Le «bufale» e il voto: così sui social crediamo a ciò a cui vogliamo credere

25.11.2016 11:51

"I social e il web non sono mezzi «neutri», ma attraverso algoritmi matematici ... possono far pendere da una parte o dall’altra il flusso informativo (ma non solo) che ci appare ogni giorno davanti agli occhi. La colpa però non è solo di una sorta di «grande vecchio» che comanda tutto e tutti. Una parte importante di ciò che ci appare sugli schermi dei nostri pc, talblet o smartphone (e che finisce inevitabilmente per condizionarci) dipende dalle nostre scelte" (Gigio Rancilio, Avvenire, 19 novembre 2016).

Ci volevano le elezioni americane e la vittoria di Trump per rimettere al centro del dibattito mondiale il problema del ruolo dei social, della verità e dell’informazione. Anche se, a ben guardare, tutti questi problemi si condensano in uno solo: il modo con cui ci informiamo e ci scambiamo informazioni nell’era digitale. Secondo l’Oxford Dictionaries il neologismo dell’anno è «post-verità». Sta a significare che il consenso di massa si basa sempre più su informazioni non vere (o totalmente false) che vengono considerate vere anche quando ne viene dimostrata l’infondatezza. Come ha dimostrato uno studio del CSSLab dell’IMT di Lucca, che si occupa di scienze sociali computazionali, «smentire le bufale è praticamente inutile». La maggior parte delle persone infatti anche di fronte alla verità non cambia comunque opinione. Non a caso, durante la campagna elettorale americana le bugie sono state più lette e condivise su Facebook degli articoli di giornale dedicati ai candidati e ai temi elettorali. Secondo Buzzsumo, che misura le conversazioni sui social, le principali 20 storie false sulla Clinton (soprattutto) e Trump, hanno generato su Facebook 8.711.000 tra like, commenti e condivisioni contro i 7.367.000 dei 20 principali articoli sui candidati, messi online dai più importanti siti di informazione. La notizia falsa più condivisa era intitolata: «Clamoroso: Papa Francesco appoggia Donald Trump». Seguita da: «Wikileaks conferma: Hillary (Clinton - ndr) ha venduto armi all’Isis».

Diffondere falsità su web e social non è soltanto un’arma politica (in Italia sul tema è in corso un durissimo scambio di accuse tra Movimento 5 Stelle e Pd) ma anche un business. Perché le bugie e le notizie ad effetto generano «visualizzazioni», che a loro volta generano denaro. Il Washington Post ha intervistato un uomo che ha fatto della falsità su web e social un’impresa fiorente. Si chiama Paul Horner, ha 38 anni, e oltre a guadagnare decine di migliaia di dollari al mese creando «bufale», è convinto di aver dato un contributo significativo all’elezione di Trump. «Ci sono riuscito perché le persone sono stupide – ha detto senza mezzi termini –. Nessuno controlla più niente, tutti condividono in continuazione cose, senza domandarsi se siano vere. Trump è stato eletto perché ha detto quello che le persone volevano sentire. E quando la gente scopriva che magari quello che aveva detto era falso, non le importava».

