco difatti aveva composto alcune laudi al Signore durante la sua malattia e le faceva talora cantare dai compagni a gloria di Dio e a conforto della sua anima, nonché allo scopo di edificare il prossimo.
Il fratello gli rispose: «Padre, mi vergogno di andare a chiedere una cetra, perché la gente di questa città sa che io nel secolo sonavo la cetra, e temo che mi sospettino ripreso dalla tentazione di suonare». Francesco concluse: «Bene, fratello, lasciamo andare».
La notte seguente il Santo stava sveglio. Ed ecco, sulla mezzanotte, fremere intorno alla casa dove giaceva il suono di una cetra: era il canto più bello e dilettoso che avesse odito in vita sua. L'ignoto musicista si scostava tanto lontano, quanto potesse farsi sentire, e poi si riavvicinava, sempre pizzicando lo strumento. Per una grande ora durò quella musica. Francesco, intuendo che quella era opera di Dio e non di un uomo, fu ricolmo di intensa gioia, e con il cuore esultante e traboccante di affetto lodò il Signore che lo aveva voluto deliziare con una consolazione così soave e grande.
Al mattino, alzandosi, disse al compagno: «Ti avevo pregato, fratello, e tu non mi hai esaudito. Ma il Signore che consola i suoi amici posti nella tribolazione, questa notte si è degnato di consolarmi». E narrò l'esperienza avuta. Stupirono i fratelli, comprendendo che si trattava di un grande miracolo, e conclusero che Dio stesso era intervenuto a portare gioia a Francesco.
In effetti, non solo a mezzanotte, ma anche al terzo rintocco della campana, per ordine del podestà, nessuno poteva circolare per la città. D'altronde, come Francesco riferì, la cetra sonante andava e tornava nel silenzio, senza parole di bocca umana, e ciò per una grande ora, a sollievo del suo spirito.

(*) Il delicato episodio, che oltre tutto contiene la notizia preziosa della composizione e dell'uso del Cantico di Frate Sole, non è recensito dallo Specchio, e sunteggiato invece da 2 Cel. 126. Questo frate suonatore di cetra potrebbe essere lo stesso frate Pacifico del paragrafo precedente, poiché è certa la sua presenza accanto al Santo negli ultimi suoi anni di vita, cioè dal 1223.

(Leggenda perugina, n. 24)

A volte si comportava così. Quando la dolcissima melodia dello spirito gli ferveva nel petto, si manifestava all’esterno con parole francesi, e la vena dell’ispirazione divina, che il suo orecchio percepiva furtivamente, traboccava in giubilo alla maniera giullaresca.
Talvolta – come ho visto con i miei occhi – raccoglieva un legno da terra, e mentre lo teneva sul braccio sinistro, con la destra prendeva un archetto tenuto curvo da un filo e ve lo passava sopra accompagnandosi con movimenti adatti, come fosse una viella (strumento a cinque corde proprio dei trovatori smile al violino), e cantava in francese le lodi del Signore.

(Tommaso da Celano, Vita Seconda di san Francesco d’Assisi, 127)

Mentre se ne andava per una selva, l’uomo di Dio Francesco, e cantava giubilante le lodi di Dio nella lingua di Francia, fu assalito dai briganti, sbucati all’improvviso. Costoro, con intenzioni omicide, gli domandarono chi era. Ma l’uomo di Dio, pieno di fiducia, rispose con espressione profetica: “Io sono l’araldo dl gran Re”. Quelli, allora, lo percossero e lo gettarono in un fosso pieno di neve, dicendo: “Sta lì, rozzo araldo di Dio”.
Mentre se ne andavano, Francesco saltò fuori dal fosso e, invaso dalla gioia, continuò a cantare con voce più alta le lodi in onore del Creatore di tutte le cose, facendone riecheggiare le selve.

(San Bonaventura da Bagnoregio, Leggenda Maggiore, 5)

E avvenne, quando alla sera i frati dell’eremo di Greccio cantavano le lodi del Signore, - ciò che a quei tempi i frati solevano fare in molti luoghi, - gli abitanti del paese, piccoli e grandi, uscivano dalle case, si riunivano sulla strada davanti al villaggio, e ad alta voce rispondevano, a mo’ di ritornello, al canto dei religiosi: “Lodato sia il Signore Dio!”. Perfino i bimbi, che non sapevano ancora ben parlare, al vedere i frati lodavano il Signore come potevano.

