Negli occhi delle vittime le mie false esecuzioni

05.10.2014 12:10

Domenico Quirico, inviato de La Stampa rapito in Siria nel 2013, rivive la terribile esperienza delle due finte esecuzioni cui fu sottoposto durante la prigionia; una testimonianza durissima, che accresce nello stesso tempo l'orrore per le feroci esecuzioni di questi giorni e la pietà per le vittime (La Stampa, 5 ottobre 2014)

Ma perché, Dio mio, queste vittime non gridano, non inveiscono contro il loro boia vestito di nero, non invocano per l’ultima volta, seppure inutilmente, pietà dal coltello che gli agitano davanti? Nell’orrore delle esecuzioni degli ostaggi occidentali mancano i gesticolamenti, le urla. È un orrore stranamente asettico, tranquillo, rassegnato. Vorresti vedere la ribellione, la vera ribellione scoppiare sul viso umano: e invece non è espressa, non dallo sguardo, fisso e come velato, né dalla bocca; persino la testa, invece di piegarsi, o sollevarsi fieramente o disperatamente, pende sulla spalla, sembra piuttosto piegarsi sotto un invisibile fardello. Sembra che nei sacrificati del Califfo il brusco impeto della volontà, il suo incendio lasci il corpo inerte, impassibile, sfinito da un troppo grande sperpero dell’essere. Perché?
Forse non avrei una risposta, o mi accontenterei di quella, in fondo banale, pratica, di chi sospetta il ripetersi di molte false esecuzioni: strategia subdola per ottenere nel video di quella vera l’ultima, la scenografica sopportazione della vittima.
Mi accontenterei se non avessi provato, in luoghi non lontani da quelli in cui si consuma la Ingiustizia spettacolare e diabolicamente comunicativa del califfato di Mosul, l’esperienza di una falsa esecuzione, di una doppia falsa esecuzione. Non saprei nulla di quell’impeto silenzioso, che sembra irresistibile, di quel grande slancio di tutto l’essere verso il Male, fatto persona nel soldato del Jihad, la guerra Santa, che ti sta davanti, della preda verso il carnefice: di questa libertà, naturalezza del Male, odio, vergogna. Di come quello che è l’atto finale della vita, per fortuna finto o purtroppo vero, diventa per te quasi bello, di una bellezza che non è di questo mondo né dell’altro, la bellezza di un mondo più antico, prima del peccato forse. Prima del peccato degli Angeli.
Provo a raccontare, soprattutto a me stesso, quei secondi. La pistola è lì alla tempia, il coltello nella mano del boia. Tutto è stato detto: morirai. Fino a un attimo prima volevi ancora leccare la vita come zucchero, plasmarla ancora, affilarla, amarla insomma come si cerca la parola, l’immagine definitiva. Invece, non lo sai, ma la discesa è iniziata dal giorno in cui hai capito che non sarai più liberato. Ma non sapremo mai quando questo è accaduto ad esempio per il giornalista americano Foley, prigioniero da due anni: due anni!
Il boia pronuncia la sentenza e lancia altre minacce. Ripeti dentro di te quelle sillabe. Al contrario di Foley e dei suoi sciagurati compagni avevo il mio assassino davanti, a pochi centimetri, il viso sul viso, gli occhi negli occhi, mentre risuonavano quelle sillabe insensate. La figura dell’uomo che ti ucciderà, con la sua bocca aperta a quel balbettio infame, si confonde con mille altre figure che hai veduto, con uomini che hanno sfiorato la tua vita, di cui hai sofferto, con tutta l’umanità informe e uguale che si assomiglia e riempie il mondo. Fu, è un senso lacerante, una nausea di tutto, e dell’uomo.
È allora che ti senti assolutamente solo in un mondo intento a tutt’altro, un mondo contento di essere vivo, di dormire, di amare, di guardare come tu non potrai più. Sei allora, per la folgorazione di un istante, senza più memoria, senza possibilità di ricordarti altro. Se non di questa coscienza sepolta nel corpo che non sarà più tuo. Invocare, fuggire, ribellarti e tutto il resto è roba per gente con l’avvenire davanti.
Rassegnati: dice una voce che ghiaccia il cuore. Perché l’uomo che ti sta davanti, che hai imparato a conoscere durante tutto il tempo della tua prigionia (Haji era il soprannome del mio, ovvero il saggio, colui che ha fatto il Pellegrinaggio, e qualcuno, stolto, dice che questi sono finti musulmani), giorno dopo giorno, è diventato per te Dio. Perché, come Lui, ti ha completamente nelle sue mani, ti può amministrare la vertigine della sofferenza fino alla morte o la gioia incommensurabile di un atto di amore fino alla liberazione. È insieme giustizia e ingiustizia assoluta, senza punizione e senza rimorso. Calcolare le proprie possibilità, a che serve? Contro Dio non si gioca.
Ecco: siamo faccia a faccia , io e Lui, Lui e loro. Tutto il resto è svanito, non ti resta che abbandonarti. Non di amarlo, come brancolano gli inventori della inesistente «Sindrome di Stoccolma». Abbandonarti. Che ragione c’è di urlare, invocare, scuotersi? Il tuo Dio con il pugnale è davanti a te. Io e lui. Sei come un uomo che si è arrampicato di corsa su una china vertiginosa, apre gli occhi, si ferma abbagliato, non è più in grado di salire o di scendere.
È così che il principio della calma entra in te. Non so se Foley e le altre vittime hanno pregato, non conosco le loro biografie così a fondo, laddove entra il silenzio e l’ombra di Dio. Ma non è la preghiera nel senso che i cristiani frivoli danno a questa parola. Una bestia disgraziata, quale tu sei, imprigionata in una campana senza aria, può fare tutti i movimenti della respirazione, ma che serve? Poi, all’improvviso, l’aria irrompe di nuovo nei tuoi bronchi, le arterie tremano al colpo del sangue che riprende a fluire, sei come una nave al fragore delle vele che si gonfiano. Il tuo Dio è davanti a te con il pugnale pronto. Ora sì, puoi morire.

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