Ovviamente non bastano questi due esempi, seppur illuminanti, per affermare che i social e le notizie false sono stati più importanti nelle elezioni americane delle notizie certificate e della verità, ma è indubbio che il problema esista e sia enorme. Perché i social e il web non sono mezzi «neutri», ma attraverso algoritmi matematici (e a volte anche azioni umane), possono far pendere da una parte o dall’altra il flusso informativo (ma non solo) che ci appare ogni giorno davanti agli occhi. La colpa però non è solo di una sorta di «grande vecchio» che comanda tutto e tutti. Una parte importante di ciò che ci appare sugli schermi dei nostri pc, talblet o smartphone (e che finisce inevitabilmente per condizionarci) dipende dalle nostre scelte. Se riceviamo certe informazioni e non altre, è perché noi stessi – navigando su certi siti o non su altri, cercando certi termini e non altri, mettendo mi piace o condividendo certi post e non altri – abbiamo trasmesso ai computer dei signori del web come Google e Facebook un numero enorme di informazioni sulle nostre preferenze, compresi i nostri orientamenti sociali, religiosi e politici. Altro chiarimento necessario: uno dei motivi del successo dei social è proprio quello di farci connettere con persone che (spesso, molto spesso) sono affini a noi. Lo piscologo Jonathan Haidt l’ha chiamato «effetto Facebook». Andiamo sui social per sentirci rincuorati, coccolati e confermati nelle nostre scelte. Così facendo, però, finiamo per vivere in «bolle», che ci portano in realtà sempre più parziali. Un altro «bisogno» che viene risolto dai social è quello «di farci sfogare». Non a caso sempre più utenti li usano per litigare soprattutto con sconosciuti senza nemmeno dovere uscire di casa o guardare l’avversario negli occhi. Basta una tastiera. La questione, da seria che era, sta diventando drammatica. Non a caso Facebook, Twitter, Google e YouTube hanno annunciato misure per ridurre la quantità di odio e di falsità. Ma avere dei «poliziotti del web» che cancellano o bloccano i commenti volgari o le notizie false, è più difficile di quello che si pensi. Perché si può offendere e aggredire (anche pesantemente) senza usare parolacce o usando termini gergali. Per non parlare del fatto che esiste anche l’ironia o il paradosso, e insegnarli a un computer è un’impresa titanica. Un’altra questione è come arginare le notizie false su web e social – le cosiddette «bufale». Google ha promesso che farà apparire nel suo canale news, una scritta che ci informerà se la notizia proposta è «verificata» o «non verificata». Difficile dire se servirà davvero. Intanto Facebook ha spiegato che governare «bufale» e falsità sul suo social non è così facile. Peccato che quattro studenti della Princeton University hanno creato in 36 ore un’applicazione in grado di contrastare la diffusione di bugie. L’app è in grado di leggere in tempo reale un post e, confrontandosi con un archivio digitale sempre aggiornato, capire se una certa notizia arriva da un sito a rischio o da uno affidabile, e quindi eventualmente bloccarla. Purtroppo per fare davvero pulizia nei social non basta un’app o un «poliziotto del web». Costa fatica. Molta fatica. Per riuscirci dobbiamo impegnarci tutti. Nessuno escluso. Ogni giorno. Perché fare pulizia nel web e nei social è innanzitutto un fatto sociale ed educativo. Che richiama ognuno a precise responsabilità. Compresa quella di guardare tutta la realtà. Non è vero, per esempio, che sono solo le persone meno istruite a diffondere le bugie su Facebook e affini. A cadere nella trappola delle bufale, diventando a loro volta dei «propagatori» (incosapevoli) di falsità, sono anche tanti adulti insospettabili. Gente istruita e che ha posizioni di spicco nella società, e che per questo finisce involontariamente per «certificare» la «bufala» che condivide. Com’è possibile? Accade perché per muoversi nel web e soprattutto sui social servono competenze e «occhi» nuovi. Ma soprattutto serve una «soglia di attenzione» che chi frequenta i social tende ad abbassare. Perché chi va su Facebook e affini lo fa soprattutto per svagarsi. Se poi la «bufala» arriva da un sito che si spaccia per un giornale (ne esistono a decine solo in Italia), le sue notizie false appaiono ancor più credibili e la vicenda si complica ancora di più.

Intendiamoci: le bugie ci sono sempre state e i diffusori di bufale anche. Ciò che è radicalmente cambiata con l’avvento dei social è la facilità con la quale vengono diffuse, provocando danni enormi. Perché – come hanno spiegato sia lo spacciatore di bufale Horner sia il professore dell’IMT di Lucca – «la gente quando scopre che una cosa alla quale voleva credere è falsa, ci crede lo stesso». E non solo perché tutti vorremmo una pianta o una pillola miracolosa (che non esiste) in grado di curare il cancro. Ma anche e soprattutto perché certe notizie (pur false) confermano le nostre idee o demoliscono i nostri avversari, e in entrambi i casi ci fanno sentire meglio. A questo punto possiamo anche prendercela con la tecnologia e dire che i social non vanno frequentati. Il problema, però, come abbiamo visto, non è solo nel «mezzo» ma anche (soprattutto?) in noi. Per questo l’unico modo di combattere questa montagna di spazzatura che inquina la società è lavorare (anche) sull’educazione digitale. Di tutti. A tutte le età. Nessuno escluso.

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