(Leggenda perugina, 34)

In quelle stesso periodo, mentre giaceva ammalato, avendo già composte e fatte cantare le Laudi, accadde che il vescovo di Assisi allora in carica, scomunicò il podestà della città. Costui, infuriato, a titolo di rappresaglia, fece annunziare duramente questo bando: che nessuno vendesse al vescovo o comprasse da lui alcunché o facesse dei contratti con lui. A tal punto erano arrivati ad odiarsi reciprocamente.
Francesco, malato com’era, fu preso da pietà per loro, soprattutto perché nessun ecclesiastico o secolare si interessava di ristabilire tra i due la pace e la concordia. E disse ai suoi compagni: “Grande vergogna è per noi, servi di Dio, che il vescovo e il podestà si odino talmente l’un l’altro, e nessuno si prenda pena di rimetterli in pace e concordia”. Compose allora questa strofa, da aggiungere alle Laudi:

Laudato si, mi Signore,
per quilli che perdonano per lo tuo amore
e sustengu enfirmitate e tribulazione.
Beati quigli kel sosteranno in pace,
ka da te, Altissimo, sirano coronati.

Poi chiamò uno dei compagni e gli disse: “Vai, e di’ al podestà da parte mia, che venga al vescovado lui insieme con i magnati della città e ad altri che potrà condurre con sé”. Quel frate si avviò, e il Santo disse agli altri due compagni: “Andate, e cantate il Cantico di frate Sole alla presenza del vescovo e del podestà e degli altri che sono lì presenti. Ho fiducia che il Signore renderà umili i loro cuori, e faranno pace e torneranno all’amicizia e all’affetto di prima”.
Quando tutti furono riuniti nello spazio interno del chiostro dell’episcopio, quei due frati si alzarono e uno disse: “Francesco ha composto durante la sua infermità le Laudi del Signore per le sue creature, a lode di Dio e a edificazione del prossimo. Vi prego che stiate a udirle con devozione”. Così cominciarono a cantarle. Il podestà si levò subito in piedi, e a mani giunte, come si fa alla lettura del Vangelo, pieno di viva devozione, anzi tutto in lacrime, stette ad ascoltare attentamente. Egli aveva infatti molta fede e venerazione per Francesco.
Finito il Cantico, il podestà disse davanti a tutti i convenuti: “Vi dico in verità, che non solo a messer vescovo, che devo considerare mio signore, ma sarei disposto a perdonare anche a chi mi avesse assassinato il fratello o il figlio”. Indi si gettò ai piedi del vescovo, dicendogli: “Per amore del Signore nostro Gesù Cristo e del suo servo Francesco, eccomi pronto a soddisfarvi in tutto, come a voi piacerà”.
Il vescovo lo prese fra le braccia, si alzò e gli rispose: “Per la carica che ricopro dovrei essere umile. Purtroppo ho un temperamento portato all’ira. Ti prego di perdonarmi”. E così i due si abbracciarono e baciarono con molta cordialità e affetto.

(Leggenda perugina, 44)

IL FILO DEI MESI

Luglio
Perché la montagna

di Gianni Gasparini

Il mese di luglio, insieme a quello di agosto, ci invita alla vacanza, all’incontro con la natura, al viaggio. Quest’anno il nostro rapporto con i luoghi di vacanza sarà in parte diverso e più limitato a motivo del Coronavirus, ma la montagna con i suoi ampi spazi permetterà ancora, con ogni probabilità, una fruizione autentica. Perché si va in montagna? Riproduco qui un brano che ne parla, tratto dal mio Un libro della natura – Poesia, ambiente, montagna, Mimesis, Sesto S. Giovanni Mi 2018, pp. 117-120).

