Quirico: “Io sulla strada della morte diretto nell’inferno di Aleppo”

12.02.2016 15:36
Categoria: Articoli giornale, COSTUME, POLITICA

Domenico Quirico (l'inviato de "La Stampa" che nel 2013 è stato rapito in Siria e rilasciato dopo 5 mesi di prigionia) è ritornato in quel martoriato paese e in un memorabile reportage pubblicato l'8 e il 9 febbraio 2016 ha rappresentato la tragedia di una lunga guerra civile combattuta ormai da anni e che vede protagonisti i soldati di Assad, gli oppositori al regime e truppe di eserciti stranieri

È vero dunque: da questa guerra gli uomini sono stati vinti. E questa guerra è cattiva perché ha vinto gli uomini. Me ne accorgo attraversandola da Sud a Nord, quattrocento chilometri, da Damasco ad Aleppo. Questa guerra moderna, questa guerra di coltelli e fucili. Questa guerra civile. 
Questa guerra mondiale. Questa guerra di raiss e di emiri. Questa guerra di petrolio e di dignità, di bambini e di killer senza bandiere. Questa guerra di gas e di droni. Questa guerra di bugie e di ambigue verità. Questa guerra in cui sembra non ci sia modo di uscire. Guerra di cui i sopravvissuti fanno ormai fatica a ricordare quale fu il primo giorno e cosa facevano allora.
È lei, capricciosa e vorace, che detta le regole, che si prende gioco anche di coloro che sono convinti di averle imposto il morso, di sapere quando vorranno dire basta e raggiungeranno, prima o poi, la vittoria. 
 
Tutti sconfitti 
La vittoria. Inutile parola. Chi c’è dentro, e non finge, sente che ormai non ne uscirà più. Quando la guerra entra nelle città, le manipola come cera, ne modifica il profilo, abbassa l’arroganza dei suoi edifici più alti, la riduce a rovina di museo, cambia la vita, le abitudini, i percorsi quotidiani dei suoi sudditi, gli uomini, i cittadini un tempo liberi e orgogliosi di sé. E se gli uomini non hanno saputo vincere è perché c’è qualcosa di marcio.
Ad Aleppo, l’altra, quella che è rimasta sotto il governo di Bashar al-Assad, dopo tre anni. All’improvviso, superata una svolta della strada, mi sono ritrovato. In un sol colpo quella città santificata da un martirio collettivo ha occupato di nuovo i miei pensieri: un ricordo stretto che mi vestiva.
E poi subito, come tamburi rullanti una ritmica danza, il continuo rombo dell’artiglieria. Senza sosta. Io ero ancora vivo, dunque, mentre i suoi figli a migliaia sono morti, qui nelle strade o sulle vie di terra di mare che portano in Europa, fuggiaschi. Lo sapevo, lo avevo già provato: era una specie di vergogna come se i giorni di cui godevo li avessi strappati a quelli che avevo lasciato quaggiù. 

Il quartiere fantasma 
Il quartiere di Salaheddin, per primo, era davanti a me. Un paese morto, morto come può essere morto un uomo, inerte vuoto finito. Lo si fosse potuto guardare dal di sopra, con una sola occhiata, si sarebbero visti gli interni di tutte le abitazioni, la pianta mozza degli appartamenti, le cucine, le stanze da letto. Le scale erano tutte crollate in montagne di polvere. Era proprio morto questo quartiere, era proprio un mucchio di ossa bianche, silenzioso, trapassato. E io l’ho visto in questi cinque anni morire.
Il fuoco dei cannoni sembra raddoppiare. I cieli hanno un tumulto di onde. Esplosioni lanciano illuminazioni livide, sfilate di granate a Est, esplosioni monumentali a Sud.
Già: quelli che ho lasciato quaggiù. E allora ho pensato che erano ancora lì sotto quel sepolcro di cemento. Viviamo sempre di antiche superstizioni, crediamo nelle ipotesi più infantili. Che altro abbiamo d’altronde da masticare, a meno di non fermare la immaginazione? Poiché erano ancora lì c’era anche la loro anima, doveva esserci. E queste anime hanno fame freddo e soffrono come quelli che sono ancora vivi. Qualcosa di terribilmente vivo, di terribilmente presente si levava da quel campo di morte rovine. 

