Non un anno di scuola in meno ma cent'anni di libri in più

29.08.2017 08:47

Riprendendo un precedente articolo di Alberto Asor Rosa, Stefano Bartezzaghi (La Repubblica, 27 agosto 2017) interviene nella discussione aperta in merito alla durata dei cicli scolastici.

«Val più la pratica della grammatica»: era tradizionalmente la massima-rifugio dell’incultura (a pari merito con «meglio un asino vivo che un dottore morto »); oggi si impone come insegna quasi eroica della scuola italiana. Negli ultimi decenni la tendenza è stata quella di ritoccare e complicare le diverse leggi e regole che sovrintendono il funzionamento della scuola: quindi, la sua grammatica. Ma se finora la scuola media superiore ha mantenuto e qui e là superato i livelli di decenza è stato invece per la pratica, volontaria e scarsamente retribuita di quei presidi e professori che, come amano ripetere, «ci credono ancora». Quindi sbrigano al meglio incombenze e tortuosità burocratiche e liberano tempo prezioso per fare qualcosa che realmente avvicini la scuola alla vita. Ieri, su queste pagine, Alberto Asor Rosa ha mostrato come siano inconsistenti gli obiettivi che si vogliono raggiungere aggiungendo due anni all’obbligo scolastico e togliendone invece uno al corso della scuola media superiore. «Non un anno in meno, ma un secolo in più», ha giustamente obiettato. I ragazzi che oggi si diplomano e si rivolgono o all’università o al faticoso accesso al lavoro sanno, eventualmente, qualcosa del secondo Novecento solo grazie alla pratica di qualche insegnante, non certo per merito della grammatica dei programmi scolastici. Non si potrà pretendere che questi cittadini siano poi consapevoli dell’importanza o anche solo della pertinenza dei problemi che agitano la contemporaneità. Ambiente, geopolitica, migrazioni, economia, new media, Europa… E la storia italiana? Chi insegna all’università sa che non può dare per nota alcuna nozione al proposito: non piazza Fontana, non Aldo Moro, non le conseguenze italiane della caduta del Muro di Berlino, non la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi. Si rischia quel che capitò a un collega, che all’esame si sentì dire che Pietro Ingrao era stato un pioniere dell’informatica italiana. A lezione aveva sbadatamente parlato dell’importanza di Ingrao nel Pci, senza pensare all’omofonia con il Pc fatto di hardware e software, certo più alla portata della platea che lo ascoltava.

Non sono, queste, solo le meste storielle che si raccontano i professori, scuotendo la testa e dicendo «ai miei tempi». Sono il logico risultato di politiche scolastiche e culturali campate per aria, rivolte a vaghi risultati economici e del tutto ignare di (o disinteressate a) ciò per cui sarebbe impensabile abolirla del tutto, la scuola superiore.

Chi la frequenta ha l’età in cui finalmente si può «leggere ». Se ne hanno già gli strumenti e si ha ancora la massima duttilità mentale. Leggere non è infatti quell’attività noiosa ma tanto civile e buona che le campagne a favore «del libro » a volte ritraggono. È saper trovare il senso a quanto ci sta davanti, si tratti di un libro o di qualsiasi altro fenomeno. Da leggere, a scuola, ci sarebbe nientemeno che il secondo Novecento, con la sua storia, la sua arte, la letteratura, la filosofia, la scienza. Non si tratta di una partita fra tradizionalisti e “nuovisti”, cioè di sostituire o meno Albinati a Petrarca o Bauman a Machiavelli. Si tratta, al contrario, di togliere Petrarca e Machiavelli dal museo, mostrando come siano presenti nella contemporaneità anche attraverso le opere e le parole di scrittori, artisti, studiosi, scienziati viventi.

È probabile che un nuovo canone del Novecento, articolato e mirato alla contemporaneità, non possa occupare meno di un anno di scuola superiore. Invece che amputarla sarebbe allora meglio trasformarla e di quell’anno in meno fare il secolo in più: il secolo che manca alla scuola di oggi, malandata nelle strutture ma non nell’intelligenza di chi la fa davvero, ogni giorno, in aula.