Anche gli insulti hanno una storia

19.07.2013 10:40
Categoria: Articoli giornale

Sul "Corriere della Sera" del 16 luglio Pierluigi Battista interviene sugli insulti di Calderoli alla ministra Kyenge.

Dicono: lo fanno tutti. No. Roberto Calderoli l'ha fatto peggio degli altri. Dicono anche: ma il bestiario da scagliare contro il nemico è una prassi consueta. È vero, è una pessima consuetudine, degna del primitivismo che domina il lessico politico italiano. Ma quell'«orango», buttato addosso alla signora Kyenge, non è un animalesco insulto... ordinario. È un insulto speciale, che vuole dire proprio una cosa, che ha una storia alle spalle, che è sovraccarico di sottintesi che non si possono definire altrimenti che «razzisti». È vero, si fa un abuso intimidatorio del termine «razzista». Ed essere a favore dello «ius sanguinis» anziché dello «ius soli» non fa un razzista di chi lo propugna. Ma dare dell’«orango» a una donna di colore, per provocare risate e consenso nel contesto di un comizio, è specificamente razzista. Lo è storicamente: da sempre nell’iconografia cara al Ku Klux Klan il «negro» è paragonato, o addirittura identificato, a una «scimmia». Da sempre l’immaginario razzista si nutre dell’immagine del «negro» inferiore come di un sotto-uomo dai tratti scimmieschi: un gorilla, uno scimpanzé. O un orango, appunto. Darwin non c’entra. Non sono i nostri (presunti) progenitori a essere chiamati in causa, ma i nostri antenati che sono restati indietro, che non si sono sviluppati e, schiavi dei più bassi istinti naturali, non sono entrati nello stadio della civilizzazione. «Bingo Bongo» sta sugli alberi, come le scimmie. Nelle edizioni del «gioco dell’oca» dell’epoca fascista, le caselle con i bambini neri raffiguravano esseri umani molto simili a delle scimmiette. Una gaffe, dicono ancora. Un incidente, un’imprudenza, una cosa buttata lì con i freni inibitori allentati. Appunto: quando le inibizioni crollano, le pulsioni si manifestano senza le briglie dell’opportunità e della buona educazione. Esce fuori il profondo, normalmente seppellito sotto strati di autocensura civilizzatrice, di ossequi alle convenzioni. A Calderoli è sgorgato spontaneo il paragone. Non ha detto cane, o orso, o coccodrillo. Ha detto «orango» come l’hanno detto migliaia e migliaia di suoi predecessori che hanno dileggiato, raffigurato, deriso, linciato i neri come «scimmie».

Ecco perché l’argomento del «così fan tutti» non regge. Il Giornale , in un estremo tentativo, se non di difendere l’indifendibile, quanto meno di attenuare l’impatto di quell’«orango» sventurato, elenca tutti i casi in cui i politici sono stati paragonati ad animali: «topo» a Giuliano Amato, «rospo» a Lamberto Dini e così via. Ma veramente non colgono la differenza offensiva di un insulto così carico di storia nella triste vicenda del razzismo come «orango» riferito a una signora di colore? Anche «caimano» a Berlusconi non è affatto piacevole: concetto che fa fatica a entrare nella testa di chi considera del tutto ovvio che si dia del «nano» a Brunetta e si crocifigga Ferrara come un «ciccione». Ma la qualità prettamente razzista del dileggio di Calderoli è autenticata dalla storia e dalla consuetudine. Se dipingi uno qualunque con un naso adunco è un conto, ma se dipingi un ebreo con il naso adunco e la fisionomia repellente il tratto antisemita di quel disegno è inequivocabile. E così difficile capirlo?

Ieri in Senato il (purtroppo) non dimissionario vicepresidente Calderoli si è detto «rammaricato» per il «gravissimo errore» commesso. Ma a furia di chiamarlo errore, senza assumersene la responsabilità e rifiutandosi di capire il significato vero di ciò che si è detto, si finisce per non comprendere perché quell’errore sia stato commesso, quale deposito di stereotipi razziali sia stato saccheggiato nell’attimo preciso in cui Calderoli ha sfoderato quell’orribile «orango». Dunque non è stata l’animalizzazione generica dell’avversario a rappresentare l’errore, ma quello specifico link mentale che quell’insulto rivolto a quel ministro con quel colore della pelle ha voluto richiamare. Che poi ci sia stato un effetto non voluto, il problema è solo di Calderoli. Un uomo politico non può farsi dominare dai fantasmi dell’inconscio, e se quell’inconscio è strutturato secondo stereotipi in cui il nero richiama inesorabilmente la scimmia, allora il problema di un singolo diventa un problema della collettività. Non è vero, presidente Maroni?

(Pierluigi Battista - Il Corriere della Sera, 16 luglio 2013)