L'Italia delle fazioni che trionfa nei ballottaggi

17.06.2016 10:29

"In Italia le grane deflagrano di preferenza in vista dei ballottaggi, quando la politica si fa necessariamente scelta secca, reductio ad unum, opzione esclusiva. Esplodono qui, in questo punto di svolta semplificatrice e drastica, i personalismi, i particolarismi, gli interessi irriducibili, le rivalità inconfessabili." (Pierluigi Battista, Corriere della Sera del 17 giugno 2016

In Italia le grane deflagrano di preferenza in vista dei ballottaggi, quando la politica si fa necessariamente scelta secca, reductio ad unum, opzione esclusiva. Esplodono qui, in questo punto di svolta semplificatrice e drastica, i personalismi, i particolarismi, gli interessi irriducibili, le rivalità inconfessabili. Guardate l’impegno degli schieramenti che corrono a favore dei candidati sindaci: blando, freddo, svogliato, quasi zero, mentre i candidati si spendono senza requie, in evidente solitudine. Qualche volta affiora addirittura la tentazione del votare contro, come appare evidente in questi giorni soprattutto nella sinistra e nel Pd, e i risentimenti si mescolano alle paure, e la difesa del proprio orticello viene privilegiata sulla battaglia per un obiettivo comune.
Per questo, in fondo, gli italiani hanno sempre avuto nel cuore il sistema proporzionale, in cui chi vince non vince proprio tutto, e proporzionalmente si distribuiscono benefici e rappresentanza. Dove il «particulare», il cui conseguimento Francesco Guicciardini indicava come l’essenza perenne e inscalfibile del carattere italiano, esercita un richiamo più forte dell’interesse generale del proprio stesso schieramento. Mentre il maggioritario, di cui il ballottaggio è la manifestazione apicale, e che configura nella sua logica l’alternativa ineludibile «o di qua o di là» senza mediazioni, si alimenta di puro machiavellismo: vincere, occupare la stanza del potere, del governo o della città.
Nell’Italia del Novecento questa propensione alla frammentazione pluralistica, e al molteplice che mitiga lo strapotere dell’uno, ha avuto espressione persino in un contesto apertamente antidemocratico come la dittatura fascista in cui l’indiscusso primato del duce veniva a patti con la pluralità dei gerarchi, ciascuno dei quali incarnava una particolare anima del fascismo. Con il ritorno alla democrazia, il carattere italiano ha trovato nella purezza proporzionalistica lo specchio delle proprie pulsioni più profonde. I partiti, il vero cardine del sistema, della «Repubblica dei partiti» come era stata battezzata, erano contenitori di pluralità, e le correnti, prima ancora di essere escrescenze degenerate e voraci, esprimevano questa multiformità. Chi vinceva, soprattutto nella Dc, che era il perno dell’universo politico italiano, doveva scendere a patti anche con le componenti interne al partito, e poi con i partiti stretti in una coalizione. Persino in un partito monolitico come il Pci, le diverse «sensibilità», come si diceva pudicamente, trovavano espressione in un pluralismo sociale e istituzionale — il sindacato, le città, le cooperative, le Regioni — che non mortificava le particolarità conviventi sotto lo stesso tetto.
Il sistema dei partiti, e insieme quello proporzionale, crollano con la ghigliottina della «rivoluzione giudiziaria», e al loro posto subentrano il maggioritario e la nascita di formazioni politiche di stampo fortemente leaderistico. Per la verità, non si è assistito a un processo simmetrico a destra e a sinistra, giacché alla straripante leadership berlusconiana nel centrodestra si è contrapposta nel centrosinistra una coalizione variegata e frazionata che ha dato molto filo da torcere ai leader, e in particolare a Romano Prodi, le cui doti di paziente tessitore si sono sempre scontrate con il particolarismo dei partiti che erano il nerbo dello schieramento. Poi anche questo sistema è entrato in crisi. Lo sgretolarsi della leadership di Berlusconi ha messo in moto un processo centrifugo e addirittura caotico nel centrodestra. Ma l’irruzione di Matteo Renzi e di Beppe Grillo ha segnato il formarsi di nuove leadership forti. Quanto forti e robuste è l’interrogativo che attraversa questo appuntamento elettorale. Nel Movimento 5 Stelle, il passo a fianco di Grillo e la scomparsa di Casaleggio stanno creando problemi di successione che già si sono manifestati con l’affiorare di una paventata leadership per Luigi Di Maio. Nel Pd i malumori contro Renzi rischiano di indebolire il leader in una misura che i suoi nemici interni si augurano molto profonda. Il ritorno del «particulare» e la crisi delle leadership sembrano procedere di pari passo, e se questo è vero lo si misurerà anche e soprattutto nel decisivo appuntamento referendario di ottobre. Per vedere anche se Guicciardini prevarrà su Machiavelli.

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