Il vero capitale su cui investire

24.07.2020 10:09

I dati rilavti dall'ISTAT in questi giorni sui livelli di istruzione segnala un impoverimento culturale del nostro Paese che frena la crecita economica e acrresce il rischio di sottosviluppo. Per Francesco Riccardi (Avvenire, 24 luglio 2020) "un’inversione di tendenza in questo quadro è quindi non solo necessaria ma indifferibile. E trova oggi un’occasione irripetibile di stimolo e finanziamento concreto nel piano di Recovery Fund messo a punto dall’Unione Europea".

Penultimi per numero di laureati in Europa, quart’ultimi quanto a percentuale di diplomati, appena il 62%, 15 punti al di sotto della media europea. E poi ancora i poco invidiabili primati: il numero dei Neet, cioè i giovani che non lavorano e non studiano, arrivati a 2 milioni, il 22%, assieme al record di abbandoni precoci della scuola. Sono i cosiddetti Elet (Early leavers from education and training), 561mila ragazzi, il 13% del totale. Giovani che non concludono gli studi e che, perciò, hanno ancora più difficoltà a trovare poi un’occupazione, finendo per ingrossare il girone dei Neet e degli inattivi.

La fotografia dei livelli d’istruzione che l’Istat ha consegnato ieri segnala ancora una volta come il nostro Paese soffra non solo di una povertà materiale, ma di un più profondo impoverimento culturale e sociale, che è a sua volta una delle cause della scarsa crescita economica e dell’innescarsi della spirale negativa del sottosviluppo. L’Italia, già culla del sapere e delle scienze nel Continente, non riesce più da tempo a tenere il passo degli altri Paesi e vede il suo capitale umano svalutarsi progressivamente. Anche perché, quando pure si forma, s’accumula e cresce – come avviene per la porzione di giovani più istruita – preferisce poi prendere la via dell’estero per trovare un lavoro soddisfacente sul piano economico e della realizzazione personale. Le registrazioni ufficiali parlano di oltre 1 milione di italiani emigrati solo nell’ultimo lustro, ma è una stima largamente per difetto. E se pensiamo che per ogni laureato lo Stato ha impegnato risorse pubbliche per circa 100mila euro (80mila un diplomato), si ha un’idea del grave peso di questo investimento oggi purtroppo a perdere.

È un impoverimento progressivo, il nostro, che viene da lontano. La strategia Europa2020, elaborata oltre 10 anni fa, aveva tra i suoi obiettivi l’innalzamento della quota di 30-34enni in possesso di un titolo di studio terziario, considerato un obiettivo fondamentale per quella “società della conoscenza” verso cui eravamo avviati e in parte già siamo. Eppure nel 2019 – già prima quindi dello sconquasso del coronavirus – la quota di giovani italiani laureati o con istruzione terziaria (27,6%) non è risultata in crescita, anzi è leggermente diminuita: -0,2 punti rispetto al 2018. E questo mentre i nostri partner-concorrenti Francia, Spagna e Regno Unito non solo hanno già ampiamente superato la quota obiettivo del 40% di laureati ma hanno proseguito nella crescita. Sfruttando tra l’altro le opportunità offerte dai corsi post-diploma e da lauree brevi che effettivamente offrono sbocchi lavorativi. Da noi, al contrario, gli Istituti tecnici superiori, per quanto di qualità, sono ancora poco diffusi e per molti corsi di laurea la divisione nel 3+2 si è rivelata poco funzionale.

Un’inversione di tendenza in questo quadro è quindi non solo necessaria ma indifferibile. E trova oggi un’occasione irripetibile di stimolo e finanziamento concreto nel piano di Recovery Fund messo a punto dall’Unione Europea, non a caso chiamato Next generation Ue (prossima generazione europea). Ecco allora la priorità d’investimento che il governo è chiamato a mettere nero su bianco nel progetto da presentare a Bruxelles e sul quale ricostruire anche parte della nostra credibilità perduta. Non riduzione d’imposte o sussidi a pioggia, ma un reale investimento sul capitale umano, fatto di miglioramento del sistema di istruzione, più borse di studio, formazione continua per tutti, incremento dei percorsi professionalizzanti, master post-diploma, un migliore collegamento scuola-lavoro, politiche attive efficaci e non solo stage a perdere. Un progetto complessivo per il Paese che non riguarda solo l’attuale esecutivo e il Parlamento, ma dovrà avere come protagonisti, oltre ai sindacati e al Terzo settore, soprattutto gli imprenditori. Se infatti non saranno le imprese le prime a credere nei giovani, a valorizzarne i talenti, superando le tentazioni della sotto-retribuzione e dello sfruttamento del precariato, non ci sarà alcun futuro. Non per i giovani, certo. Ma neppure per le aziende e in definitiva per tutti noi.

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