Camminando si impara la gioia dell'attimo

08.01.2016 09:46
Categoria: Articoli giornale, COSTUME

«Mentre mi preparo a intraprendere la prossima fase della mia lunga camminata attraverso le colossali steppe dell'Asia Centrale, ripenso ai miei mille giorni già percorsi a piedi. Il "lavoro" che io svolgo è in quanto tale semplice: consiste nello stare sveglio. Si può affrontare da sonnambuli una relazione interpersonale o un lavoro soffocante per l'anima, ma non si può percorrere la strada che attraversa le brucianti dune di Hejaz nell'Arabia Saudita. Se lo si facesse, non si arriverebbe dall'altra parte.» (Paul Salopek, La Repubblica del 7 gennaio 2016)

BAKU (AZERBAIGIAN)
È una strana sensazione quella di essere consapevoli della rotazione della Terra sotto i propri piedi. Mi è accaduto nei pressi della città turca di Tarso. I colori della campagna dell'Anatolia apparivano come una bandiera antica sventolante sotto il sole dell'estate: uliveti verdi polvere, terra rossa come un bordeaux, laghi color fiordaliso, le vecchie tonalità della Mezzaluna Fertile. Le cavallette salvato fuori dall'erba fragile spaventate dai miei scarponi. Turbini di rondini volavano per sfamarsi. E l'ho provato: gli orizzonti infuocati il cui crepitio mi veniva incontro. Camminavo senza alcuno sforzo sopra una gigantesca palla.
L'ho provato anche percorrendo a piedi la Rift Valley in Etiopia, e superando le montagne del Caucaso nella Georgia. Ora lo percepisco in continuazione: è una sorta di stato di trance ipervigile. Quando mi travolge, sento di essere capace di camminare fino al bordo della Terra dove l'acqua precipita. Un'amica londinese, una raffinata viaggiatrice del mondo, continua tuttavia a insistere nei suoi email: «Ma non ti sei ancora stancato?». Sottintende il mio progetto: Out of Eden Walk.
Sono giornalista. Ho alle mie spalle i primi tre anni di un viaggio a piedi di complessivi sette (o otto? ok, forse diventeranno nove) dall'Africa al Sud America. Racconto storie terra a terra della prima esplorazione del Mondo compiuta dalla nostra specie nell'Età della pietra, le storie che di quel percorso registrerebbero i miei scarponi. Ciò che la mia amica vuole dire invero è: «Non ti annoi?».
Di questi commenti ne ricevo una grande quantità. I lettori mi chiedono spesso come sia veramente passeggiare lungo i continenti come se sotto sotto si aspettassero di sentirmi dire che ripartire ogni volta da un orizzonte per raggiungerne un altro (ho già al mio attivo circa 8000 chilometri) fosse tanto tedioso da offuscare la mente. Come se non fosse noioso fare il pendolare tra casa e ufficio in auto o in metropolitana. Come se, in ultima analisi, alla fine di giornate digitalmente dense non fosse stato soporifero rimpinzarsi di surrogati di stimoli sgorgati dai dispositivi portatili. Dal sentiero globale che percorro a piedi, sorpreso, rispondo: «No».
Camminare per settimane, mesi e anni in mezzo alla natura, misurando il vasto palcoscenico fisico e umano che chiamiamo paesaggio sulle mie gambe, è l'opposto della noia. Il terreno e le sfide cambiano a ogni passo. (Considerando che la mia falcata è di 75 centimetri, ogni giorno percorro circa 40000 passi). Come supererò saltando a campana una palude turca? Come mi avvicinerò a un contadino azero e al suo cane che ringhia? Come mi sottrarrò da un imprevisto scontro pietre-proiettili di gomma tra palestinesi e israeliani in Cisgiordania? Come segnalerò alle autorità — tenendo in vita i ventricoli del mio cuore — i corpi di migranti uccisi dalla sete su cui inciamperò nel deserto del Gibuti? Dove troverò il mio prossimo pasto dovunque io sarò? Alba dopo alba io mi tuffo, fisicamente, nel mondo. Ogni giornata di cammino risolvo un centinaio di puzzle esistenziali e prosaici. Questi dilemmi pedestri sono, tuttavia, tutto fuorché ripetitivi. Ciascuno richiede una soluzione originale. Più che superare fusi orari, io mi apro la strada per superarli risolvendo problemi — improvvisando.
