Guardiamo il mare, in silenzio

14.08.2019 14:37

Un editoriale quanto mai denso di conoscenza profonda e di profondo amore per la città di Genova scritto da un suo figlio illustre, l'architetto e senatore a vita Renzo Piano, cui è affidata per un giorno, nella ricorrenza del primo anniversario del crollo di ponte Morandi, la direzione de Il Secolo XIX (edizione del 14 agosto 2019).

Oggi possiamo solo rimanere in silenzio a guardare il mare, cari genovesi. E questa è una cosa che a noi riesce piuttosto bene.
Perché guardare il mare è la nostra grande consolazione: lo è per un pensiero irrisolto, un dolore ancora da sopire, un lutto che ci tormenta.
E vorrei cominciare dalla foto sulla prima pagina del Secolo XIX dedicato al ponte Morandi: è una delle diecimila fotografie del mio storico collaboratore giapponese, Shunji Ishida. Lui, ogni giorno da trent’anni, fa lo stesso scatto: il mare è sempre quello di Genova, l’inquadratura la stessa, ma il risultato è ogni volta diverso da quello del giorno prima.
In questa fotografia c’è tutto quello che voglio dirvi.
E visto che i bambini la sanno lunga, mi sono fatto aiutare da loro.
Ho fatto una prova: ho chiesto ai tre figli di un mio amico di scegliere, tra le tante foto di Shunji, quella che a loro piacesse di più.
Tutti e tre mi hanno indicato la stessa immagine, questa che vedete in prima pagina. E perché, ho chiesto loro, proprio questa? C’è l’orizzonte, mi risponde il primo bambino, dodici anni. C’è la nave che va, mi dice suo fratello, dieci anni. C’è la luce, si affretta ad aggiungere la sorellina, sette anni.
E sono proprio queste le tre cose che vorrei condividere con voi in questa giornata di memoria, a cui dobbiamo riuscire a dare un sapore di riscatto, e non di resa, perché l’arrendersi non ci appartiene.

L’Orizzonte
Genova guarda lontano, verso la linea indecifrabile che separa mare e cielo.
Sì, lo ha sempre fatto e, con lei, i genovesi.
Quell’orizzonte suggerisce mondi sconosciuti da esplorare, con la sua linea immobile ci proietta verso l’immenso, ci promette l’infinito.
Fernand Braudel, lo storico che tanto ha studiato e amato la nostra città, ne “I Tempi della Storia” scrive di Genova come di una città potente, ma dal corpo fragile.
Sottile sottile, stretta tra un mare subito troppo profondo e monti immediatamente troppo alti.
La sua forza è altrove, e così è sempre stato. Selvatica per necessità, un po’ taciturna forse. Ma di questi tempi abbassare la voce e alzare lo sguardo verso l’orizzonte è un grande insegnamento. Genova non chiede, per questo non si è mai data.
Conosce la dignità, La Superba.

La Nave che va
E poi a Genova ci sono le navi che vanno, come dice il secondo bambino. È un mare abitato, il nostro, mai vuoto. Un mare operoso, popolato da ogni sorta di bastimento.
Questo nostro Mediterraneo che è un registratore di culture, immagini, profumi, suoni e voci.
Genova gode di un privilegio geografico, basta osservare la cartina: è una città di mare nel mezzo dell’Europa, dove il Mediterraneo si fa largo nel continente.
Per questo la città è da secoli, necessariamente, multietnica: luogo di scambio di merci e di uomini, che andavano e venivano, che vanno e vengono. “C’è di tutto come a Genova”, si dice.
Cosmopolita per vocazione, ha fatto del meticciato la propria forza.
Nelle sue pinacoteche trovi ritratti di famiglia in cui sono rappresentati tutti i colori della pelle.
E poi il porto, luogo di magia, da sempre il vero grande motore di questa città, una città nella città. Il porto è nel codice genetico di Genova, così come lo è il navigare.
I bastimenti si spostano in continuazione, in porto tutto vola o galleggia, ma comunque non tocca terra. Tutto si riflette nell’acqua, così che si può godere dello spettacolo due volte: una volta dal vero, e un’altra volta per immagine riflessa. L’acqua riflette e moltiplica le visioni, se poi lo specchio è immobile come il bacino portuale, l’immagine è nitida.
Questi giochi di luce rendono belle le cose, donano loro poesia. Ed è curioso come questo avvenga anche qui, in uno specchio d’acqua così indaffarato, in questa fabbrica dove ci si sporca le mani, dove ogni giorno va in scena il mugugno operoso dei genovesi.
Si, perché tutti sanno che da noi esistevano due tipi di ingaggio, con o senza il diritto di mugugno: quello con diritto a discutere era pagato meno, ma era anche il più diffuso.
È questo turbinio di sensazioni, che ci portiamo dietro tutta la vita, a formare la nostra identità. È questo l’archivio immaginario di ognuno di noi.