Lo scontro decisivo 
Eppure arrivo ad Aleppo mentre è iniziata una battaglia decisiva di questa guerra. E lo senti nell’attesa della gente. Me lo dice una giovane donna. Sto per lasciare Damasco e sa che vado a Nord, e il suo bel corpo carezzevole è così pieno di vita che ti pare di tenerla tra le braccia, così vicina che ne senti sulle palpebre il vestito come un velluto: «Noi siriani siamo pieni di vita, abbiano resistito. Siamo vivi. Non dovremmo esserne orgogliosi? Sentiamo che ne verremo fuori. Basta guerra, morte. Vogliamo tornare a vivere. Guardati intorno, non senti in televisione, nei caffè, quanti cantanti nuovi, canzoni gioiose, spuntano come i funghi nel bosco, abbiamo voglia di ascoltare, di essere felici. Ne abbiamo diritto!».

I raid russi 
L’esercito preceduto dal martello infuocato dell’aviazione russa ha respinto ribelli e jihadisti dalle montagne di Latakia e sta scendendo verso la capitale del Nord. La riconquista di due città sciite, Fuua e Kefraya, dopo tre anni, tre anni! di assedio gli apre la via verso Bab al-Awa, già sotto bombardamento, e la frontiera turca da cui passano tutti i rifornimenti e i traffici islamisti, mentre un’altra mano della tenaglia sale per avvolgere la città. Al centro della formidabile corona di eserciti che vengono stringendole addosso una spirale inesorabile, Aleppo dovrebbe cadere come un frutto troppo maturo, da sé, staccandosi dolcemente dall’albero della guerra. Un colonnello che ho incontrato sulla via mi ha annunciato, categorico: «Due, tre settimane e Aleppo cadrà».
Sotto il cielo di un bell’azzurro marino scarrettano soffiando rabbiosamente i proiettili, striano l’aria di rapidi acuti stridori. Lontano in controluce i settori bombardati ribollono di sciarpe e di colonne di fumo azzurro scuro.

Una lezione alla Turchia 
Umiliare la Turchia strappando il legame territoriale con il Grande Gioco siriano e fare presto, fare presto: «Dobbiamo arrivare al 25 febbraio a Ginevra con le carte migliori, decisive per la battaglia diplomatica. E quale asso è migliore di Aleppo?», aggiunge il colonnello. 
Pesanti proiettili inarcano la loro traiettoria a tale altezza che il volo risuona solo come un respiro. So che da qualche parte, di là, nei quartieri ribelli, bandiere di polvere si innalzano a pioggia, si abbattono sulla terra come se crollasse una montagna. Ma questa volta non le vedo. 
Il ragazzo che mi porta ad Aleppo si chiama Shadi. A lui mi lega qualcosa che non possiamo dimenticare, più forte del sangue e dell’amicizia: anche lui è stato prigioniero dei jihadisti, a Homs, gli hanno strappato i denti con una tenaglia, ma è vivo, siamo vivi. In questa terra variata, ineguale, piena di capricci e di improvvisate, tutta colline, gobbe, valloncelli, dune, selle, ordinata o selvaggia, abbiamo scoperto che potevamo avere ancora mille e mille vite e che in fondo eravamo rinati, diventati immortali. Un dono che può concedere solo il dio del dolore. 
 
La campagna viva 
Con Shadi al volante dunque io andavo verso Aleppo, dopo duecento chilometri di argille e rocce in cui si sdraia pigra, maligna, la disperata solitudine di piatte praterie di gialla gramigna, pochi alberi poche case, dopo Homs, è bella campagna, comparsi il cipresso, prati di foraggio e di cavoli, e la vite che sempre è compagna dei cristiani. E l’ulivo. Eravamo felici, Shadi e io, di queste foglie benedette che ci parevano di buon augurio nel cuore della guerra.
La strada scendeva dai colli molle come una sciarpa, faceva piegoni alle curve, imboccava rettilinei infiniti. A destra e a sinistra, nel vuoto, piccoli fortini di terra, dietro cui spuntava il collo di un cannone o di un carro armato. E soldati che stendevano pigri la biancheria al sole o preparavano il pasto. Sull’asfalto strisciavano come scarabei interminabilmente, colonne e colonne di autocarri scortati. I rifornimenti che tengono in vita Aleppo.