Nell’ultima lettera inviata all’amico Mauro Corona nel 2008, Mario Rigoni Stern, figura irripetibile di uomo e di scrittore della natura, gli raccomanda “Va in montagna anca per mi” (G. Mendicino, Mario Rigoni Stern – Vita guerre libri, Priuli & Verlucca, Ivrea 2016, p. 323). Non gli dice, come ci si sarebbe potuto aspettare tra due autori, “Scrivi anche per me”, ma gli lascia in testamento il compito di continuare ad andare in montagna. Come mai?
Per chi ne ha fatto l’esperienza, la montagna mantiene una sua peculiarità che forse è vano spiegare esclusivamente in termini logici e razionali. Potremmo parlare del pendio, della fatica del salire e scendere usando piedi e gambe oltre che mani, dei rischi di cadere o di perdersi, dell’isolamento e sovente del silenzio, della scarsa accessibilità dei luoghi, della prevalenza degli elementi naturali su quelli culturali.
Ma c’è qualcosa che sfugge a tutto questo e che in rari momenti di grazia si rivela a chi salga un monte di primo mattino, scoprendo nuove prospettive e visioni di valli che troveranno compimento nel raggiungimento della vetta, per quanto modesta essa sia. È difficile dirlo, è rischioso scriverlo. Forse si può cercare di esprimerlo con due parole che si integrano reciprocamente: bellezza ed esplorazione. La bellezza è apertura, stupore, apprezzamento di ogni elemento incontrato; è ammirazione del gioco continuo che si esercita tra terra, pietra, acqua, luce, fiore, animale, albero. È percezione di una profondità in cui sono radicate le vite e gli esseri che s’incontrano nel cammino e che si lega alla dimensione poetica e a quella spirituale. L’esplorazione, da parte sua, è l’atteggiamento che fa percepire la novità di ogni momento allorché ci si muove in montagna.
A chi la percorre, la montagna appare come un microcosmo, una immagine condensata del mondo dalle origini ad oggi. A volte chi sale percepisce a tal punto il senso di novità da vagheggiare una rifondazione del mondo e da immaginare una nuova nominazione delle cose: quasi come un Adamo che cerchi la lingua perduta, l’esperanto che consente di comunicare con tutti gli esseri viventi e con quelli inanimati, dall’insetto alla stella.
L’esperienza dell’andare in montagna è sempre aperta, non completamente programmabile: il maltempo può subentrare, la nebbia può far perdere la strada, mentre gl’incontri con altri viandanti, con gli animali e i fiori non sono prevedibili in anticipo. Cambia la luce, l’incrocio tra l’ora del giorno e il luogo che si sta attraversando.
C’è anche un altro aspetto, vale a dire l’integrazione possibile tra un approccio scientifico alla montagna – geologia, botanica, scienze naturali e così via – e un approccio poetico. Quando salgo un monte nelle Alpi o negli Appennini penso che gli scienziati naturali ne conoscano oramai quasi tutto dal loro punto di vista e ne abbiano scritto adeguatamente. Eppure, io vedo uno stormo di corvi volare sopra di me e posso comunicare agli scienziati qualcosa che non figura nei loro libri, ad esempio il brivido del volo tra una cima e un’altra che la visione degli uccelli mi ha provocato. Oppure, ai leziosi classificatori odierni della flora alpina potrei dire che cosa significa trovare improvvisamente dopo una curva del sentiero un mazzo di cento scutellarie alpine con il loro color viola che ti viene incontro, o un cuscinetto giallo di vitaliana, un fiore raro d’alta quota che cercavi da anni e non avevi mai visto dal vero. È questa, in fondo, la convinzione che avevano alcuni botanici di un tempo, come Claude Favarger (1913-2006), eminente scienziato naturale svizzero. A proposito della flora alpina e della sua bellezza egli afferma la propria convinzione che arte e scienza “non sono agli antipodi dell’animo umano” e che l’identificazione di una specie con il suo nome scientifico si possa unire alla gioia di tessere tra noi e le cose un legame che ci rende più cara la creazione (Flore et végétation des Alpes, I, Delachaux & Niestlé, Neuchatel 1962, p. 11).
La montagna esprime e offre a chi ne faccia esperienza una energia particolare, anche se questo non sempre accade: le condizioni personali e ambientali – così come un eccessivo affollamento o la presenza di rumori meccanici – possono impedire infatti che scatti questa appagante sensazione di forza che è bellezza e tensione verso l’alto, analogamente a quanto avviene fisicamente nel fatto di ascendere. L’incontro con l’energia della montagna è in effetti un kairós: può verificarsi oppure no. Un luogo che mi ha trasmesso una freschezza primigenia e un valore di armonia o profondità può non comunicarmi più quando lo incontro di nuovo, in condizioni diverse mie o sue. Anche se si possono predisporre alcuni fattori che favoriscano il verificarsi del kairós, esso resta sempre un evento aperto all’alea. Come lo stupore che non può essere programmato, come la scoperta di qualcosa che fa spontaneamente esclamare al viandante “Che bello!”. Il monte non induce solo al parlare e allo scrivere, ma anche al meditare silenziosamente sulla sua consistenza: in essa convergono terra, luce, acqua e ricordo latente del fuoco.
Meditare sul monte richiede distacco, arretramento, presa di distanza. Un distacco per meglio vedere e sentire, per non farsi assorbire supinamente da un genius loci che attira intensamente attraverso la sua stessa forza, l’integrità e la wilderness che esprimono certe sue manifestazioni. Un distacco appassionato: tale da staccarsi mantenendo il legame, la memoria esatta e una profondità interiore che permetta di ridire la peculiarità della montagna e delle sue manifestazioni.

