Un «governo utile», immaginabile, forse (im)possibile

11.03.2018 20:03

Risponde alle domande di alcuni lettori il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, provando a delineare alcuni scenari di possibile tregua per "ricucire, almeno un po’, la frattura tra le parti politiche e geografiche" riscontrabile all'indomani del voto. Servirebbe, dice Tarquinio, "un disarmo bilanciato e contemporaneo", perchè "anche una piccola pace offre grande spazio a chi ha idee e progetti necessari e realistici, non solo slogan a effetto e cinici calcoli".

Tre leader fieramente avversari – due in sella, uno dimissionario – sono tenuti a dipanare, assieme al capo dello Stato, la matassa della nuova «legislatura impossibile» generata dal sistema tripolare italiano. Cambiano le leggi elettorali – il Porcellum del 2013, il Rosatellum del 2018 – ma a ogni inizio di Legislatura il risultato non cambia. L’unica (non piccola) differenza sta nel fatto che cinque anni fa il "premio" assegnato allo schieramento più votato aveva garantito alla Camera dei deputati (e solo in quella, non anche al Senato) una cospicua maggioranza in seggi al centrosinistra di Pier Luigi Bersani, che prevalse di quasi 126mila voti sul centrodestra che candidava a Palazzo Chigi Angelino Alfano. Anche allora primo partito risultò il M5s, guidato in campagna elettorale da Beppe Grillo, che ottenne circa 45mila consensi in più rispetto al Pd. Oggi i rapporti di forza sono cambiati, generando un quadro nuovo nel quale il centrodestra a prevalenza leghista prevale nettamente sul centrosinistra imperniato sul Pd e meno nettamente sui Cinque stelle, il non-partito che continua a vincere la partita del primato partitico. E questo – come ho scritto martedì 6 marzo – accentua la consapevolezza di una «rivoluzione in corso». Ma è evidente che siamo dentro un processo avviato da almeno cinque anni. E che esso è frutto di sommovimenti elettorali che scuotono (e in qualche modo suppliscono a) una politica di vertice che si rivela piccola, perché incapace di portare a compimento, nelle sedi proprie e in modo convincente, la "grande transizione" iniziatasi nel 1992-94, con la fine ingloriosa della storia non sempre gloriosa, ma spesso sì, della Prima Repubblica. È lì a testimoniarlo il secco No popolare ad altrettante ambiziose riforme istituzionali sottoposte invano a referendum confermativi e congegnate prima dal centrodestra berlusconian-bossiano – ricordate i tempi della devolution? – e poi dal centrosinistradestra (ho scritto proprio così, perché questo è stato) che sosteneva il governo Renzi e imperniate sulla fine del "bicameralismo perfetto". Ci ritroviamo così – e anch’io l’avevo immaginato e scritto, anni fa, piuttosto sconsolatamente – a ragionare su una potenziale Terza Repubblica senza aver mai davvero completato la costruzione della cosiddetta Seconda. Paradossale.

Ma oggi siamo, soprattutto, in quella condizione di "stallo" su cui ragionano gli amici lettori. Luigi Di Maio (capo del primo partito italiano), Matteo Salvini (capo del principale partito della coalizione più forte) e Matteo Renzi (segretario dimissionario di un Pd ridotto a terza forza) sono sfidati a dare un "governo utile" all’Italia. In sostanza questo significa che sui due vincitori insufficienti (Di Maio e Salvini) grava un dovere di iniziativa e di responsabilità del quale devono dimostrarsi degni al cospetto dell’opinione pubblica interna e internazionale. Sul grande sconfitto (Renzi) pesa il dovere – diverso, ma non meno serio – di non far male ulteriore al proprio partito e di non far male all’Italia. Che cosa ci si può aspettare? Vedo buoni motivi per tornare di corsa alle urne, e ottime ragioni per fare qualcosa di serio prima. Non con una Grande Intesa a forte connotazione politica, che solo uno spettacolare colpo di scena – tipo un accordo Di Maio-Salvini – potrebbe propiziare. Forse, appunto, con un "governo utile" perché di tutti, dall’orizzonte limitato e dal programma essenziale, basato – per riprendere il fondo di Leonardo Becchetti del 7 marzo scorso – sul "minimo del minimo comun denominatore" (su temi fiscali e welfare) e sull’obiettivo – non inorridite! – di una nuova legge elettorale. A me ne piacerebbe una orientata a ridare pieno potere di scelta degli eletti da parte degli elettori (preferenza unica per le liste plurinominali, primarie di collegio per l’uninominale). Ma sarebbe meglio non cominciare neanche la discussione se dovessero mancare la disponibilità, la lucidità e la generosità necessarie per capire e accettare la logica di un decente "premio" in seggi allo schieramento più forte o, in alternativa, per concepire e realizzare un ben calibrato sistema di ballottaggio tra i due poli/partiti più votati al primo turno. Altrimenti una legge vale l’altra. E potremmo tenerci pure l’attuale, ma senza più nessuno che racconta favole sui candidati premier e lancia maledizioni sugli "inciucisti": con regole d’impronta proporzionale bisogna ritrovare, rinnovare e rispiegare la cultura del "fare coalizione" con trasparenza e tra forze distinte, smettendola di demonizzare ogni prospettiva di questo tipo come "tradimento" del mandato degli elettori.

Che cosa, invece, si può pretendere? Anzitutto, che non ci sia spazio per giochetti senza respiro e di puro interesse di fazione. La fiducia che ho nella saggezza del presidente Mattarella e nella sua capacità «maieutica» (evocata e quasi invocata dal costituzionalista Marco Olivetti su "Avvenire" del 28 febbraio scorso), nonché la nuova moderazione dei toni da parte dei due vincitori, certi ma – ripeto – insufficienti, mi fa sperare che si riesca a delineare una soluzione buona per il Paese. E buona per ricucire, almeno un po’, la frattura tra le sue parti politiche e geografiche, liberandoci anche dai nuovamente dilaganti luoghi comuni su Nord e Sud (fisco e povertà pesano e non sono nodi stretti rispettivamente solo sopra il Po o solo sotto il Garigliano, e ovunque i problemi veri sono: livello dei servizi alle persone e alle imprese, qualità dell’ambiente, rete delle infrastrutture e delle vie di comunicazione fisica e digitale, efficienza amministrativa…). Sarebbe un esito sorprendente e positivo se dalla eccitata e violenta campagna elettorale appena terminata, nascesse un governo di tregua: aiuterebbe a smaltire veleni e tossine masticati, inoculati e accumulati nel corpo vivo del Paese. Proprio per questo non è scontato che accada. Il rischio di precipitare subito in una nuova corsa alle urne resta forte e, in ogni caso, la prospettiva di una nuova verifica elettorale nel giro di qualche mese è più che concreta. Perché, dunque, smontare gli arsenali propagandistici? Perché si tratterebbe di un disarmo bilanciato e contemporaneo. E anche una piccola pace offre grande spazio a chi ha idee e progetti necessari e realistici, non solo slogan a effetto e cinici calcoli. Vedremo presto chi ha coraggio, e amore vero per questo Paese e la sua gente.