Attualità di Albert Camus a cent'anni dalla nascita

05.11.2013 11:15
Categoria: Agenda 2013/14

L'impegno politico, sindacale e umano di Albert Camus (1913 - 1960), di cui ricorre il 7 novembre il centenario della nascita, in un profilo tracciato per noi dallo scrittore Alessandro Bresolin, curatore di un'antologia di scritti di Camus ("Il calendario della Libertà") da cui è tratta anche la recensione del romanzo "Vino e pane" di Silone proposta sulle pagine del Corriere della Sera del 31 ottobre scorso.

Il 7 novembre ricorre il centenario dalla nascita di Albert Camus (1913-1960), un intellettuale che nel corso della sua vita pagò a caro prezzo la sincerità delle proprie prese di posizione politiche. E se negli ultimi vent'anni è frequente sentir dire che il pensiero di Albert Camus è attuale, non è stato così quand'era in vita e per molti anni dopo la sua morte. Ma sostenere che il suo messaggio è attuale può essere fuorviante se lo si vuol ridurre a un moralista solitario o a un critico delle derive del marxismo e dei regimi dell'est. Come sostiene la figlia Catherine, “Camus era tra quelli che interrogano e parlano direttamente all'uomo, all'individuo”, e per questo noi oggi continuiamo ad interrogarci sul senso del suo messaggio, che innanzitutto metteva in discussione la società e la civiltà in cui viveva, quella francese ed occidentale.

Tubercolotico a diciassette anni, a Camus capitò di vivere costantemente in stato di malattia e di conflitto: nato durante la Prima Guerra mondiale, visse la guerra di Spagna, sua seconda terra natale, a ventitrè anni; la Seconda Guerra mondiale, subito dopo, fino ai suoi trentadue anni; la guerra fredda e la minaccia nucleare a partire dall'immediato dopoguerra e la guerra d'Algeria dal 1954 alla sua morte. Il tema della violenza, rivoluzionaria o di Stato, attraversa quindi anche la sua opera narrativa, dal suo primo romanzo, Lo Straniero, che rappresenta una radicale denuncia del sistema giudiziario coloniale, passando per La Peste, in cui analizzò i comportamenti umani di fronte all'imporsi di un sistema totalitario, passando per opere teatrali come Caligola o I Giusti, dove trattò della violenza come strumento di lotta politica, fino allo straordinario romanzo postumo Il Primo Uomo (pubblicato nel 1994), dove cercò di narrare un'epopea familiare algerina in un paese ormai dilaniato dalla violenza. In quel tanto intenso quanto incompiuto racconto d'ispirazione autobiografica, il toccante tentativo di far capire ai francesi che “arabo” non vuol dire terrorista, così come “europeo” non vuol dire colonialista.

Come George Orwell, Camus avvertiva un'esigenza politica nello scrivere, la necessità cioé di prendere la voce in nome di chi non ce l'ha, di chi non può esprimerla. A testimonianza di questo, ci ha lasciato una produzione giornalistica e saggistica molto vasta. Non essendo un autore sistematico, il suo pensiero e il suo agire politico vanno rintracciati e ricostruiti a partire dai suoi saggi, dai suoi articoli, dai suoi appelli pubblici: vi si troverà in primo luogo un atteggiamento di costante diffidenza, dopo la sua fuoriuscita dal partito comunista, nei confronti della politica intesa come sistema partitocratico, fondato cioè sui partiti politici di massa.

Diverso fu il suo atteggiamento sull'attività sindacale e sul ruolo del sindacato, verso cui provava una vicinanza dovuta alla sua esperienza diretta di lavoratore. Come giornalista presso “Alger républicain” alla fine degli anni Trenta, e come correttore di bozze per “Paris-Soir” a Parigi durante l'occupazione tedesca, nel 1941, quando instaurò solidi rapporti con i militanti del sindacato dei tipografi. Rapporti che proseguiranno anche nel dopoguerra, facendo di quella sezione sindacale un baluardo d'ispirazione libertaria all'interno di una Confédération Générale du Travail (CGT) d'ispirazione marxista. Spesso, come nella più importante opera politico-filosofica, L'Uomo in rivolta, prese le difese del sindacalismo che vedeva figlio dell'esperienza concreta, di base, federalista e anti-centralista, rispetto a una politica vissuta come astratta, d'élite e centralista. Camus privilegiava il sindacato rispetto al partito, in un panorama politico e intellettuale in cui prevaleva il contrario.

