Il voto d'impulso

20.06.2016 12:37

"La politica che non sa più promettere azioni (ed essere creduta) né suscitare passioni (ed essere seguita) si ripromette di dare emozioni. Non importa cosa l'elettore abbia pensato o provato prima e cosa pensi o provi dopo: l'importante è che senta la spinta di andare a votarci" (Stefano Bartezzaghi, La Repubblica del 20 giugno 2016)

Chi abbiamo votato, come sindaco, alle ultime elezioni? Ha ragione Marco Belpoliti a sottolineare che, salvo poche eccezioni (Fassino a Torino, De Magistris a Napoli) a candidarsi sono state persone, e non personaggi. La stessa relativa indeterminazione si può riscontrare nei rispettivi elettorati, e ne danno testimonianza emblematica le anomale dichiarazioni di voto (esplicite, sussurrate, smentite), come quella di Massimo D'Alema per Virginia Raggi o quelle di Antonio Di Pietro e Dario Fo per Stefano Parisi. Non che gli analisti annettano a tali prese di posizione la capacità di far cambiare orientamento a parti significative dell'elettorato. È lo stesso elettorato a mostrare orientamenti assai confusi. Chiunque ha registrato condizioni particolari, se non le ha vissute direttamente: elettori che sono stati indecisi sino all'ultimo, elettori che per la prima volta in vita loro hanno scelto di astenersi, elettori che hanno votato in senso contrario, o comunque molto differente, rispetto alle proprie abitudini. La campagna elettorale ha dato molto spazio a certi inviti a essere imbarazzati (in attesa della campagna referendaria, di cui sono già ora leitmotiv): voterai come La Russa e Salvini; Verdini è con te; voterai come i costruttori romani o come Mafia Capitale; sei un servo di Renzi. Nulla di tutto ciò era propriamente inedito; ma nulla di tutto ciò era mai successo come e quanto questa volta.
La spiegazione classica sta in una caduta della passione politica, e della relativa appartenenza che questa generava. La passione politica discendeva infatti da un'ideologia: un modo collettivo di giudicare buono o sbagliato l'uno o l'altro corno di un dilemma: più servizi o meno tasse, Stato laico o ispirazione cristiana, scuola di Stato o scuola privata? I più minuti item della vita della comunità si affrontavano secondo modelli di pensiero remoti ma tuttora efficaci, nella traduzione e applicazione che ne davano i partiti.
La cultura di massa poi non ha più trovato posto per le ideologie politiche del Novecento, frammentandole in rivoli specialistici o in esperienze interstiziali. In teoria è subentrata, o sarebbe dovuta subentrare, una dimensione pragmatica, in cui si oppone il fare (il saper fare, il voler fare) all'"essere" ideologico: infatti questo è stato il tema dello scontro fra il primo Berlusconi e Achille Occhetto, capo di una vasta coalizione che fu nel complesso considerata "comunista" dalla propaganda concorrente. Non erano comunisti, ovviamente: ma "erano" qualcosa, qualcosa in più di quel che promettevano di "fare".
Sono passati più di vent'anni e oggi, con qualche stupore, si constata che del "fare" non parla quasi più nessuno. Le proposte programmatiche dei candidati sindaci sono state trascurabili. Si è arrivati al punto che nello scontro milanese fra due ex city manager — dirigenti e imprenditori d'azienda — Beppe Sala ha dedicato grande parte della sua campagna all'accreditamento di se stesso come uomo "di sinistra"; l'altro, Stefano Parisi, ancor più sorprendentemente ha più volte dichiarato che, dal momento in cui ha annunciato la propria candidatura, si è sentito pienamente "un politico".
Né la passione, costitutiva dell'"essere", né la pragmatica, costitutiva del "fare", sembra aver giocato un ruolo determinante. Parziale eccezione è il caso del Movimento 5 Stelle, che almeno a tratti sembra saper suscitare adesioni passionali (anche se certamente non ideologiche).
In realtà l'insistenza con cui la campagna elettorale ha toccato tasti come la rabbia, il disappunto, l'insicurezza, l'indignazione, l'anelito al cambiamento ma persino la nostalgia (nelle headline di campagna di Giachetti, "Roma torna Roma" e della leghista Borgonzoni, "Rivoglio Bologna") sembrerebbe intesa a suscitare non un intero percorso passionale ma solo la sua fase più acuta, e decisiva. Ogni passione ha una sua storia, anzi è una storia possibile: la passione della gelosia va dal sospetto, al tormento, alla scenata, al pentimento o all'orgoglio del geloso. L'"emozione" qui corrisponde al momento della scenata; quello in cui il sentimento interiore si somatizza, produce stati e atti visibili all'esterno (emozione: da ex-movere, muovere via, spostare fuori). La politica che non sa più promettere azioni (ed essere creduta) né suscitare passioni (ed essere seguita) si ripromette di dare emozioni. Non importa cosa l'elettore abbia pensato o provato prima e cosa pensi o provi dopo: l'importante è che senta la spinta di andare a votarci. Per dare una lezione a Renzi, o ai "gufi"; perché tutto cambi o perché ritornino i bei tempi; persino per protestare con le proprie stesse e passate abitudini di elettore.
L'estensione politica del marketing dell'acquisto impulsivo spiega le rotture del liturgico silenzio elettorale o le ancor più sconfortanti analisi sull'influsso delle condizioni meteorologiche nelle diverse città. Il voto di opinione, quello di convenienza e quello di scambio si ritraggono di fronte al voto d'impulso, che dipende meno da convinzioni e sentimenti politici maturati nel tempo che da casi recentissimi di cronaca, uscite ad effetto last minute, cospicue precipitazioni sul territorio o giornate soleggiate lungo i litorali.