Lo sviluppo spinge a partire

07.02.2019 10:30
Categoria: Articoli giornale, ECONOMIA, IMMIGRAZIONE, POLITICA

"La mobilità umana oltre i luoghi comuni". Il sottotilo del pezzo di Maurizio Ambrosini che proponiamo oggi, tratto da Avvenire del 6 febbraio 2019, sintetizza perfettamente il senso di un intervento che prova a ricondurre in termini corretti e razionali la lettura di fenomeni con i quali molti politici non appaiono in grado di andare oltre un approccio superficiale, strumentale e meramente propagandistico. Quali sono le vere ragioni per cui le persone, in ogni epoca, lasciano il proprio luogo natio e si mettono in movimento.

È ancora recente, e niente affatto archiviata, la polemica che il vicepremier Luigi Di Maio ha scatenato contro la Francia, istituendo un collegamento tra sfruttamento neo-coloniale, impoverimento dell’Africa e fenomeni migratori. In sostanza sarebbe colpa delle politiche francesi se si sviluppano delle correnti migratorie che raggiungono l’Italia. La tesi del vicepremier ha raccolto un certo consenso, perché intercetta sentimenti anti-colonialisti e asseconda una credenza molto popolare: quella di un nesso diretto tra povertà e migrazioni. Qui non si entrerà nel merito delle responsabilità francesi ed europee in Africa, né delle motivazioni politiche del vicepremier, ma si cercherà invece di esporre qualche dato sul nesso tra povertà, sviluppo e migrazioni.

In primo luogo, l’immigrazione in Italia e in Europa è prevalentemente europea. Sui 5,3-5,5 milioni di immigrati, nel nostro Paese gli africani sono soltanto 1,1 milioni, il 21,3% del totale. Per di più, provengono in buona parte dal Nord-Africa, non dall’Africa sub-sahariana, col Marocco in prima posizione (417.000), seguito dall’Egitto (120.000).

Di Maio, come molti italiani, confonde sbarcati, rifugiati e immigrati. Da quattro anni l’immigrazione in Italia è sostanzialmente stazionaria, e dei pochi ingressi da Paesi extracomunitari la motivazione maggiore è quella familiare, non l’asilo. Poi ci sono i cittadini comunitari (1,5 milioni) che non hanno bisogno di nessun permesso, e che ovviamente non arrivano in barca. Rifugiati e richiedenti asilo sono cresciuti di numero da quando non possono più attraversare le Alpi verso nord, ma in tutto si tratta di circa 350.000 persone, meno del 7% del totale (Acnur/Unhcr, 2018).

Se allarghiamo lo sguardo a livello mondo, scopriamo che i migranti internazionali (257 milioni) rappresentano appena il 3,4% della popolazione mondiale, anche tralasciando il fatto che i flussi vanno in diverse direzioni, e quelli Sud-Nord che più ci inquietano non arrivano a 150 milioni. Ora, i poveri del mondo purtroppo sono molto più numerosi: si stima che 902 milioni di persone vivano con meno di 1,90 dollari al giorno (ActionAid). Di questi quasi la metà (430 milioni, pari al 42,7%) si concentrano nell’Africa sub-sahariana, ma da lì partono relativamente pochi emigranti. Il punto è che i poveri e poverissimi dell’Africa e di altre regioni del mondo non hanno accesso alle risorse necessarie per partire e, soprattutto, per raggiungere il Primo mondo.

Il rapporto tra povertà e migrazioni è un rapporto negativo: più si è poveri, meno si emigra, quanto meno a livello internazionale. Risorse poi significa risorse economiche, ma anche culturali e sociali: un’apertura di mente, delle conoscenze e delle aspirazioni che derivano soprattutto dall’istruzione; delle relazioni con chi è già riuscito a insediarsi e può fungere da un punto di appoggio, come ai tempi della grande emigrazione italiana. Gli africani a basso reddito raramente ne dispongono.

I migranti internazionali nel mondo, come nel caso italiano, provengono prevalentemente da Paesi intermedi, e non dai Paesi più poveri in assoluto. Oggi inoltre a livello globale i maggiori Paesi di emigrazione sono anche Paesi che si stanno sviluppando: India (16,6 milioni di emigranti); Messico (13 milioni); Federazione Russa (10,6 milioni); Cina (10 milioni). Anche al netto del peso demografico di questi grandi Paesi, l’emigrazione accompagna lo sviluppo e non la miseria. In Paesi come questi più che altrove circolano delle risorse, maturano le conoscenze necessarie per affrontare l’emigrazione e si avverte maggiormente il peso delle disuguaglianze, anche per effetto della crescita dei livelli di istruzione.

La selettività delle politiche migratorie contemporanee, ossia gli ostacoli che i nostri Paesi frappongono agli arrivi, alza l’asticella e rende più arduo l’arrivo dei più poveri. Per queste ragioni, gli studi di economia dello sviluppo spiegano che quando un Paese comincia a svilupparsi è molto probabile che per un primo non breve periodo l’emigrazione aumenti. Cresce infatti il numero delle persone che accedono alle risorse necessarie, mentre nello stesso tempo lo sviluppo favorisce l’istruzione, apre le menti, suscita nuove aspettative. Solo in un secondo tempo l’emigrazione rallenta fino a cessare o quasi, e infine un Paese può diventare attrattivo di immigrazione che viene dall’estero.

È stata questa la parabola del nostro Paese, ma abbiamo impiegato un secolo. Infine, ragionamenti come quelli di Di Maio trasmettono una visione patologica delle migrazioni: come se fossero una malattia, la cui terapia sarebbe lo sviluppo e la guarigione sarebbe rappresentata dalla fine dei movimenti migratori. In realtà noi degli immigrati abbiamo bisogno per molti motivi, a cominciare dalle famiglie bisognose di aiuto per reggere i loro carichi assistenziali. Dobbiamo augurarci che cessino le migrazioni forzate, non la mobilità umana liberamente scelta e vantaggiosa per tutti.