«Siamo più fragili, serve più umanità»

30.04.2020 12:45

"La metafora del tunnel non funziona. Dà per scontata l’idea che siamo in una parentesi. Che all’uscita del tunnel troveremo lo stesso mondo, seppure impoverito. Dobbiamo invece scommettere in un cambiamento di paradigma. Dobbiamo assumere la fragilità come condizione di opportunità e come condizione permanente". Marco Roncalli intervista il filosofo Mauro Ceruti su Avvenire del 28 aprile 2020.

Mauro Ceruti risponde al telefono da Bergamo. Due anni fa nel libro Il tempo della Complessità (Cortina), per certi versi, aveva delineato lo scenario di questa crisi, riflettendo sulla possibilità di fatti inattesi in grado di ribaltare situazioni su scala planetaria. La voce è triste: «Mi mancano persone che in questi giorni se ne sono andate. E tuttavia, in questo tempo pasquale, la loro assenza si fa, strappando le parole al poeta, più acuta presenza…».

Professore dicevano che gli algoritmi prevedono tutto. Per Nassim Nicholas Taleb quanto accaduto era prevedibile...
Il problema è un altro: è prevedibile che accada l’imprevedibile. Ma ciò non lo rende comunque prevedibile. Per questo bisogna sviluppare la capacità di affrontare l’intreccio di concause, l’incerto, l’aleatorio, l’imprevisto. Soprattutto nel caso dei virus… La pandemia ci pone di fronte ai rischi della condizione globale. Il virus rivela che viviamo in un mondo in cui tutto è connesso. I fili della globalizzazione biologica, antropologica, economica, politica sono aggrovigliati e inestricabili.

Bernard–Henri Levy dice che bisogna liberarsi dall’idea di causa–effetto tra globalizzazione ed epidemia: lei?
Ma ciò, in partenza, significa ammettere che tutto è connesso. Che non bastano risposte tecniche a singoli problemi. Il morbo del nostro tempo è la semplificazione. Siamo figli dell’abitudine moderna a pensare che le cose abbiano una spiegazione semplice. E questa si accompagna alla droga della quantificazione. Dietro i calcoli, le simulazioni, i diagrammi, non si vedono le sofferenze umane. Ma, detto con Foucault, le sofferenze umane mai devono essere lo scarto muto della politica.

Siamo solo all’inizio dei guai, o c’è luce in fondo al tunnel? La storia è costellata di crisi, pandemie, catastrofi...
La metafora del tunnel non funziona. Dà per scontata l’idea che siamo in una parentesi. Che all’uscita del tunnel troveremo lo stesso mondo, seppure impoverito. Dobbiamo invece scommettere in un cambiamento di paradigma. Dobbiamo assumere la fragilità come condizione di opportunità e come condizione permanente. È dalla cura della fragilità, non dalla forza della guerra al nemico, che si genera la creatività umana.

La fragilità è ora. Conviviamo con la paura del contagio. Martini diceva che non aveva paura della morte, ma dell’atto di morire senza nessuno a tenergli la mano….
Il dramma della solitudine del morire, in questi giorni, ci spinge a voler ritrovare questo grande rimosso della nostra civiltà: proprio il morire. Che abbiamo sempre più confinato e sterilizzato fuori dalla nostra cura, fuori dalla necessità di tenere e farci tenere la mano. Il bisogno di riappropriazione della morte può essere una via per riappropriarsi della vita…

Viviamo questo tempo trascinati da quanto passa sui nostri schermi, la tv, la rete sembrano le grandi soccorritrici…
C’è un paradosso nella nostra società: più si comunica e meno si comunica, più piovono informazioni e meno siamo informati, più siamo interdipendenti e meno siamo solidali. Il morbo della semplificazione è andato di pari passo con la frammentazione dei saperi e delle discipline, che ha isolato gli “esperti” nelle rispettive “specialità”.

Quali le priorità appena si riapriranno le porte di casa?
È necessario riformare i sistemi di educazione e di istruzione. C’è ancora poca interdisciplinarità e molta burocratizzazione, tecnicizzazione nelle scuole e nelle università! Usiamo la Rete, ma non mettiamo in rete fra loro i saperi, i problemi, le crisi.

È da ripensare anche la medicina?
Può darsi che questa pandemia abbia costretto a far comunicare di più tra loro medici infettivologi, microbiologi, virologi. Per affrontare le prossime epidemie dovrà emergere una scienza e una figura di scienziato polidisciplinare. Certo, anche la medicina deve essere ripensata. Aumenta l’imprevedibilità di nuovi fattori patogeni esterni e, dal momento in cui compare e minaccia la salute, si può allungare il tempo tra la conoscenza e la cura della malattia provocata dal nuovo fattore patogeno.

Quale ruolo avrà l’Europa? Chiediamo unità, ma in Italia i partiti accantoneranno le logiche di consenso immediato?
La ricerca del consenso immediato? Ma è la fine della politica! Quanto all’ Europa la crisi sanitaria ne ha aggravato la crisi. Di fronte al pericolo comune, lo spirito di solidarietà è mancato. Si sono rinvigoriti gli egoismi nazionali. Certe parole della politica sono proprio inconsistenti e pericolose: ad esempio prima noi, solo noi… Ma l’Europa o si unirà o soccomberà.

C’è chi dice che le frontiere aperte saranno viste come pericoli, chi pensa saremo più umani, chi si ricomincerà come prima. Cosa potremmo avere imparato?
Che è necessaria un’altra globalizzazione, più umanizzata, più solidale, non dominata dalla potenza anarchica di profitto e tecnoscienza. Sembra un’utopia: ma, alla prova dal Coronavirus, è diventata più concreta, non differibile. Per affrontare crisi globali, c’è bisogno di mettere insieme risorse e conoscenze al di là delle frontiere nazionali. Il virus ignora i confini territoriali. Lo devono fare anche gli Stati.

Tutti dentro una condizione inedita?
Tutti legati dagli stessi problemi di vita e di morte, dallo stesso destino. La fraternità non è più solo un’aspirazione etica. È necessità inscritta nella nuova condizione umana. Come ha detto Papa Francesco: tutti sulla stessa barca e nessuno che può salvarsi da solo.

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