28 agosto 1963, il discorso del sogno

27.08.2013 23:05
Categoria: Cultura & Società

Washington, 28 agosto 1963. Al termine di una marcia di protesta per i diritti civili, davanti ad una folla smisurata, Martin Luther King tiene davanti al Lincoln Memorial il discorso passato alla storia come “I have a dream” ("Ho un sogno").

 

28 agosto 1963

Ci sono giorni da mettere a segnalibro nei volumi di storia. Quasi sempre sono date di tragedia e violenza: giorni di guerra, attentati e morte; a volte sono giorni di nascita e di festa. Punti di svolta, avvio di percorsi di crescita e sviluppo, aperture di civiltà, ritrovamenti di vita e di umanità, tappe di quella umanizzazione progressiva di cui hanno parlato Henri Bergson e Teilhard de Chardin, e su cui, anche non credendoci con la loro sicurezza, dobbiamo almeno porre speranza. E continuare a scommetterci.

Festeggiamolo uno di questi giorni: il 28 agosto 1963. Come oggi, a distanza di cinquant’anni esatti, era un mercoledì e su Washington il tempo era radioso. Condizione perfetta per la grande marcia che Martin Luther King e diverse organizzazioni religiose avevano organizzato per il sostegno dei diritti civili, il lavoro e la libertà.

Duecentocinquantamila persone, in gran maggioranza neri, venuti da ogni parte degli USA. Sul palco si succedevano cantanti e attori da Bob Dylan a Joan Baez, da Marlon Brando a Harry Belafonte, Sidney Poitier, Paul Newman. Ragazzi che cantavano, bambini che giocavano. Musica e festa dappertutto davanti al Lincoln Memorial.

E alla fine il “discorso del sogno”. Clarence Jones, consigliere di M. L. King e co-autore della prima stesura del discorso che King avrebbe dovuto leggere, racconta quello che avvenne. “Martin stava leggendo il testo che avevamo preparato quando Mahalia Jakson, la sua cantante gospel preferita, che lo stava ascoltando, gridò: Raccontagli del sogno, Martin! Raccontagli del sogno! In tutti questi anni, ripensando a quel momento, ho concluso che doveva averlo ascoltato a giugno di quell’anno, a Detroit, quando Martin aveva fatto specifico riferimento al suo sogno. Quando Mahalia gli gridò quella frase, io ero dietro di lui, circa 15 metri indietro. E vidi succedere tutto in tempo reale. Prese il testo che avevamo preparato e lo spostò dalla parte sinistra del leggio. Lo mise da parte. Allora dissi a una persona che stava al mio fianco: Stiamo per entrare in chiesa. Lo dissi perché, da dietro, vidi il suo linguaggio del corpo cambiare completamente. Finché lesse il testo preparato, ebbe il linguaggio del corpo di un professore che parla dalla cattedra durante una lezione, o una conferenza. Ma poi si trasformò nel pastore battista che predica alla sua congregazione (…) Mahalia Jakson era la sua cantante gospel preferita e, quando lei parlò, lui si sentì in dovere di rispondere”.

Se è così che avvenne, capiamo meglio la verità e la potenza di quel discorso. Capiamo, riascoltandolo o rileggendolo dopo cinquant’anni, che il suo fascino e la sua forza comunicativa non sono frutto di una fredda tecnica oratoria, ma capacità di stare in dialogo, di ascoltare, di rispondere ad un appello, di svelarsi e donarsi, di dare voce all’anima, di essere l’anima di un popolo che, nella speranza e nel segno di una parola profetica, si fa comunità e fa diventare realtà l’utopia.

Rileggiamola allora, e non solo per memoria, la parte finale di quel discorso.

(G.C.)

                                                                                                 * * *

«… Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.

Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza.

Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.

Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi.

Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.

Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.

Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.

Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.

Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.

Ma non soltanto.

Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.

Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.

Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.

E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: "Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente"».

 

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Martin Luther King - pastore protestante, politico e attivista statunitense, leader dei diritti civili - nato ad Atlanta il 15.1.1929 fu assassinato a Memphis il 4.4.1968. Alle 18.01 King uscì sul balcone del secondo piano del motel ove alloggiava in quei giorni: fu subito colpito da un colpo di fucile di precisione alla testa; trasportato in ospedale i medici constatarono gli irreparabili danni cerebrali. La sua morte fu annunciata alle 19.05. Per tale delitto fu condannato James Earl Ray, ma ancora oggi non tutto è chiaro della cospirazione che costò la vita al leader della "rivoluzione nera".