La virtù della memoria

20.10.2013 15:13
Categoria: Articoli giornale

"Se riusciamo a leggere addirittura che delle camere a gas sappiamo quello che ci ha tramandato la propaganda americana, cosa potremmo chiedere a ragazzi molto meno equipaggiati, quando nessuno potrà denudare davanti a loro un numero davanti a un braccio?" Marco Maugeri su Conquiste del Lavoro - ViaPo del 19 ottobre 2013.

Savinio ricordava che doveva proprio trattarsi di Troia se durante la prima guerra mondiale un incrociatore Agamennon aveva ripetutamente bombardato il sito turco. E’nelle resistibili ironie della storia se insomma la morte di un aguzzino nazista sia arrivata nella settantesima ricorrenza dello sfollamento del ghetto di Roma.

E davvero le cronache sembrano tornare indietro nel tempo. L’aguzzino rimasto senza sepoltura, la salma parcheggiata da qualche parte, gente che insegue il feretro, inimmaginabili sostenitori già pronti ad assaltare il futuro culto. Mussolini – quello che rimaneva– venne trafugato dal cimitero di Musocco dal nazionalista Leccisi. Pare niente, ma la salma sparì la bellezza di dieci anni. Naturalmente non mancarono avvistamenti. Uomini del duce, pezzi d’antiquariato perlustrarono tutti i cimiteri d’Italia alla ricerca di una traccia, un segno. Qualcuno credette di avvistarlo perfino a Roma. Al Verano c’era un lastrone con le sue iniziali, e tanti presero a deporre fiori e corone, che poi si trattasse di un certo Bruno Misefari contò poco. Si erano fissati che era il duce e non c’era verso.

Naturalmente il cadavere venne fuori,a metà degli anni cinquanta. E oggi è quell’oggetto di culto che è. Meta di pellegrinaggi e immaginiamo esclusivo sostentamento di un posto che forse nessuno visiterebbe, sposta soldi, striscioni, poster, pullman in viaggio. E’ del resto una delle nostre più ricorrenti contraddizioni. Non ce la sentiamo di seppellire il boia delle Fosse Ardeatine, ma abbiamo tirato su un mausoleo per onorare uno dei più significativi criminali di guerra del secolo scorso: perché vuoi o non vuoi questo Mussolini è. Non peraltro cercava una via di fuga in Svizzera.

Che ricorrenza è allora quella del Ghetto di Roma. Che beninteso non fu una delle tante, non fu – e non poteva essere – uno dei rastrellamenti. Arrivò tardi, a oltre un mese dall’armistizio, a tre dalla caduta di Mussolini. Era la città del papa. Era un atroce bottino. All’arrivo dei treni nei campi, gli ebrei di Roma trovarono ad accoglierli le più alte cariche del regime,in tiro e azzimate per l’occasione. Ritenevano prezioso il carico ricevuto, speciale. I tedeschi mandarono pochi uomini per il rastrellamento, tentarono la terribile carta dello scambio, l’oro chiesto in cambio delle vite salvate.

Giacomo Debenedetti ha dedicato all’episodio la sua unica prova narrativa. Libro terribile, pieno di profonda intelligenza, bello e fondo come la Colonna del Manzoni. Libro va da sé terribile, poco maneggiabile anche a distanza di settant’anni e non a caso poco utilizzato in simili occasioni. In televisione non pochi avranno visto un sopravvissuto, denudare il braccio davanti al conduttore, alle scuse di questo che chiedeva comprensione per le incombenze editoriali, l’anziano signore ha rimboccato la stoffa sopra l’avambraccio facendo in tempo a schermirsi con un “si figuri”. Alla ripresa del tg il conduttore era letteralmente schiantato da una commozione, altrimenti non riproducibile. La testimonianza schianta la mente, libera come una piena inferocita tutti gli argini della nostra commozione.

A scuola quando capita di trovarsi davanti a un sopravvissuto, il cedimento è totale. Il pianto dei colleghi è lungo e ininterrotto. Pesa naturalmente essere genitori. Ai ragazzi è concessa anche la noia, qualcosa di sproporzionato rispetto alle loro ancora acerbe capacità. Ma gli insegnanti barra genitori barra figli barra un mare di guai il racconto dell’adulto che fu bambino nella valle dell’inferno devasta tutto e tutto divelle.

In un film ambientato in una scuola multiculturale, l’insegnante interpretata da Hilary Swank introduceva i ragazzi divisi in bande in guerra fra di loro alla tragedia dell’olocausto. In un passaggio del film porta questi ragazzi in un museo. All’ingresso devono ritirare una piccola foto di un ragazzino finito nei campi. Vengono in seguito condotti davanti a ogni sorta di testimonianze, cimeli, foto, scritte. Prima di lasciare il museo riconsegnano la tessera presa all’ingresso, soltanto a quel punto un computer li aggiorna sulla particolare morte che ha incontrato il ragazzino della foto. Il viso sulla scheda che hanno tenuto durante l’itinerario svela solo alla fine il truculento segreto del suo martirio. La circoscrivibile misura di un ghetto poi rafforza il senso dell’orrore.

Dei 1022 ebrei deportati soltanto diciassette fecero ritorno a casa. Sei milioni sono una cifra colossale, e fatalmente impalpabile. Ma diciassette sono diciassette. Una donna finì nei campi sebbene non fosse ebrea. Lo fece per non lasciare sola la signora che accudiva.

