La memoria infinita ci bracca sui social

01.12.2019 12:56

Erika De Nardo, condannata per aver ucciso nel 2001 la madre e il fratellino, ha diritto al matrimonio? Ha diritto a ricostruire la propria esistenza, dopo averne distrutto così tragicamente altre due e per di più nella cerchia degli affetti che avrebbero dovuto esserle i più intimi e cari? La questione dà spunto alla riflessione di Massimiliano Panarari su La Stampa di domenica 1° dicembre 2019, che la inquadra nei termini propri della civiltà giuridica da Beccaria in poi. Un'analisi preoccupata e preoccupante su atteggiamenti che segnalano una pericolosa deriva verso forme di "nichilismo digitale".

E piovvero pietre. Dopo le rivelazioni di don Antonio Mazzi sul matrimonio di Erika De Nardo, i social media si sono prontamente riempiti di insulti e di un moto di ribollente «indignazione». E hanno così riconfermato la loro discutibile vocazione di combinato disposto di tribuna e «tribunale del popolo».

Poco meno di vent’anni fa, la ragazza massacrò a coltellate, con la complicità del fidanzato, la madre e il fratellino. Un evento raccapricciante, che trasformò in un teatro dell’orrore la casa familiare di Novi Ligure in quel maledettissimo 21 febbraio del 2001. Un abominio– lo diciamo a scanso di equivoci – di cui abbiamo sentito e letto in tanti rimanendone spettatori attoniti. Che è precisamente la condizione che ci accomuna tutti di fronte a quella tragedia, compresi coloro che in queste ore si ergono invece a soloni e quelli che si comportano da leoni da tastiera infiammando la canea internettiana. Tutti quanti nulla più che osservatori, ai quali meglio risulterebbero confacenti il silenzio e il riserbo. Una considerazione che andrebbe applicata a ogni fattispecie complessa della vita associata, evitando che il «pensiero» corra alla velocità di un clic e si riduca a qualche riga schiumante rabbia od odio e consegnata a un post o un tweet. Altri sono i protagonisti, e dunque i soggetti titolati a esprimere un giudizio informato e consapevole a proposito di questa come di altre vicende. Sono i magistrati, che hanno pronunciato la sentenza, e gli apparati sociali e giudiziari, che hanno supervisionato il comportamento della ragazza successivamente all’omicidio. Sono don Mazzi, che l’aveva presa in carico per il percorso di riabilitazione e il padre, evocato nelle parole del fondatore della comunità Exodus come figura centrale nell’iter di recupero e ravvedimento.

Quella che è stata una giovane matricida è degna di poter ricominciare un’esistenza? O deve rimanere identificata per sempre con quel gesto disumano? Non spetta appunto a noi stabilirlo, ma alle figure tecniche e specialistiche a cui la società e le istituzioni – prima di venire messe costantemente sotto attacco dall’isterismo dell’«uno vale uno» – hanno attribuito nel corso del tempo questo compito delicato.

La civiltà giuridica dell’Occidente ha archiviato da qualche secolo la legge del taglione, e lo Stato di diritto contempla la funzione rieducativa della pena insieme alla possibilità del recupero del colpevole. Malauguratamente, invece, un certo spirito dei tempi sembra avere riesumato il «codice di Hammurabi», e lo sta veicolando proprio via Internet. Il premoderno e il postmoderno si trovano, dunque, ancora una volta a braccetto, alleati in questo caso contro Cesare Beccaria e la riscrittura illuministica dei meccanismi di valutazione e riparazione «dei delitti e delle pene». Nello scomposto assedio al principio di competenza e nell’esaltazione narcisistica del soggettivismo oggi ci risvegliamo così anche tutti giudici e inquirenti, essendo già stati, a seconda delle volte, ingegneri strutturisti (come in occasione del crollo del ponte Morandi), costituzionalisti, epidemiologi, allenatori della Nazionale di qualsivoglia sport, editorialisti (e chi più ne ha più ne metta) in servizio permanente effettivo. È l’opinionismo integrale – e integralista – come malattia non infantile, ma gravissima del totalitarismo social (e del suo modello di comunicazione istantanea).

Il web non riconosce il diritto all’oblio, e non tollera il dovere del silenzio. Ma facendo in questo modo finiamo tutti condannati a una deriva inarrestabile verso quello che Geert Lovink ha chiamato il «nichilismo digitale». Un ecosistema mediale dove la vendetta celebra la sua rancorosa vittoria ai danni della giustizia, e rischia di mettere sotto scacco la stessa convivenza civile. Come, infatti, già accade abbondantemente nello sfogatoio social.

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