Erdogan, il consenso e il rispetto dei diritti

22.07.2016 17:05
Categoria: Articoli giornale, POLITICA

"Basta parlare in nome del popolo perché ci sia democrazia?". Sabino Cassese, sulle pagine del Corriere della Sera, affronta il tema in un editoriale del 21 luglio prendendo spunto dalle vicende del tentato golpe in Turchia e dalle reazioni che ne sono seguite da parte del governo "legittimo" di Erdogan.

«Che diritto ha l’Unione Europea a porre il veto su qualcosa che vuole democraticamente il popolo?», si è chiesto il presidente turco due giorni fa. Erdogan è stato in effetti eletto nel 2014 con il 52 per cento dei consensi dal 76 per cento degli aventi diritto. L’elezione parlamentare del 2015 ha confermato il successo del suo partito, anche se non nei termini da lui sperati. Ha ora i poteri che gli attribuisce la Costituzione turca del 1982, più volte modificata, in particolare con i referendum del 2007 e del 2010. Si tratta di poteri molto estesi, che vanno dalla proclamazione della legge marziale e dello stato di emergenza (su decisione del Consiglio dei ministri) alla nomina dei presidenti delle università.

Ma basta parlare in nome del popolo perché ci sia democrazia? Il mondo si è interrogato da più di un secolo sulla portata dei principi di autodeterminazione dei popoli, di sovranità popolare e di non interferenza nelle questioni interne di altre nazioni: questi comportano che i governanti, una volta eletti, rispondano solo al popolo?

La risposta data fin dalla seconda guerra mondiale è che ogni governo deve rispondere anche agli altri Paesi e alla comunità internazionale. Non a caso la solenne dichiarazione del Millennio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite prevede un impegno collettivo non solo a promuovere la democrazia, ma anche ad appoggiarne il consolidamento.

Questo perché non solo le economie, ma anche la stabilità, la pace, l’ordine, la sicurezza di ogni nazione è strettamente interdipendente con quelle di altre nazioni e Stati, come i recenti atti di terrorismo dimostrano. Un acuto studioso americano ha chiamato questa horizontal accountability, spiegando che i governi nazionali non debbono rendere conto soltanto ai popoli che li hanno eletti, ma anche agli altri popoli, e ai governi che li rappresentano, perché hanno un comune interesse all’ordinato svolgimento della politica negli altri Stati. Solo una concezione errata della democrazia può far pensare che, se un popolo vuole instaurare una dittatura, la comunità internazionale deve assistere in silenzio. E che i diritti conferiti dal voto popolare a una maggioranza possano esprimersi anche in compressione dei diritti delle minoranze.

Il presidente turco non sta violando solo il diritto comune a veder rispettata la democrazia, ma anche i diritti umani e le libertà fondamentali dei cittadini del suo Paese. Anche questo non è solo un affare interno della Turchia. È una violazione non soltanto del diritto turco e della relativa Costituzione, ma anche dei principi più generali ai quali fanno riferimento la dichiarazione Onu del 2000 e molti trattati internazionali. Le repressioni in massa, la privazione della libertà personale, la revoca di autorizzazioni all’insegnamento, il licenziamento di dipendenti pubblici e in particolare di giudici, sono avvenuti senza regolari processi, con possibilità di contraddittorio, in pubblico, dinanzi a giudici imparziali. Vanno quindi condannati dalla comunità internazionale, a cui il presidente turco deve rispondere.

Tutto questo vale a maggior ragione per l’Unione Europea, non solo perché questa è una comunità fondata sul diritto, ma anche perché lo Stato turco ha dal 1963 un trattato di associazione con l’Unione, ha posto la sua candidatura per entrare a farne parte nel 1987, e dal 2004 ha iniziato i negoziati, cercando di dare prova di possedere i requisiti per l’adesione.

La ragion di Stato, dettata agli Stati Uniti dall’importanza militare strategica della Turchia e all’Unione Europea dall’accordo del marzo 2016 sull’emigrazione, porterà l’uno e l’altra ad attenuare le pressioni che possono esercitare sul nuovo corso della politica turca. Ma questo non deve attenuare l’interesse dell'intera comunità internazionale a veder rispettati democrazia e giustizia in Turchia. Anche da questo dipende la nostra pace.

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