Dove corrono i ragazzi che inneggiano il feretro di Priebke, quale simulacro difendono? Dove è indirizzato il loro tifo? Cosa sta proteggendo un ragazzino nato quasi sessant’anni dopo lo sterminio di sei milioni di ebrei? Cosa lo spinge ad identificarsi con la centenaria salma di un vecchio poco interessante assassino? Un ex alunno mi telefona e mi racconta che fra quelli ci sono suoi vecchi compagni di classe. I genitori sono imprenditori, farmacisti, professionisti, figli di una borghesia che naviga a vista senza avere troppi intoppi. A scuola erano fra quelli che la buttavano sempre in politica, la politica beninteso per come la trovano a casa: nomi di parlamentari, nomi di conduttori, nomi di calciatori, un brodo indistinguibile dove tutti stanno con tutto, sfigato, comunista, ladro, fascista, infame, troia.

Fa impressione vedere dei ragazzi così giovani zampettare dietro un feretro in verità di trascurabile importanza. Il fascismo del resto da noi, e tutto ciò che comporta, ha superato ogni soglia immaginabile. I programmi di storia sono al novanta per cento composti da fatti del ventennio. Fra otto anni saranno i cento anni dalla marcia su Roma, eppure il fascismo è ancora ovunque. Scritte sul duce campeggiano dappertutto: diari, bagni, stadi, cessi.

I ragazzi che zampettano dietro il vecchio aguzzino non sanno neanche cosa sono le fosse Ardeatine, e del resto ancora prima la cosa non farebbe alcuna differenza. Difendono facendo scudo al feretro un’immagine rassicurante di protervia,un lasciapassare di violenza e prevaricazione sentito come antidoto al perdere. Non è il dato storico di Priebke che li muove né tanto meno quello politico. Sono gli stessi che litigano coi trans a poche centinaia di metri dallo stadio per poi scapicollarsi in un insulso inseguimento. Pretendono una dose di violenza, di sopraffazione, ne rivendicano il libero rassicurante esercizio. Non pensano che Priebke sia innocente, pretendono impunità, per lui e per loro.

Lo stadio è un’opzione. Neanche a dirlo. Perfino noi sui giornali siamo abituati a leggere dei buu allo stadio. Lo dicono ormai anche i conduttori. Bu di qua e bu di là. Ma quali bu, io non ho mai sentito bu allo stadio. Immagino chi non è stato davanti a una vera partita, stropiccia il giornale e legge di questi buuu. I giornalisti li scrivono così, la b – poi una sfilza di“u”, una, due, tre, a seconda dell’estro. Faccio leggere l’articolo a chi capita, a scuola, a casa. Per essere sicuro quando anche Enrico Mentana a un tg parla di questi bu, chiedo a mia madre secondo lei di cosa si tratti. Naturalmente mi risponde di bu, fischi, buuuuu. Come quando stai davanti a uno che ti annoia o che va fuori pista.

Ovviamente non è così. Allo stadio davanti a un giocatore nero, non il proprio, quello avversario, nessuno dice bu, e neanche buuuuuu. Il verso, scandito da centinaia di persone è questo: Uh-Uh-Uh-Uh. E’ di gola, fa vibrare tutto lo sterno, come se una scimmia cioè fosse entrata al centro di una gabbia. Uh, uh, uh, uh. Il verso rimbalzando da una gradinata all’altra ha un effetto lugubre,un tamburo razzista impazzito che vomita la sua bile ribollente sopra il giocatore protetto dall’impunità del numero. Eppure quando il giocatore esce dal campo il dirigente lo rimprovera di aver avuto un atteggiamento poco professionale.

Non so quale giornalista aveva fatto notare a Michel Platini che forse era il caso di fare eccezione agli episodi di razzismo territoriale. Il campione ha giustamente risposto “solo in Italia potete parlare di razzismo territoriale”. Razzismo territoriale. Un giornalista della Rai l’anno scorso è stato licenziato per aver riportato in una sorta di virgolettato i terrificanti commenti di una tifoseria nell’atto di intervistare un tifoso della fazione opposta. L’uomo è stato rimosso. Era pacifico che non condivideva la schifezza che riportava, ma il solo nominarla.

Alla finale di supercoppa Napoli Juve al centro dell’Olimpico venne data una partitella fra mini della Juve contro mini del Napoli. Una cosa scherzosa, fatta per abbassare la temperatura. La partitella è finita due pari. I bambini della Juve, sotto di due gol erano riusciti poi a recuperare. Ma al solo ingresso di quelli del Napoli – bambini di dieci anni – dalla curva dei tifosi avversari si è immediatamente sollevato un implacabile “lavali, lavali col fuoco /o Vesuvio lavali col fuoco”.

I testimoni dei campi di concentramento ormai vanno oltre gli ottanta. I loro carnefici hanno superato i novanta. I primi erano anche bambini, i secondi già ragazzi. Non sappiamo cosa succederà quando non ci saranno più. Ma se riusciamo a leggere addirittura che delle camere a gas sappiamo quello che ci ha tramandato la propaganda americana, cosa potremmo chiedere a ragazzi molto meno equipaggiati, quando nessuno potrà denudare davanti a loro un numero davanti a un braccio? I buuu non esistono. Allo stadio si picchia di gola, si fa uh, uh, uh, uh, uh. Scimmie, ratti, untermenschen. Non uomini.

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