Camus non era uno scrittore che viveva solo dei suoi libri e del suo personaggio. Praticamente fino alla morte mantenne il suo lavoro di lettore presso Gallimard, al di là della sua attività letteraria e teatrale, un lavoro che gli garantiva una certa indipendenza nella scrittura. Le sue umili origini spiegano in parte questa sensibilità e questa sua esigenza di appartenere al mondo del lavoro più che a quello della politica. Innumerevoli gli appelli firmati e le conferenze tenute da Camus su invito di organizzazioni sindacali, quali Force Ouvrière (FO), la Confédération Nationale du Travail (CNT), il Syndicat National des Instituteurs (SNI) e la Fédération de l'Éducation Nationale (FEN).

Difesa del sindacalismo come il più potente strumento democratico di trasformazione sociale, quindi contraltare di una politica autoreferenziale e lontana dalla società. “Non nascondo che la mia simpatia andrà a quei partiti che, tradizionalmente, difendono i lavoratori di ogni specie” disse in un'intervista del 1945. La necessità dell'impegno politico, che lo portò in più occasioni a essere pungolo critico del Partito socialista senza mai aderirvi, gli veniva dall'esigenza di rispondere alle rivendicazioni dei lavoratori e dei popoli. In Spagna come in Ungheria, in Francia come a Berlino Est. Una politica quindi che doveva fondarsi sull'etica e sul concetto di emancipazione individuale e collettiva, più che su ragioni ideologiche o economiche.

I temi di interesse costante nella sua vita, oltre alla politica in se stessa, furono l'Europa e il federalismo politico europeo, l'Algeria e il progetto di una decolonizzazione pacifica, il Mediterraneo, la sua cultura e i suoi destini. Argomenti distinti, ma legati tra loro e che certo sono ancora attuali. Camus era tra coloro che credono che la Storia non sia quella costruita dai libri, ma quella che si vive. La sua posizione di fronte ad essa infatti è quella di un testimone: siamo quello che viviamo, e di questo dobbiamo testimoniare. La storia della sua vita è quella di chi vede colare a picco il proprio mondo per l'incapacità di rigenerarsi, di riformarsi, di accettare in poche parole la realtà delle cose e trovare un equilibrio. Costruire, creare, rinascere, sono verbi che lo scrittore franco-algerino usava di frequente, contrapponendoli sia a conservare che a rivoluzionare.

In un mondo che diventa incomprensibile, in cui lo slogan si sostituisce al dialogo, in cui i conflitti si susseguono con intensità crescente, il suo messaggio ci dice che la possibilità di costruire una società vivibile per tutti esiste. A patto di osare il cambiamento, perché la società è in perenne trasformazione, e il mancato adeguamento delle istituzioni alla realtà causa malesseri sempre più profondi. Come sostenne in un articolo apparso in “Combat” nel maggio 1945 e ripreso in "Actuelles III – Cronache Algerine", "la storia è sempre in movimento e i popoli si evolvono insieme ad essa. Non esiste una situazione storica definitiva. Chi non vuole adattarsi al ritmo delle sue variazioni deve rassegnarsi a restare indietro. Per aver ignorato queste verità elementari, la politica francese in Algeria è sempre in ritardo di vent'anni sulla situazione reale”.

