Il voto e il rischio della post-democrazia

24.05.2019 19:32

Su La Repubblica di giovedì 23 maggio 2019 una riflessione di Ezio Mauro sulla posta in gioco nelle imminenti elezioni europee.

È una partita doppia, quella che giochiamo domenica con il voto. Prima partecipiamo a una gigantesca prova di democrazia, di misura continentale, che porta contemporaneamente alle urne 374 milioni di persone in 28 Paesi con lingua, storia e cultura diverse, che hanno scelto liberamente un’obbligazione reciproca e una responsabilità comune per dar forma all’Europa eleggendo il suo Parlamento.
Poi, attraverso questo stesso voto, diamo un giudizio implicito sul governo nazionale che è in carica da un anno, sui due partiti che lo sostengono in un’alleanza rissosa, sulle opposizioni di destra e di sinistra che cercano un’alternativa al momento inesistente. Come se la politica, non riuscendo a sciogliere i suoi nodi, aspettasse il responso delle urne europee per tagliarli di netto.
Due partite, dunque: ma la posta in gioco è la stessa, perché riguarda la nostra identità, come italiani e come europei, l’idea che abbiamo di noi stessi, del nostro passato e del nostro futuro. Il racconto oggi egemonico parla di un’Europa stanca di sé, incapace di manifestare una personalità istituzionale seducente e un carattere politico convincente, dunque prosciugata di ogni attrattiva, anche elettorale. E certo, guardando il distacco ormai incolmabile tra i commissari europei di Juncker e i cittadini, viene voglia di cedere a questa lettura. L’immagine dominante è quella di un’Europa di controllori, dunque per forza di cose fiscale e burocratica, di cui si è persa qualsiasi “forza propulsiva”.
Un’Europa portatrice di un sistema di vincoli di cui la popolazione non è più in grado di rintracciare la legittimità. Al vertice siedono uomini che non sono leader, dunque non hanno autorità, come se l’istituzione europea non dovesse convincere, conquistare, mobilitare, ma fosse un sottoprodotto delegato. Infine, manca soprattutto un pensiero politico-economico-culturale che esca dalla strettoia soffocante dei parametri: non per ignorarli, ma per aggiungere al rigore una cultura della crescita e dello sviluppo, riformulando il triangolo tra il capitalismo, il welfare state e la democrazia rappresentativa, che è alla base della civiltà europea.
Ma se recuperiamo il senso della storia, ci accorgiamo che questa stessa Europa è molto di più di tutto ciò. Stati nazionali che hanno inscenato dentro la sua geografia due guerre mondiali, una volta conquistata la pace hanno cercato di garantirla rinunciando a pezzi importanti della loro sovranità per costruire insieme una casa comune. Filosofie politiche che hanno generato proprio qui due totalitarismi nel secolo appena concluso hanno lasciato il posto a un pensiero democratico diffuso, che ha saputo dare una forma istituzionale all’idea di Europa. Abbiamo vissuto in realtà un processo costituente continuo, all’insegna della democrazia dei diritti e della democrazia delle istituzioni, come altri continenti non hanno avuto. In questo senso, possiamo dire che la politica è andata al di là della gestione del quotidiano, ha pensato in grande, prima per evitare che l’Europa tornasse teatro di guerra, poi per far nascere dalla pace un progetto di comunità democratica capace di costruire un futuro comune.
Ciò che troppo spesso dimentichiamo è che l’Europa non è una costruzione artificiale, per la semplice ragione che ha dato una fisionomia politica e istituzionale a un modo di vivere, a una tradizione, a una cultura: quella che Steiner chiama l’Europa dei caffè come luoghi di appuntamento, di scambio, di conversazione e di incontro, l’Europa che lega l’uomo al suo paesaggio perché può essere percorsa tutta a piedi tenendo sempre un campanile a portata di mano, l’Europa che scrive la sua storia sulle targhe delle strade e delle piazze obbligandosi alla responsabilità della memoria, l’Europa che vive nella doppia eredità di Atene e Gerusalemme, prendendo dalla prima il lessico socio-politico e dalla seconda la consapevolezza che la legge non può separarsi dai comandamenti morali, e infine l’Europa perseguitata dal senso della fine, dalla paura del tramonto che la incalza: e di cui ha già conosciuto nel suo passato l’oscurità, e addirittura le tenebre.
Cominciamo così a capire che è di noi che si parla, quando parliamo di Europa. In questo concetto storico, geografico, politico, sociale e soprattutto culturale convergono il seme greco che ha generato l’idea di città e dunque lo spazio pubblico dell’agorà, in cui per la prima volta l’individuo si muove come cittadino, il diritto romano che fissando la regola di convivenza per questi cittadini e riconoscendo i loro ambiti fonda la nozione di persone, il cristianesimo che oltrepassa la stessa invenzione giuridica dei pretori romani introducendo la rivoluzione della misericordia.
Arriviamo infine ad altri elementi costitutivi dell’identità europea, che tutelano il suo carattere democratico: lo stato di diritto, che introduce limiti all’azione e alla potestà del potere pubblico tutelando la libertà dei cittadini; il pluralismo che garantisce la convivenza e il confronto di pensieri, culture e formazioni politiche diverse; la contendibilità del potere che obbliga chi ha vinto le elezioni a rimettersi ogni volta in gioco dall’indomani sul mercato del consenso; il rendiconto che assegna un ruolo di soggetto politico alla pubblica opinione; la libertà di espressione fino al dissenso, che contraddistingue le democrazie.
Questi principi, che noi portiamo in campo quando interveniamo come attori nelle grandi crisi del mondo, e che usiamo per valutare i regimi altrui, farebbero semplicemente parte della storia d’Europa come variabili di un’epoca, se non venissero raccolti e condensati in un’istituzione — l’Unione Europea — che ne è nello stesso tempo il prodotto, lo specchio e la garanzia. Sono elementi della cultura liberal-democratica, che è per convenzione, per comodità e per scelta la forma della democrazia nella modernità che stiamo vivendo.
Ma oggi, proprio oggi mentre andiamo a votare, si fa strada una demonizzazione interna — che il nostro Paese ben conosce — della solidarietà, della responsabilità, della condivisione, dell’inclusione, dell’apertura, dei diritti come strumento di crescita della qualità democratica di una società, e quindi della sua libertà e dunque della sua sicurezza. Mentre questi valori entrano in crisi si affacciano altre interpretazioni della fase, altre versioni della modernità, che puntano a una privatizzazione del concetto di democrazia, a un suo restringimento, a una sterilizzazione, sfrondandola di garanzie fino a potarla proprio dei caratteri liberal-democratici che credevamo costitutivi.
Siamo così davanti alla domanda finale: è possibile un’altra Europa, che rinunci alla democrazia liberale, per entrare in una post-democrazia incognita? E quei principi liberal-democratici, sono dunque revocabili? Ecco su cosa votiamo, in Italia e in Europa.

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