La luce
La luce, mi dice la bambina. Sì, sono tempi bui, ma si va verso la luce che è una delle bellezze più profonde e vere di questa città. Il sole noi lo abbiamo a sud, si alza a Levante e si posa a Ponente, così non smette mai di rimbalzarci la luce riflessa dall’acqua. Per questo le foto di Shunji non sono mai uguali una all’altra, perché il mare che vogliono catturare cambia con la luce.
Qui stiamo parlando di bellezza, anche se da noi, per pudore, non se ne parla mai. Genova è bella, da dentro e da fuori, così stretta ed intensa, una nobile casbah.
Non ho mai capito se siano i genovesi, scontrosi e taciturni, ad aver costruito Genova così com’è, oppure se sia stata Genova, così compressa tra i monti e il mare, a forgiare il carattere prudente e silenzioso dei genovesi.
Forse questa bellezza non potrà salvare il mondo, come credeva il principe di Dostoevskij, ma è capace di nutrire i nostri pensieri, di consolarci e darci forza.
Ed è la luce il futuro della città. E il futuro è il solo posto dove sia possibile andare.

Il futuro
È passato un anno da quel terribile e piovoso 14 agosto, dal crollo del ponte sul Polcevera, che ha portato via con sé 43 vite e ha costretto centinaia di famiglie ad abbandonare le proprie case, segnandole per sempre. La città è rimasta sgomenta, perché i ponti non possono crollare.
I lutti non si dimenticano, si portano dietro tutta la vita. Ma noi dobbiamo guardare al futuro. Noi, con i nostri mugugni, dobbiamo lavorare per andare avanti.
È una città moderna, la nostra, la cui modernità sta nella sua antica saggezza. In un mondo divorato dall’eccesso, Genova ha saputo restare se stessa. Città prudente, non avara. Non credo nella decrescita felice, ma non credo nemmeno nella crescita smodata e tumultuosa.
Credo nella sobrietà, nel non cedere alle trappole del consumismo. È moderna l’idea della sua inevitabile parsimonia, del saper fare un uso attento delle risorse. È un vanto che qui non si sprechi nulla. È moderna perché è un porto di mare aperto al mondo, il suo destino è disegnato sull’acqua.
Se riusciamo a ripopolare Genova, avremo tutto quello che serve per il nostro viaggio nel futuro: l’energia dei giovani, la sapienza dei vecchi. “Si jeunesse savait, si vieillesse pouvait”, si diceva nel Cinquecento. Presto avremo il nuovo ponte, lo stiamo costruendo con un grande lavoro corale al quale sono orgoglioso di partecipare. Perché lavorare in cantiere significa lavorare insieme, e costruire diventa un gesto di pace e convivenza. E questo ponte non rappresenterà solo la città intera, ma anche e soprattutto il quartiere che ci sta sotto, quello più ferito dalla tragedia.
Per qualcuno è una periferia, anche se in realtà è proprio al centro della città. Personalmente amo molto quel quartiere, perché c’è nato mio padre. Il nuovo ponte dovrà durare mille anni. Sarà come una grande carena bianca di nave che attraversa la vallata del Polcevera. Sarà semplice, robusto e parsimonioso. Sarà un ponte genovese. Lo sappiamo fare perché a Genova costruiamo navi da sempre. E chi sa costruire le navi, sa fare di tutto.
Sa tagliare, saldare, fondere, imbullonare, tornire. E poi sa mettere assieme le cose più complicate. Fa macchine sofisticate, attrezzature mediche, robots, impianti solari, proprio tutto.
Sfido chiunque a dirmi una cosa, una sola cosa, che non si possa fare, o non sia già stata fatta, nella nostra Genova.

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