Io, Malala. Se vinco il Nobel, cambia tutto

09.10.2013 16:07
Categoria: Articoli giornale

Dal Corriere della Sera dell'8 ottobre l'intervista di Alessandra Farkas a Malala Yousafzai, la studentessa pakistana che si è opposta ai talebani per affermare la dignità delle donne battendosi anzitutto per il loro diritto all'istruzione

Se il suo faccino non fosse finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, rendendola forse ancora più famosa dei suoi idoli Justin Bieber, Selena Gomez e America Ferrera, Malala potrebbe essere scambiata per una 16enne “secchiona” qualsiasi. Esuberante e insieme timida, perennemente in conflitto tra l’essere l’eterna prima della classe e il sentirsi insicura del proprio aspetto fisico. La “cocca di papà” che litiga con i due fratelli minori maschi: i preferiti della mamma.

Gli innumerevoli – e riuscitissimi – interventi di ricostruzione facciale le hanno riconsegnato il volto di un tempo. Osservando i suoi riccioli neri lambiti da un hijab color pesca sembra quasi impossibile che quei vivacissimi occhi color nocciola che hanno visto troppi orrori in così poco tempo siano ancora capaci di sorridere, rivelando un animo puro, intenso e innocente che la crudeltà degli adulti non è riuscito a piegare.

“Non vedo l’ora di visitare Roma e il Colosseo. L’Italia mi ha conferito un premio e la cittadinanza onoraria”, racconta al Corriere Malala Yousafzai, seduta accanto all’onnipresente padre nell’ufficio della casa editrice “Little, Brown” a New York dove è giunta per parlare di Io sono Malala. La mia battaglia per la libertà e l’istruzione delle donne, il libro scritto a quattro mani con Christina Lamb, pubblicato in Italia dal Corriere della Sera in edicola e da Garzanti in libreria (288 pagine, con la traduzione di Stefania Cherchi).

Dedicato «A tutte le ragazze che hanno affrontato l’ingiustizia e sono state zittite», il libro, tra memoir e saggio storico-politico, racconta l’incredibile odissea della studentessa pachistana miracolosamente sopravvissuta a un agguato dei talebani, il 9 ottobre 2012, decisi a punire il suo attivismo a favore dell’istruzione femminile in un paese dove nascere donna è ancora una condanna.

«Se vincerò il Premio Nobel nessuno potrà più negarci l’istruzione», spiega Malala, «nel mondo ci sono ancora 57 milioni di bambini che non frequentano la scuola primaria, di cui 32 milioni femmine. Proprio il mio paese è uno dei peggiori: 5,1 milioni di bambini che non vanno nemmeno alle elementari. Abbiamo quasi 50 milioni di adulti analfabeti, due terzi dei quali donne come mia madre».

Nel libro sottolinei come, a parità di classe sociale, tuo padre ha un Master e tua madre è analfabeta.
Per una coincidenza del destino, il 9 ottobre 2012 era anche il giorno in cui mamma avrebbe dovuto iniziare le sue lezioni private con la mia ex maestra Ulfat per imparare a leggere e scrivere. Si era decisa a farlo perché è una donna forte e determinata, non per seguire me e papà.

Che rapporto hai con tua madre?
A casa nostra era lei a occuparsi di tutto, dalla spesa alle visite mediche perché papà aveva sempre tanto da fare. Malgrado ciò mamma, religiosissima, era convinta che nel Corano, che non ha mai letto, ci fosse scritto che le donne non devono uscire di casa nè parlare con gli uomini. Il suo debole è lo shopping. Quando nel 2012 andammo a Karachi ospiti di Geo TV, comperò tonnellate di vestiti.

È vero che da piccola sognavi di essere bella come lei?
Avrei voluto avere la sua pelle bianca come il giglio, i suoi lineamenti fini e i suoi occhi verdi, e invece ho ereditato la carnagione olivastra, il grosso naso e gli occhi marrone di mio padre. A 13 anni poi smisi di crescere e da allora ho l’ossessione dell’altezza. Tutte le mie compagne erano più alte di me. Pregavo Allah di farmi diventare più alta, di superare i 152 cm. Ma siccome non accadde, iniziai a indossare tacchi alti anche se li odio.

Nel libro riveli l’esistenza di un potenziale fidanzatino.
Si chiama Harun ed ha 17 anni. Un giorno infilò un biglietto nel nostro cancello con su scritto «Adesso sei diventata molto popolare. Io ti amo ancora e so che anche tu mi ami. Questo è il mio numero. Chiamami». Lo diedi a papà che si arrabbiò moltissimo. D’allora non lo vidi più. Un giorno anch’io mi sposerò ma non come la mia amica Sana, convolata a nozze a 11 anni e oggi madre di due figli.

Quando venisti al mondo, la gente del villaggio commiserò i tuoi genitori.
Da noi quando nasce un maschio, tutti escono in strada e sparano in aria, mentre le femmine sono nascoste dietro una tenda perché si sa già che il loro destino sarà stare in casa a cucinare e mettere al mondo dei figli. Una discriminazione profonda che si palesa persino a tavola. Quando papà era ragazzino, se per cena si uccideva un pollo, le bambine potevano mangiare solo ali e collo, mentre il petto se lo dividevano il nonno, mio padre e i suoi fratelli. Però papà è diverso.

