Due corsivi su Natale e Presepe

17.12.2017 18:04

Due dei più apprezzati autori di "articoli brevi", Massimo Gramellini e Michele Serra, intervengono su un tema di grande attualità in questo periodo, quello della festa di natale. Usanze e simbologie che alcuni vorrebbero "oscurare" per timore di urtare la sensibilità di chi proviene da culture diverse, mentre all'opposto li si vorrebbe trasformare in veri e propri vessilli identitari. I due autori, muovendo da spunti diversi, ci offrono comunque riflessioni il cui peso, come spesso accade per i loro corsivi, è ben più consistente dello spazio utilizzato per proporle.

Non buon non Natale
Trovo illuminante la decisione della scuola milanese «Italo Calvino» di chiamare la festa di Natale «grande festa delle Buone Feste» per non urtare la sensibilità di chi non festeggia il Natale. Ispirandomi a questo fulgido esempio di apertura, smetterò di festeggiare il mio compleanno perché mangiare una fetta della mia torta preferita in presenza di altre persone sarebbe un’ingiuria nei confronti di quelle che non sono nate il mio stesso giorno: la maggioranza, temo.
«Grande festa delle Buone Feste» è un primo passo, ma ancora non basta. Intanto la parola «grande» discrimina con ogni evidenza le altre feste. Si è calcolato quale enorme danno può produrre nella psiche di un bambino la decisione arrogante, tipica della mentalità competitiva occidentale, di stabilire una gerarchia tra feste presunte «grandi» e feste medie, medio-piccole, festicciole e, non sia mai, festini?
Ma è la parola «festa» in sé a suonare irrispettosa verso chi non ha niente da festeggiare. Si pretende di imporre anche a costui una festa, anzi «la grande festa», anzi «la grande festa delle Buone Feste». E perché mai dovrebbero essere «buone», di grazia? Se uno volesse delle feste «cattive» dovrebbe sentirsi escluso, magari additato come un diverso?
Esiste un modo infallibile di non offendere la sensibilità degli altri ed è smettere di averne una propria. Ci stiamo arrivando. Nel mondo slavato dei non luoghi e delle non identità, l’unica soluzione possibile è la negazione perpetua. Non auguri di non buone feste di non Natale a tutti (e non ).

Massimo Gramellini 
CORRIERE DELLA SERA, 14 DICEMBRE 2017

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Inchinarsi alla speranza
A differenza di Giorgia Meloni, che quest'anno ha deciso di fare il presepe in difesa della tradizione cristiana, io che non sono credente lo faccio da sempre. Da ragazzino ne feci anche uno di pongo. Quello attuale è un presepe messicano di gesso che comprai a Puebla trent'anni fa per pochi dollari. Le statuine sono appena abbozzate e pitturate di un celeste presunto mariano ma molto precolombiano. È bellissimo, povero e sincretico, Gesù è Gesù ma la Madonna sembra inca e uno dei re Magi è identico al sergente Garcia. Il bue e l’asinello hanno un manto di stelline dorate come il mago Merlino. Per dire quanto è complicata, la faccenda delle “tradizioni”.
Meloni parla del presepe come di una ridotta assediata (da chi?), come di un gesto identitario e per questo “rivoluzionario”. Ma non è vero, non è così, l’Italia pullula di case, di chiese, di piazze dove si fa il presepe, e se qualche preside o direttore scolastico esita a farlo per non offendere le “culture diverse” penso che sia in errore, ma non un traditore. Semplicemente una persona che sbaglia nel tentativo di non sbagliare.
Tutti, d’altra parte sbagliamo: anche Meloni, quando nella rappresentazione di quell’antico mito (un bimbo redentore nato da profughi in fuga) indica “i valori della nostra civiltà”, è in contraddizione con le sue idee politiche, piuttosto inospitali con profughi e migranti. Fare il presepe non è un atto di sfida politica, è il tentativo – al quale tutti siamo inadeguati – di inchinarsi alla speranza.

Michele Serra
LA REPUBBLICA (L’AMACA), 15 DICEMBRE 2017