Sudan, la giovane sposa incinta condannata a morte perché cristiana

16.05.2014 21:46

Dove era la pietà nel tribunale di Khartum quando hanno condannato a morte Meriam, 27 anni, medico, cristiana, per apostasia e adulterio? Quando un imam è entrato nella sua gabbia, e in dieci minuti ha cercato, invano, di convincerla a rinunciare alla falsa fede cristiana e a tornare all’islam, per sopravvivere? Domenico Quirico su La Stampa del 16 maggio.

La tenerezza è il più grande dei sentimenti umani perché è fatto di rispetto, di lucidità e di luce. La tenerezza, che puoi chiamare anche pietà, è immensa come se fosse folle ed è saggia, è l’unica cosa umana che sia perfetta; non c’è nessun più vasto sentimento che non si contenga tutto nelle braccia della pietà. Dove era la pietà nel tribunale di Khartum quando hanno condannato a morte Meriam, 27 anni, medico, cristiana, per apostasia e adulterio? Quando un imam è entrato nella sua gabbia, e in dieci minuti (dieci minuti!) ha cercato, invano, di convincerla a rinunciare alla falsa fede cristiana e a tornare all’islam, per sopravvivere. Dove era quando l’hanno rinchiusa in carcere, incinta all’ottavo mese, insieme a un altro figlio di due anni, ad attendere la morte? È pietà o beffa crudele la possibilità che la esecuzione venga rinviata a dopo il parto?
Le cronache giudiziarie riportano il nome del giudice, Abbas Mohamed, e le sue parole: «Ti abbiamo dato, donna, tre giorni di tempo per rinunciare alla impostura in cui sei caduta e non ci hai ascoltato…». Il sudiciume di una giustizia pervertita ricopre il duro metallo di quelle parole. Vuole l’anima di quella donna con violenza. La vuole con quella avidità che non tollera né attesa né dilazione, immediatamente.
Credi!: e il giudice della sharia, la legge islamica in vigore in Sudan, continua a lanciarle quella parola senza tregua, come sassate. Gli si è posato sopra, spiandogli la bocca, accoccolato e fosco come un demone in agguato di una anima: dillo dillo dillo… Conosciamo anche le parole con cui la donna gli ha risposto, possiamo sentire la sua voce straordinaria, scuotendosi di dosso la minaccia come se fosse qualcosa di contagioso, che dice: «Io sono cristiana e dunque non ho commesso apostasia».
Ecco il momento della fede: non è più un culto cieco come quello del suo inquisitore, è una scelta. Meriam il suo dio non lo subisce, lo ha scelto. Non siamo lì, eppure di colpo la stanza di quel tribunale sudanese è piena di silenzio e di tensione e di attesa, come un vortice che chiama senza voce un abisso ignoto dal quale sale la vertigine di una estasi fiammeggiante. Il giudice e l’iman hanno praticato il loro mestiere di legulei di Dio e di reclutatori di fedeli, hanno detto quello non potevano non dire. Attraverso la brutalità del servo appare netta ed esplicita tutta una religione tradita, ridotta a pandetta e a rito.
La storia della sua «colpa» è semplice: Meriam, raccontano i suoi giudici, è figlia di un musulmano e di una etiope cristiana. Ma il padre l’ha abbandonata quando aveva sei anni ed è cresciuta nella fede della madre, per questo ha sposato un cristiano. «Apostata» gridano i fanatici del Verbo: non ne aveva il diritto, doveva restare islamica, nella fede del padre. E quindi è anche adultera perché non poteva sposare un cristiano. Per questo hanno aggiunto alla condanna, con oscena ironia, anche a cento frustate. Cosa c’entra Dio in tutto questo?
C’è una parola pesante, antica che pronunciamo, ormai noi pusillanimi, noi «rentiers» della fede, a stento: martirio. Meriam forse non sa che non si è grandi martiri finché non si ha il proprio carnefice vicino, giorno e notte, e si può obbligarlo a vergognarsi della sua barbarie. In Sudan, in Siria, in Nigeria, in molti altri luoghi in questo momento gli aguzzini affilano i coltelli, escono a caccia e si muovono silenziosi e crudeli; e altri uomini, cristiani, sono inseguiti, imprigionati, torturati, condannati e uccisi; e un pezzo di mondo è calpestato, e si è lì anche noi. Perché sappiamo e si è impotenti.
Meriam attende ora in prigione, stringendo a sé il suo bimbo, ascoltando la vita che cresce dentro di lei. Ogni battito di cuore infinitamente lento su per la strada della vita e ad ogni battito di cuore un millimetro più vicina alla morte.
Per lei si levano voci, le organizzazioni per i diritti umani, qualche governo. Chissà se basteranno. Questo è il secolo del non intervento, è il secolo della pietrificazione morale. 

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