Nessuno salva il piccolo Omran e i suoi fratelli

19.08.2016 19:23

"La foto del bambino, come quella di Aylan, il piccolo naufrago di Kos, non basterà, non c’è più argomento che sia in grado di farlo ad Aleppo. Quello che ci scandalizzava cinque anni fa è diventato silenziosamente un punto di partenza. Ed è dal punto di orrore in cui si è arrivati ieri che oggi si prende la rincorsa. Quel bambino è solo il termometro della nostra ipocrisia" (Domenico Quirico, La Stampa, 19 agosto 2016).

Omran, 5 anni, siede in un’ambulanza, coperto di polvere e sangue. È stato appena estratto dalle macerie di una casa bombardata ad Aleppo. I bambini, parliamone prima che la cosa diventi inutile, dato che in un luogo come la Siria anche gli innocenti sono una preda troppo preziosa per non suscitare la gelosia del destino. Viviamo in un mondo in cui tutto è perpetuamente minacciato da qualcosa. Penso che sia sempre stato così, ma mai come ad Aleppo, città di tribolati, lo è stato in modo così tangibile.
Sulla soglia, appena, del nuovo millennio e nella confusione che spesso accompagna i secoli che debuttano, la vita dei più piccoli diviene ciò che si vuole: un’arma, uno strumento di propaganda, un particolare inutile, un bersaglio perfetto, una provocazione, un dettaglio, un peso. Che volete che siano i bambini quando, come avviene in Siria, i morti si contano a centinaia di migliaia? Eppure ogni bambino è unico. Ognuno di loro che scompare nei quartieri accartocciati di questa città non di pietre e cemento ma di carne e di sangue.
Una città di cui, in cinque anni, ho ascoltato, quasi fisicamente, il respiro farsi più flebile, spegnersi, quartiere dopo quartiere, come se la vita a poco a poco cedesse parti del corpo al silenzio della morte. Ognuno di loro si porta via con sé un mondo che non era mai stato visto come l’aveva visto lui in quel suo breve tempo e che come l’aveva visto lui non si ritroverà mai.
La foto del bambino di Aleppo ci può aiutare a capire quello che non abbiamo compreso in cinque interminabili anni di guerra? Non lo so. Nell’immagine è lì, solo, che sogna forse una madre o un fratello che l’accarezzi per fugare in lui il timore dell’universo, che gli dia una casa dove nascondersi e dormire. In una città dove non ci sono più case ma solo rovine! Tu, voi siete i bambini di Aleppo, i bambini siriani. Avevano mani piccole come quelle di tutti i bimbi del mondo che cominciavano ad acciuffare le cose, voci che scalfivano simili a schegge di vetro i rumori della casa. Le loro mamme piangevano per un taglio che si erano fatti sulla punta di un dito e i padri li sgridavano fino ad adirarsi.
Poi… poi nel 2012 li ho visti in una casa ad Hadariya, quartiere di Aleppo, con una grigia, sporca, torbida luce incominciava l’alba quando le bombe arrivarono. Avevano le gole e il petto squarciati. Non dico i nomi: ho pudore. Ecco: la Siria della guerra. Scompigliata, torbida, strisciante, spietata, miserabile. Dove era il demonio, non dio. Dio era da calpestare. E la Rivoluzione, sogni di gioventù e il cervello disseccato nei sogni!
Credevano che fosse un gioco quando per la prima volta li hanno presi nei lettini per fuggire, per metterli in salvo; se non avessero sentito le madri urlare più del giorno in cui li hanno partoriti. Allora si sono messi a piangere ma solo perché lei piangeva e loro erano soliti imitarla spontaneamente in tutto quello che la vedevano fare. Poi hanno capito che si trattava di questo, di morire.
La morte è stata per voi come un cuneo di verità nel soffice non sapere dell’infanzia, vi ha strappato l’ingenuità come una benda dagli occhi e avete visto forse in un lampo tutti i dolci anni che la guerra vi toglieva: l’amore delle ragazze sulle colline di Aleppo dolci di ulivi, le feste alla moschea, le notti di luna nella città vecchia il profumo di dolci e di pane.
Vogliono trasformarvi in simboli, ora, delle nostre viltà, delle nostre rassegnazioni, delle minacce di naufragio della Storia, dei viandanti sperduti, di coloro che perdono sangue, dei figli senza più madre e delle madri senza più figli, degli uomini senza più casa né pane né dio. Forse ci riusciranno, purtroppo. Ma in realtà il bambino di Aleppo è solo. E guai oggi a chi è solo.
I primi che ho incontrato cinque anni fa ad Aleppo erano già moribondi, trasportati in lenzuola e coperte, improvvisate barelle della disperazione, pochi stracci, carne sfortunata, occhi pieni di buio, in un ospedale dove spazzavano il rivolo di sangue dal pronto soccorso nella strada con una scopa: come se fosse acqua sporca. Carni straziate da frammenti di mortaio, da shrapnel, da schegge di edifici crollati su di loro.
Dove è il limite? Mi ero chiesto allora davanti a quei corpi. Ora ho la risposta. Non c’è. Da tempo il troppo in là è stato valicato. Allora, come fare oggi per dare scandalo, per richiamare le coscienze alla decenza della pietà che si fa azione, rimedio, scelta? Domanda assurda. La foto del bambino, come quella di Aylan, il piccolo naufrago di Kos, non basterà, non c’è più argomento che sia in grado di farlo ad Aleppo. Quello che ci scandalizzava cinque anni fa è diventato silenziosamente un punto di partenza. Ed è dal punto di orrore in cui si è arrivati ieri che oggi si prende la rincorsa. Quel bambino è solo il termometro della nostra ipocrisia.
E poi gli altri, i bambini delle zone tenute dagli assassini di Dio, gli islamisti. Trasformati, diversi. La loro giovane età si era calcificata come un enorme guscio di testuggine e il loro cuore era bello e duro come un corallo. Essi dicevano Allah e il profeta e la guerra santa come citassero articoli del codice penale, per loro Dio era un libro guerriero e l’uomo una cosa a cui non avevano tempo di pensare. Già mummie superstiziose. Impugnavano armi affidate loro dai padri, mostravano scene di massacro del Nemico come fossero sequenze di un gioco, in uno sprizzare di parole dure e inesorabili contro di me, l’infedele, l’impuro, il Nemico. Derubati della ebbrezza dell’infanzia, di quella prima saggezza innocente assassinata dalla bugiarda sapienza di poi.

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