In che senso?
Non ha mai accettato queste inique consuetudini pashtun. Quando sono nata era felice e chiese agli amici di gettare nella mia culla frutta secca, dolci e monetine: un’usanza che vale solo per i neonati maschi. A differenza poi di tanti dei nostri uomini, adora mia madre e non ha mai alzato un dito su di lei.

Dopo l’agguato tuo padre è stato molto criticato.
Qualcuno dice che è stata tutta colpa sua se mi hanno sparato, che è stato lui a spingermi a parlare in pubblico come il padre di un piccolo tennista che vuole a tutti i costi farne un campione, come se io non avessi una mia opinione in proposito. Lui risponde che è tutta colpa dei politici e che è meglio morire liberi che vivere da schiavi.

Perché hanno colpito proprio te?
Mentre lottavo tra la vita e la morte, i talebani rivendicarono l’attentato con un comunicato in cui affermavano di avermi colpito «per aver promosso e diffuso la cultura occidentale nelle regioni pashtun». Hanno detto che ero una spia Usa che idolatrava «il diavolo nero Obama» e che avrebbero cercato di uccidermi nuovamente se fossi sopravvissuta.

Ammiri davvero il presidente Obama?
Obama è uno dei miei idoli insieme a Khan Abdul Ghaffar Khan, Martin Luther King, Nelson Mandela, Mohammed Ali Jinnah, Mahatma Gandhi e Abramo Lincoln. Ma m’ispiro soprattutto a Benazir Butto: un modello per tutte le pakistane. Quando i suoi figli Bilawal e Bakhtawar mi regalarono due veli appartenuti alla loro madre, ci affondai dentro il naso, cercando di ritrovare il suo profumo, scoprendo dentro un lungo capello nero che me li rese ancora più speciali.

Che cosa ricordi del lungo periodo di convalescenza?
I Wotsits, gli snack al formaggio che l’infermiera Julie mi portava insieme al pollo fritto halal di cui andavo pazza. Quando i mal di testa cessarono, ripresi subito a leggere. Cominciai con Il mago di Oz, il primo di tanti libri donatimi da Gordon Brown, l’ex primo ministro inglese inviato speciale Onu per l’istruzione. Anche Dorothy nel romanzo deve superare una serie di ostacoli per raggiungere il suo scopo, ed io mi dicevo che se vuoi conquistare un obiettivo devi andare avanti, anche se sul tuo cammino ci sono grandissime difficoltà.

Quali sono i tuoi scrittori preferiti?
Il mio libro preferito è L’Alchimista di Paulo Coelho che ci insegna come, se mantieni fede alle tue idee, l’intero universo ti aiuta. Mi sono appassionata a Il mondo di Sofia, un romanzo filosofico di Jostein Gaarder. Non ho mai letto nulla di Khaled Hosseini però ho visto la versione cinematografica de Il cacciatore di aquiloni. Mi piacciono molto la tv, – soprattutto Masterchef, Ugly Betty e Twilight – e i dischi della cantante pakistana Munni Begum. La musica inglese contemporanea non mi entusiasma.

Non ti stai occidentalizzando in Inghilterra?
Niente affatto. A Birmingham seguo ancora la mia cultura pashtun. Penso che le donne hanno il diritto di indossare ciò che vogliono: se una ha il diritto di andare alla spiaggia seminuda, perché non può indossare un niqab?

Ti manca il tuo paese?
Moltissimo. Mi mancano i tetti piatti su cui giocare, i bambini che inseguono aquiloni per la strada, i vicini che bussano per avere in prestito un piatto di riso o da cui andare per chiedere tre pomodori. Fra noi e la casa successiva c’è solo un muro, ma è come se vivessimo a chilometri di distanza. Tutte le nostre cose sono rimaste nello Swat. Ovunque in casa ci sono scatoloni pieni delle lettere e cartoline che la gente mi manda, e in una stanza c’è un pianoforte che nessuno di noi sa suonare.

Tornerai mai in Pakistan?
Ogni volta che lo dico a papà lui tira fuori qualche scusa: «le tue cure non sono ancora complete», oppure: «Qui le scuole sono ottime». So che ha ragione: devo studiare ancora tanto perché solo allora sarò in grado di battermi in modo davvero efficace per la mia causa. Sogno già l’università e devo solo decidere se restare in Inghilterra andando a Oxford o Cambridge o prediligere un college americano Ivy League come Harvard, Stanford o Yale. Ovunque andrò cercherò di essere ancora la prima della classe per rendere orgoglioso mio padre.

Hai deciso cosa farai da grande?
In passato, come la maggior parte dei ragazzini pakistani, sognavo di diventare dottore. Oggi le mie aspirazioni sono cambiate. Il mio paese ha abbastanza dottori: quello di cui ha davvero bisogno è una nuova e giovane classe dirigente onesta. Come dice sempre mio padre «il male del Pakistan sono i politici» che hanno persino consentito a Bin Laden di nascondersi per molti anni nel nostro paese.

Cosa faresti se fossi presidente del Pakistan?
Non voglio diventare presidente, una nomina conferita dall’alto, ma primo ministro: una carica elettiva scelta dal popolo, l’unica che possa fare davvero la differenza. Prima di allora m’interessa portare avanti il mio Malala Fund. Dio mi ha dato una nuova e seconda vita che voglio dedicare, attraverso questa associazione no-profit, alla difesa del diritto di ogni bambina, non solo pachistana, a ricevere un’istruzione.

 

(Corriere della Sera, 8 ottobre 2013)

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