AFORISMI

di Leonarda Tola

Experto credite
La parola agli esperti

Ci sono giorni in cui diventa imprescindibile la parola dell’esperto a cui si deve ricorrere per avere cognizione delle cose sulla quale fondare la conoscenza dei fatti e la responsabilità di opinioni e delle decisioni conseguenti. Il contrario della irresponsabile faciloneria, con cui in allegri tempi recenti, che ormai appaiono lontani, di illusoria impunità, si è potuto inneggiare al dispregio della competenza, provata dagli studi e validata dall’esperienza. Ci voleva una pandemia per destituire di fondamento, si spera, la propaganda di un egualitarismo (uno vale uno) che spunta le ali a chi sa e vuol volare, con il pericolo di livellare a un rasoterra umiliante aspirazioni e talenti. La tradizione gnomica ammonisce: “Fidatevi di chi ha esperienza” (Experto credite) (Virgilio, Eneide II). Comprendendo nell’essere esperto il ‘provando e riprovando’ di ispirazione galileiana come metodo assegnato alla scienza nella costruzione del sapere.
Per lo più si crede a coloro che hanno esperienza” – “Plerumque enim creditur eis, qui experti sunt” (Cicerone, Topica 19) con cui si sottolinea la grande forza della scienza nel persuadere gli individui quando l’esperienza è applicazione delle conoscenze (Magna est enim vis ad persuadendum scientiae-aut usus). Determinante nella formazione di chi è nell’“età verde”, come il giovane Licenzio, la sollecitazione pedagogica di Sant’Agostino (Ep. 27): “Creda agli esperti a proposito di quello che vuole sperimentare temerariamente” (“Credat expertis quod experiri periculose desiderat”). Il principio di precauzione nell’affrontare le cose che non si conoscono sta nel consultare e affidarsi a chi ha fatto esperienza di ciò che si presenta nella fattispecie di un pericolo. Soltanto la perizia, che è il dominio meditato e ragionato delle cause delle cose, è in grado di conseguire gli effetti desiderati e utili di ogni esperimento. L’esperienza è la conoscenza nel suo nascere, il suo inizio da cui deriva ogni abilità che si si impara sbagliando (peccando discitur), si dimostra attraverso l’uso e si consolida con l’esercizio: “Exercitatio artem paravit”, (Tacito, Germania 24). Le brutte esperienze interiorizzate aiutano a prevenire gli errori, ad evitare le insidie, a temere ciò che porta a situazioni dolorose o indesiderate, come sono le guerre per chi le ha combattute o la cattura per chi è stato intrappolato: “Expertus metuit” (Orazio, Ep. 1).
Scoprire e conoscere il buono e il bello è il frutto ottimo dell’esperienza.

HOMBRE VERTICAL

di Emidio Pichelan

Ma vi sembra questa una stagione
per la superficialità, la banalità, la demagogia?

Nel caso di Saul di Tarso, un duro e puro come l’acciaio, tutto è chiarissimo: una caduta rovinosa, una luce abbagliante, una voce che non ammette repliche. Portentoso anche il caso di Agostino di Ippona: una voce di fanciullo/a di una casa vicina, una indicazione incalzante e melodiosa – tolle, lege, prendi (il libro) e leggi –, l’apertura su parole epifaniche e la conversione diventa un incrocio virtuoso tra chiamata e risposta.

Con un occhio alle statistiche e alla normalità, si appalesano altrettanto convincenti e più praticabili le conversioni ordinarie. Indotte da una qualche magia tutta terrestre, ma dotata di evidente, positiva forza impattante. Thomas Merton, nato in Francia da un padre pittore neozelandese e da una madre americana di religione quacchera, ha diciotto anni quando gli capita di perdersi inebriato tra le basiliche e i mosaici bizantini di Roma, caput mundi della cattolicità, e il monastero trappista delle Tre Fontane; cinque anni dopo, a ventitre anni, entra nella trappa Getsemani nel Kentucky (tra i suoi allievi Ernesto Cardenal, poeta e patriota e teologo nicaraguense). A Paul Claudel, giovane di belle promesse e di sicuro avvenire nelle arti e nella diplomazia, lo scossone per la conversione cola magicamente dalle note del Magnificat che rimbalzano dalle arcate di Notre Dame di Parigi.