Quel ritardo fece della sua causa per un'Algeria libera e democratica, costruita all'interno di un processo civile di decolonizzazione, una causa persa. Ma spesso proprio le cause perse e la non risoluzione dei quesiti che ponevano sono alla radice dei problemi di chi viene dopo. Nell'ultimo capitolo de La Gioventù assurda - problemi dei giovani nel sistema organizzato, intitolato “La comunità che non abbiamo”, Paul Goodman riprende una tesi dello storico-sociologo-antropologo americano Benjamin Nelson, teorico dello studio comparativo delle civiltà, secondo il quale l'utilità e il senso della storia è quello di riscattare dall'oblio le cause perse del passato. Una causa persa molto spesso riflette l'esigenza mancata, e quindi frustrata, di un cambiamento, di una trasformazione sociale. Partendo da questa premessa, indagare le cause perse della storia a cosa e a chi serve? Ai giovani, si risponde Goodman: “Sono del parere che, quando mutamenti sociali fondamentali non avvengono al momento giusto, le generazioni successive sono imbarazzate e disorientate dalla loro mancanza […] Il cumulo delle rivoluzioni mancate o compromesse dei tempi moderni, con le ambiguità e gli squilibri sociali conseguenti, ricade soprattutto sulla gioventù, rendendole difficile crescere”.

In questo senso va interpretato il “donchisciottismo” di Camus, la sua fedeltà a determinate cause, cioé la sua scelta di non mentire a costo di subire l'emarginazione, a costo di diventare inattuali. Nel novembre 1955, per celebrare il Don Chisciotte di Cervantes a 350 anni dalla pubblicazione, Camus preparò un articolo dal titolo «La Spagna e il donchisciottismo» in difesa della causa repubblicana e contro il regime di Franco. Se Don Chisciotte nella sua lucida follia parte alla ricerca di un'armonia originaria, perduta, rappresentata da quei valori cavallereschi che decide di incarnare in un'epoca in cui erano ormai decaduti, i repubblicani spagnoli con il passare del tempo somigliavano a tanti Don Chisciotte, impegnati in una causa ormai dimenticata e relegata ai margini della Storia. Ma sono proprio le cause perse della sua generazione, dalla Spagna all'Europa alla politica mediterranea, a spiegarci l'origine dei nostri mali attuali. E questo rileggere Camus oggi può aiutare i giovani ad avere uno sguardo più lucido e anticonformista sul mondo e sui problemi attuali. Il che è alla base di una qualsiasi soluzione.

Le parole chiave del pensiero di Camus potrebbero essere: Algeria, anarchia, appartenenza, colonialismo, decolonizzazione, Europa, federalismo, guerra, nazionalismo, pace, socialismo, violenza, convivenza, giustizia e libertà. Ma anche comunità, quella che non abbiamo. Le sfumature del suo pensiero anti-dogmatico, universalista e cosmopolita, al di là delle ideologie, non si confanno a chi è abituato a dividere il mondo in bianco e nero, in noi e loro, comunisti e fascisti, occidente e oriente, terre di cristianesimo e terre d'islam. Il suo pensiero si leva contro i manichei di ogni sorta, proteso non a giustificare un'ideologia o una guerra, ma a cercare di capire come evitare la guerra, come lenire, se non guarire, le malattie, e a come essere felici in un mondo assurdo.

Alessandro Bresolin

 

Alessandro Bresolin è nato nel 1970 a Castelfranco Veneto. Dopo l’esordio come saggista – ha curato per Elèuthera un saggio di Camus e per Edizioni Spartaco una raccolta di saggi di Silone – si è dedicato all’attività di traduttore dal francese. Ha tradotto, tra gli altri, Ambizione nel deserto di Albert Cossery e Ammazza un bastardo! di Colonel Durruti. È approdato al romanzo con “Cirrosi apatica” (2008, Ed. Zona). Ha collaborato come freelance con Rai Radio3, Il Manifesto e Carmillaonline e Lo straniero. A gennaio 2013 è stato pubblicato per Edizioni Spartaco il suo secondo romanzo, "Gesti Convulsi".

 

 

 

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Segnaliamo, sulla figura di Camus, due testi apparsi sul Corriere della Sera del 31 ottobre 2013: una recensione del romanzo “Vino e pane” di Ignazio Silone, che Albert Camus scrisse in occasione dell’edizione francese curata da Grasset, e un profilo di Camus tracciato da Antonio Debenedetti, che lo accosta a un altro grande della letteratura, Italo Calvino.