Io e Annalena: uniti da tutto ma non dall'Ikea

20.05.2014 11:02

Mattia Feltri (La Stampa, 19 maggio) "festeggia" i 25 anni dall'arrivo in Italia dell'Ikea con un mirabile quadretto di vita familiare; il colosso svedese dell'arredamento vissuto da marito e moglie rispettivamente come "croce" e "delizia" di giornate nelle quali sopravvive solo chi possiede la giusta "predisposizione filosofica".

Era un sabato mattina e il tempo era bellissimo: pioveva. Gite fuori porta impossibili, pregustavo una giornata complementare al divano, coi giornali, i libri e soprattutto - nel primo pomeriggio - Sassuolo-Torino: i granata impegnati nel big match della serie B. Tu sei arrivata, Annalena, col sorriso infinito per cui ti ho sposata, e mi hai detto: «Amore, andiamo all’Ikea?».
Qualcosa dentro di me si è rotto. Ho visto ore fra mobili dai nomi pieni di dieresi, pupazzi di stoffa da uno e novantanove, batterie di colini delle quali non avremmo assolutamente potuto fare a meno. Alla fine, fra l’altro, avresti comprato degli scaffali Vittsjö o un portasciugamani Grundtdal che io avrei montato all’indomani, fra crisi isteriche e patetiche scorciatoie: a me non avanza mai un solo bullone, mi avanza direttamente una mensola.
«Infatti non è bello andare all’Ikea con te. Tu non hai lo spirito giusto, ti manca la predisposizione filosofica. Entrare all’Ikea significa lasciarsi condurre da una danza, in cui ogni passo e ogni sguardo hanno un significato. Non si può andare all’Ikea per comprare una poltrona, che è la tua idea di shopping: arrivi e dici, già nervoso, ok, dove sono le poltrone? Non è così: si affronta il percorso come un tratto di vita, lasciandosi stordire da tutto, paralumi di carta, possibilità di nuovi bagni, sgabelli a tre piedi, copriletti variopinti, vasi di orchidee. Ci si lascia rapire da un cuscino a fiori e si esce con la testa che gira».
Annalena è così, è poetica. Si incanta sui cataloghi Ikea dove famiglie bionde e con gli occhi azzurri - non c’è mai un tarchiato corvino - scoppiano di felicità con alle spalle una libreria Billy. Hanno case fresche, moderne, accoglienti, coordinate, e se le sono montate da sé in un trionfo di ganci di fissaggio a elle. Su di me la poesia evapora prima dell’arrivo: Ikea sta sempre dopo un modernissimo svincolo con soprelevate e rotonde. E’ lì, a cento metri in linea d’aria, a portata di mano. E io riesco regolarmente a impigliarmi nello svincolo, potrei ripercorrerlo per ore senza riuscire ad avvicinarmi a Ikea di un solo palmo.
Che cosa c’è di poetico nel passaggio al magazzino dove si va a prendere il tavolino Rekarne alla posizione Q fila 16, imballato dentro una scatola di cartone di otto metri quadrati che occupa l’interro carrello, una specie di Tir già colmo di bambini e padelle? Progettare l’acquisto di un guardaroba a tre ante scorrevoli sarà anche romantico, ma a me tocca spoetizzare: amore, noi non abbiamo un camion Iveco, abbiamo una Panda. La prima volta sono andato all’Ikea in metropolitana. Dovevo compare una cucina (una Torsby rossa che ha fatto il suo dovere). Arrivo e dico: «Buongiorno, mi serve una cucina». Pensavo di essere preparato: «La voglio lunga tre metri e trenta». Ne ho indicata una che mi piaceva. Il commesso mi ha guardato come fossi un idiota (come dargli torto?). Non sapevo che servivano le posizioni dei tubi del gas e di scarico. Sono tornato la settimana dopo e il commesso mi ha piazzato davanti a un computer: prenda col mouse i componenti e si costruisca la cucina, stia attento che le misure combacino, si serva dei regoli nel menu strumenti… Volevo piangere. L’ho corrotto e me l’ha fatto lui.
«Questa è la ragione per cui con te all’Ikea non ci vado più. Vado con la mia amica Anna, partiamo la mattina presto sperando di anticipare l’invasione e trovare un parcheggio vicino all’ingresso. Non ci riusciamo mai, però saremo felici lo stesso. Davanti a noi si schiuderanno suggerimenti per il futuro, promesse di serenità arredata da letti a castello con la scaletta e piumini arcobaleno. Troverò qualcosa da regalare a te, qualcosa per i bambini. Mi sento giovane e responsabile, perché non ho speso troppo per una sedia firmata e scomoda, ma mi sono immersa nella frugalità allegra, dell’investimento consapevole. Se tu venissi con me, e ci portassimo i bambini, andremmo a mangiare al self service, prenderemmo polpette svedesi con marmellata di mirtilli rossi, medaglioni di salmone con salsa olandese, per i bambini patatine fritte e succhi Drick Lingon, infine torta di marzapane Princess. Invece niente. L’ultima volta, per avere la cassettiera dei miei sogni, ho dovuto chiamare mio padre da Ferrara».
Io adoro la bottega svedese. Intanto per il non trascurabile motivo che è subito dopo le casse, varcate le quali si respira il vento della libertà. E poi finalmente qualcosa mi fa battere il cuore. Prendo le polpette Köttbullar, gli hot dog surgelati Korv, i pancakes, decine di buste di salmone Lax Kallrökt che una sera Marina Ripa di Meana ci servì come antipasto. Prendo aringhe marinate con cipolle, aringhe alla senape, aringhe con aglio, tutte quelle salse all’aneto che dopo l’entusiasmo iniziale ammuffiranno in frigorifero. Soprattutto prendo il capolavoro definitivo dell’Ikea, le Potatischips Saltade, le strepitose patatine col peso specifico del piombo.
Non posso che affogare nel cibo il dolore per non essere all’altezza delle aspettative di mia moglie. Stefano, mio suocero, mi spiegò che per costruire una cassettiera Hemnes - e qualsiasi altro prodotto Ikea - bisogna seguire al dettaglio le istruzioni, anche se paiono superflue. Se non si salta nemmeno un passaggio, il miracolo si compirà. Impiegammo quattro ore, muti e concentrati, e senza di lui avrei scaraventato tutto dalla finestra, ma alla fine la cassettiera fu eretta a monumento della nostra vita coniugale.
«Non so perché, ma ogni volta torno da Ikea con un tagliere nuovo. L’ultimo era a forma di riccio».

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