Lo studio del cervello suggerisce che la noia si verifichi ogni qual volta i rubinetti della serotonina e della dopamina, gli ormoni del piacere e della ricompensa, si prosciugano. In A Natural History of Human Emotions, tuttavia, lo storico della cultura Stuart Walton sostiene che la noia sia stata inventata di recente. Secondo Walton, essa risale alla metà del XIX secolo, il periodo che ha immortalato le preoccupazioni dense di angoscia delle classi agiate europee in vere e proprie opere come Anna Karenina e Madame Bovary. Il classicista Peter Toohey scava più in profondità. In Boredom: A Lively History, cita una lapide rinvenuta nei pressi di Napoli che onora un romano dal nome Tanonius Marcellinus meritevole di aver «salvato la popolazione dalla noia infinita» — probabilmente patrocinava incontri tra gladiatori.
E che dire della noia ai tempi dei nomadi cacciatori-raccoglitori del pleistocene, i protagonisti del 95 per cento della storia umana, che hanno conquistato il pianeta per noi? La vita nell'Età della pietra era difficile. E breve. Ma sicuramente non priva di pomeriggi oziosi. Molti antropologi hanno fatto notare che i cacciatori-raccoglitori dedicavano "al lavoro" molto meno tempo di noi. Mi capita di pensare che i semi di noia siano stati piantati contestualmente alla semina dei primi cereali selvatici, forse da qualche parte nel Vicino Oriente, circa 12.000 anni fa: con il fiorire dell'agricoltura. L'agricoltura ci ha radicato in un preciso luogo costringendoci al tapis roulant di una vita circolare e monotona. È altrettanto ovvio, però, che la noia non sia soltanto ciò che i medici e gli storici ci dicono.
Mentre mi preparo a intraprendere la prossima fase della mia lunga camminata attraverso le colossali steppe dell'Asia Centrale, ripenso ai miei mille giorni già percorsi a piedi. Il "lavoro" che io svolgo è in quanto tale semplice: consiste nello stare sveglio. Si può affrontare da sonnambuli una relazione interpersonale o un lavoro soffocante per l'anima, ma non si può percorrere la strada che attraversa le brucianti dune di Hejaz nell'Arabia Saudita. Se lo si facesse, non si arriverebbe dall'altra parte. Ciò non esclude, naturalmente, gli stati di sogno da svegli, da sempre associati alla potenza della marcia. Faccio un passo. E poi un altro. Ognuno è del tutto nuovo. Un azzardo. Ogni passo è una trattativa con il mondo fisico e offre una ricompensa immediata, irreversibile e tangibile: non cado. E procedo. Oppure, se cado, per superare l'ostacolo devo attingere alla collaborazione più primordiale di tutte: quella tra mente e corpo.
«Il cacciatore è l'uomo vigile», scrisse il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset. Il cacciatore sa che «la soluzione potrebbe scaturire dal punto meno prevedibile sulla grande rotondità dell'orizzonte». La passeggiata è una caccia. È la qualità dell'essere vigile. C'è qualcosa di sottile e di profondamente soddisfacente in questo. Il cammino come stile di vita è un esercizio intellettuale legato al "momento dopo momento" che trasmette un ricordo, che ha del familiare. Elettrizza il cervello, che ha sete di passi avanti tangibili e non solo simbolici Il nostro è un cervello che aborre la routine. È un cervello che non conosce la noia. No, non mi sono ancora stancato.

Paul Salopek ha vinto due premi Pulitzer. La sua impresa Out of Eden Walk è patrocinata dal National Geographic e dalla Abundance Foundation. Traduzione di Guiomar Parada © 2015 The New York Times