Buoni maestri

10.01.2017 16:49

Inventano metodi alternativi per i ragazzi, si ribellano alla media aritmetica del voto. Nelle scuole ci sono docenti appassionati e soli. Scommettiamo su di loro (Eraldo Affinati, Robinson-La Repubblica, 8 gennaio 2017)

Siamo in molti a pensare che la scuola sia il luogo in cui questo Paese può ritrovare se stesso superando la sua crisi etica. I docenti, quasi fossero le controfigure dei genitori, sono spesso chiamati a incarnare il limite che i ragazzi non devono superare. In aula ci si dovrebbe misurare con gli altri in una scena non condizionata soltanto dai miti del successo, della prestanza e della bellezza fisica. In quale altro luogo socialmente credibile dovremmo recuperare gli scrupoli estetici e i crismi legati alla tradizione culturale affinché tutto non si riduca a uno squallido conteggio dei like ottenuti su Facebook?
Le reazioni suscitate da un mio articolo sul primo giorno di scuola, pubblicato su Repubblica il 9 settembre scorso, in cui cercavo di richiamare alla nostra attenzione la matrice affettiva e relazionale del mestiere più bello del mondo, cioè quello del professore, sembrano confermare che la materia è scottante: alcuni, come Cinzia Duron di Roma, – si sono riconosciuti nel ritratto del docente entusiasta e tuttavia solitario, costretto ad arrangiarsi giorno per giorno, quasi operando a mani nude di fronte alle magnifiche classi irrequiete – per usare un eufemismo – che lo assediano; taluni, alla maniera di Alessandra Valentini di Monterotondo, avrebbero voluto affiggere il testo in sala insegnanti, forse per convincere certi colleghi a rinunciare alla media aritmetica dei voti al momento dello scrutinio; altri, è il caso di Simonetta Giovannini di Merano, hanno sottolineato il fatto che non dovremmo mai ridurre gli obiettivi, a costo di costringere Abdel a leggere Goldoni.
Scorrendo tali riflessioni, diffuse sui social o arrivate via mail, a stento mi trattenevo: fosse stato per me, sarei andato subito a Torino a sostenere Donata Testa che non si accontenta di stare in classe ma gioca a ingranaggi scoperti mostrando ciò che lei è per davvero, non quello che dovrebbe essere; a Colle Vai d'Elsa ad abbracciare Dario Ceccherini, che porta i liceali a insegnare l'italiano agli immigrati; a Rieti per dire ad Alessandro Albanese, sempre pronto allo stupore, quindi mai fermo in cattedra, che non dobbiamo mollare. Stiamo parlando di dorme e uomini che alla scuola, nonostante tutte le beghe amministrative e burocratiche da risolvere, credono ancora. Altrimenti non potrebbero superare le mortificazioni economiche e sociali. Millesettecento euro al mese dopo trent'anni di lavoro? Signori, non scherziamo. Non avrebbero la forza di compilare, pensando agli occhi dei loro studenti, "il bilancio delle competenze". Né potrebbero districarsi trai Piani triennali dell'offerta formativa, i Rapporti di autovalutazione e gli scontrini giustificativi delle spese relative ai bonus ricevuti.
Come fanno a resistere questi docenti appassionati che mandano avanti la baracca in una condizione così difficile, senza avere luoghi istituzionali dove poter conoscersi, uscire dall'isolamento e scambiarsi le rispettive buone pratiche? Stiamo parlando di quelli che non si limitano a spiegare il programma e mettere i voti, ma costruiscono eventi conoscitivi. Dove trovano la carica? Detto in sintesi: nella potenza vitale degli adolescenti. Ecco il motore propulsivo da cui ricavano alimento: Roberta che, in fondo al corridoio, ti confida che in famiglia non ce la fa più e vorrebbe fuggire di casa; Claudio che sembra pronto a buttarsi giù nel pozzo solo perché il professore di chimica gli ha disegnato una ics sul quaderno degli esercizi; Rashdur, che ti mostra sul cellulare la foto della madre rimasta in Bangladesh.