La vita, come recita un noto programma televisivo, può essere in diretta, ma non è mai lineare. Come non lo è la storia, nonostante l’auspicio delle “magnifiche sorti e progressive” (leopardiane) così spesso evocate dalle parti della sinistra del secolo scorso. Se non sono lineari la vita e la storia, vuol dire che sono disseminate di fermate, svolte, pause, cambiamenti di direzione. Cambiamenti bruschi e significativi.

Insomma, la conversione è tanto normale e obbligatoria quanto il respiro per il vivere; non avviene in automatico: ci vuole capacità di ascolto, di riflessione. La conversione si dà in presenza della personale disponibilità a intus legere, a leggere dentro e fuori di sé. Saul poteva pur sempre rimanere Saul, Thomas Merton proseguire estasiato il suo tour delle meraviglie pittoriche del mondo (magari finendo di fronte alla maestosità unica di Angkor), Claudel uscire da Notre Dame e prendersi un caffè nel bar all’angolo (sempre che ci sia).

Papa Francesco la fa semplice e cristallina, come sempre, in modo da evitare ambiguità, divagazioni e fraintendimenti: “Cos’è la conversione? E’ chiedere al Signore la grazie di non sparlare, di non criticare, di non chiacchierare, di voler bene a tutti. È una grazia che il Signore ci dà. Questo è convertire il cuore”.

A prescindere dalla fede e dagli schieramenti politici, una domanda sale dal cuore degli uomini di buona volontà: cari governanti e fratelli cittadini, ma vi sembra questa una stagione per la superficialità, la banalità, la demagogia? Per non incorrere nell’unico errore da evitare con assoluta priorità in questa fase storica (sprecare l’occasione), si impone una salutare ecologia del linguaggio e delle parole.

NOTE MUSICALI

di Francesco Ottonello

Gabriel Fauré (1845 – 1924): Requiem

Il connubio fra la musica e il culto dei defunti risale a un tempo immemorabile: già la Grecia antica, attraverso le threnodie, canti corali austeri e gravi anche accompagnati da danza, celebrava in maniera solenne il culto del trapasso. Con l’avvento del cristianesimo, in specie nel mondo cattolico, la musica funebre ha trovato una delle sue forme più compiute con la Messa di Requiem nella quale, più che altrove, si è mantenuto ed enfatizzato quell’ancestrale carattere di solennità e drammaticità cui prima si faceva riferimento.
Le grandi Messe di Requiem della storia della musica (Mozart, Verdi, Brahms, solo per citarne alcune) per quanto lascino sovente aperta la via della speranza e del perdono, hanno nell’uso delle tinte austere e terribili il loro comune denominatore. Ciò non accade con Gabriel Fauré, che così parlava del suo Requiem: «Qualcuno l’ha chiamato una ninna-nanna della morte. Ma è così che sento la morte: come una lieta liberazione, un’aspirazione alla felicità dell’aldilà, piuttosto che un trapasso doloroso […]. Accompagno da una vita le esequie all’organo. Ne ho fin sopra i capelli. Ho voluto fare qualcosa di diverso».
Così è stato. Il Requiem di Fauré colpisce per la dolcezza con cui affronta il tema della morte: sbiadisce il dramma con la luminosità e la tenerezza; stempera il dolore con la serenità di una musica che richiama al gusto modale del canto gregoriano e a un lirismo sobrio e delicato. Il clima generale che Fauré desidera creare e trasmettere è dunque quello in cui le sensazioni della paura e del dolore sono assenti. Il salto nel buio non fa più paura.

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Come già accaduto per il brano del mese di aprile (Perduta ho la pace), che nell’esprimere uno struggente desiderio di contatto fisico ben si confaceva a un’immediata, inedita e generalizzata condizione esistenziale imposta dal lockdown, l’ascolto del Requiem di Gabriel Fauré, programmato mesi or sono, viene proposto solo due giorni dopo che un altro Requiem, quello di Gaetano Donizetti, è stato eseguito al cimitero di Bergamo, il 28 giugno, in memoria delle vittime di un’epidemia che ha funestato il mondo intero, colpendo con particolare violenza proprio quella porzione della nostra Italia. Vogliamo dare anche a questo ascolto lo stesso significato [NDR].

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