Così fallisce la scuola italiana

11.07.2019 14:39

Con un titolo molto forte viene proposto oggi, 11 luglio 2019, su La Stampa, un intervento di Andrea Gavosto, Direttore della Fondazione Agnelli, che commenta i dati Invalsi evidenziando quelli che considera i fattori determinanti di una situazione estremamente critica, suscettibile di ulteriore aggravamento in un possibile scenario di regionalizzazione del sistema scolastico.

Gli esiti delle prove Invalsi - da quest’anno estese al quinto anno delle superiori, quindi al termine del ciclo scolastico - ci parlano di un fallimento della scuola italiana. Può sembrare un’affermazione eccessiva, ma i dati giustificano un allarme estremo. Anche perché non nuovo e finora inascoltato.
Dopo 13 anni di studio fra primarie, medie e superiori, gli studenti del Sud hanno accumulato divari impressionanti in italiano, matematica e inglese rispetto ai loro coetanei del Nord e del Centro: soprattutto, più della metà non raggiunge il livello minimo definito dalle indicazioni nazionali per il curricolo, che hanno sostituito i programmi ministeriali. Le conseguenze sono drammatiche e largamente irreversibili: difficile sperare a 19 anni di recuperare il terreno perduto e costruirsi un bagaglio di saperi adeguato al lavoro e alla vita futura. Stiamo dunque rischiando di perdere una generazione, almeno in quelle regioni? Senza trascurare che i confronti internazionali dicono che anche al Nord le cose non vanno benissimo.
Il timore è serio. Non a caso, al ritardo dell’Italia nelle competenze scolastiche corrispondono almeno due decenni di crescita zero. Senza una formazione di qualità, non si può aspirare a essere protagonisti nell’economia mondiale. Lo stato del nostro sistema scolastico, a partire dalle medie, deve essere quindi oggetto di una riflessione collettiva e di interventi di emergenza. I test Invalsi, spesso criticati dagli insegnanti, mostrano oggi tutta la loro utilità per la scuola e per l’informazione dell’opinione pubblica.
Spiegare divari di apprendimento così importanti non è banale. Il nostro modello di istruzione resta fortemente accentrato, almeno sulla carta, con regole uguali per tutti in materia di selezione e formazione dei docenti, curricoli, valutazione, ecc. Eppure, le differenze territoriali sono forti e crescono man mano che si procede con il percorso di studio. Una responsabilità credo sia delle famiglie: mentre al Nord si è più consapevoli dell’importanza dell’investimento in formazione e si guarda con maggiore attenzione a che cosa i figli imparano davvero, al Sud ci si preoccupa ancora del mero conseguimento del titolo, prescindendo dalla qualità dell’insegnamento. Anche se talvolta avviene in modo troppo aggressivo, è fondamentale che le famiglie si occupino di che cosa capita dentro le aule.
E poi bisogna ripartire da insegnanti e dirigenti. Il nostro corpo docente ha perso motivazione, non è più aggiornato e non ha incentivi a farlo, fatica a farsi carico di ragazzi sempre più distanti dal suo modo di insegnare. Occorre cambiare i criteri di selezione, guardando soprattutto alla formazione didattica; attrarre giovani motivati; consentire ai dirigenti di promuovere i docenti migliori a incarichi di responsabilità; creare nelle scuole un clima professionale dove la collaborazione e il controllo fra i pari stimoli tutti a migliorarsi; estendere il tempo di presenza a scuola; dare incentivi di carriera. E trovare il modo di allontanare chi non è proprio in grado di insegnare.
Per uno sforzo così grande e urgente, può servire il passaggio dell’istruzione alle Regioni, richiesto da Lombardia, Veneto e, in modo più attenuato, Emilia-Romagna? Personalmente, ne dubito. Certo il sistema centralizzato non ha funzionato; ma, se le Regioni che hanno già i migliori risultati scolastici potranno beneficiare da risorse locali aggiuntive, vi è da chiedersi che cosa potrà succedere a quelle aree del Sud con ritardi così grandi. Il pericolo è che si avvitino definitivamente in una spirale negativa.

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