È come se i ragazzi ci chiedessero di ricomporre in un tutto unico i loro frammenti: per farlo dovremmo riprendere un filo che qualcuno sembra avere smarrito. È l'Italia sognata da Giuseppe Mazzini, che avrebbe voluto garantire l'uguaglianza delle posizioni di partenza a tutti gli esseri umani e, sulla sua scia, l'Europa di Ventotene, forse antiquata ma così bella, abbozzata da Altiero Spinelli, Eugenio Colorasi e Ursula Hirschmann. Il Paese per cui morì mio nonno, Alfredo Cavina, partigiano della 36ª Brigata Garibaldi, fucilato dai nazisti nel 1944. Se noi deludessimo le attese degli scolari che ci osservano mentre spieghiamo tradiremmo in primo luogo quell'idea d'Italia: la medesima che i padri costituenti ci hanno consegnato.
All'inizio dell'anno scolastico andai al liceo Ludovico Muratori, ora accorpato al San Carlo, in via della Cittadella a Modena. Siccome pioveva ci spostammo dal campo esterno in aula magna dove centinaia di studenti, ponendo domande sulla vita del priore di Barbiana, mi ricondussero alla sua perenne verità. Non certo le scartoffie da sistemare, i moduli da riempire, le graduatorie da consultare. Se volessimo attingere alle vere sorgenti dell'istruzione dovremmo ripristinare una speciale sostanza della relazione umana da cui l'insegnamento non può prescindere: rompere la cosiddetta "finzione pedagogica" e "fare sul serio", al di là delle tecniche, delle sensibilità e delle tradizioni presenti in ognuno di noi.
Conta l'autenticità più del metodo. Lo spirito più del giudizio. Prova ne sia che il momento cruciale di quella giornata resta l'incontro con un giovane africano che avevo invitato a presentarsi ai suoi coetanei emiliani: il modo disinvolto in cui lui declinò le proprie generalità, per nulla intimorito di fronte alla folla di ragazzi che lo ascoltava, e il silenzio attento e partecipe con cui i liceali prendevano atto della sua storia personale avventurosa, tuttavia colma di aspettative, mi persuase della necessità ineludibile di trasformare i contenuti in esperienze che possano entrare davvero nella coscienza di chi le compie.
Riuscire a vincere questa sfida all'interno del sistema educativo nazionale e non in un ideale falansterio criptonovecentesco, ne convenivo con Giovanna Morini, dirigente del "Muratori", è la missione Numero Uno da compiere. Come sapeva, seppure in forma rabdomantica, Elsa Morante, il mondo lo salveranno i ragazzini: ciò non significa che noi dobbiamo esimerci dall'indicare loro il sentiero da percorrere, tuttavia dovremmo imparare ad ascoltarli. È quanto ha fatto Paola Cortellessa, una professoressa di Scampia, la quale non solo prende sul serio il suo lavoro, ma si lascia coinvolgere dalle storie, dai desideri, dai sogni e dalle ferite dei ragazzi ai quali parla tutti i giorni. Vincenzino fu il primo che gliene rese merito un pomeriggio memorabile di fronte a una planimetria del suo quartiere: «Professore', 'o sapit' perché nui ve vulimm' bene? Perché vui nun ci schifate...».
Proprio lei, che insieme ad altri docenti illuminati ha fondato l'associazione "Lo squarcio" con l'intenzione di scuotere gli equilibri consolidati e rianimare le motivazioni interiori, mi ha guidato nel famigerato quartiere napoletano, prima fra gli ultimi degli ultimi, i nomadi delle baracche costruite sotto il cavalcavia, poi davanti agli studenti del "Galileo Ferraris": adolescenti che vivono accanto ai camorristi, però tengono duro e, con ammirevole coraggio, mantengono la linea diritta, alla maniera di Emanuele Cerullo, cresciuto tra le Vele nel sogno pazzo della poesia, giocando "con gli ascensori rotti usati come porte / di un campo di calcio".
I ragazzi non andrebbero mai considerati tutti insieme, ma sempre uno per uno. L'ho rivisto, questo fuoco vitale, come un tipico esempio di ciò che tanti professori realizzano ogni giorno nell'assoluto anonimato, dietro le quinte, al di fuori del cono di luce dei riflettori: è stato quando, camminando nei corridoi dell'istituto tecnico industriale, Nicola Cotugno, professore di tecnologia, mi ha presentato un suo studente. Uno di quelli che, se non avesse incrociato lui, forse l'unico adulto credibile della sua esistenza, chissà che fine avrebbe fatto. E naturalmente vale anche il contrario. Si sono guardati in faccia: un misto di padre e figlio, amico e fratello, maestro e allievo, storia trascorsa e futuro da inventare. Sì, nonostante tutto, ho detto a me stesso, è ancora questa la vera buona scuola.

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