La barriera di Assad 
Questa rotabile, chiusa all’altezza di Idlib, l’autostrada che un tempo in un amen ti portava ad Aleppo, è la Maginot di Bashar, ci si è aggrappati, come a una diga, per fermare l’avanzata dalla pianura desertica dell’Est degli uomini del califfato che cercavano di innaffiarla di esplosivo e di ferro: tenere aperta la vena che lega la capitale e Aleppo. Una guerra feroce, silenziosa, senza telecamere e medaglie che si combatte da anni, ogni notte.
Bisogna correre svelti qui, Shadi, perché le pattuglie del califfo e di al-Nusra ti guardano e perfino il ronzio dell’auto basta a svegliare i fucili dei cecchini. E a sinistra, laggiù, c’è Sadura che è nella mani degli islamisti. Ci fermiamo in uno dei fortini, ad Aseria, dove in un container, c’è il comando del generale. Ha una bella stufa calda, il generale, e tacchini e galline nel cortile che beccuzzano placide in mezzo a capitelli e avanzi di colonne, meravigliosi reperti romani. Grida al telefono perché i suoi mezzi hanno problemi di benzina e devono invece correre a tappar le smagliature che gli altri cercano tenacemente di infilare nella sua lunghissima rete.

Kamikaze come artiglieria 
«È la guerra delle colline, questa, ogni piccola altura è decisiva, chi tiene e sta in alto è padrone del territorio e della strada. Loro sono ben armati, e usano i kamikaze come artiglieria per aprirsi la via. Qualche volta ci hanno sorpreso, sono anche riusciti a interrompere per un po’ la strada, ma poi li abbiamo cacciati. E ogni notte si ricomincia». 
Sul vento, da Est, ci arriva il fragore secco dei colpi, una sorta di abbaiamento rabbioso, nutrito, implacabile.
Attenzione! Qui bisogna svoltare a sinistra. La strada che corre dritta porta a Raqqa, la capitale del califfato: cinquanta chilometri! Appena. Adesso i segni della guerra si fanno largo imperiosi, macchie fuligginose di incendi, pozze scavate dalle granate, relitti di ferraglie. I fili delle linee elettriche pendono a terra come rami recisi. E i villaggi, i curiosi trulli di argilla e canne, appaiono insaccati su se stessi, altri tagliati a fette, altri ancora come morsicati da una enorme bocca feroce. La campagna è gonfia di silenzio e di sole. Rari contadini nei campi, chini sulla terra con una timidezza dolente e circospetta. Qualche mandorlo è coperto di una nevicatina rada, tutti fiocchi bianchi: la prima fioritura nel cuore dell’inverno. Il grande lunghissimo lago che costeggia la strada ha ai bordi sottili bave bianche di sale.
 
Inizia la battaglia 
Ecco Al-Safirah: sono ad Aleppo, in cifra tonda, venti chilometri.  Ora l’orizzonte appare nerastro, opaco, orizzonte da tifone, una densa acre caligine annebbia per chilometri i pianori. Brucia la centrale elettrica a gasolio che dà luce ad Aleppo e che l’esercito sta cercando di strappare dalle mani dei jihadisti. Dietro la curva il vento porta il lezzo di una immensa discarica dove decine di bambini scavano silenziosi. Calano sulla città bianca, sfiorando gli edifici, i bagliori rossi dei traccianti che si accendono e sfumano a intervalli regolari. La battaglia di Aleppo è cominciata.

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Ci sono luoghi in cui l’uomo non è altro che ciò che porta dentro di sé. Aleppo è uno di questi luoghi. Il cannone e la radio annunciano battaglie decisive, brutali. Ma la guerra può camuffarsi, ad esempio nella città vecchia, come una grande ondata di quiete. Mai la calma deserta è più completa che in questo luogo, è qui che ho imparato che il silenzio di una strada è sempre più profondo del silenzio di un bosco o di un campo. Nella città vecchia di Aleppo fatta a pezzi dalla guerra dei cinque anni (ma quanti saranno alla fine?) senti il senso di sospensione della fragile vita. Puoi avvertire i mormorii degli uccelli nella città vecchia, perfino il frullare delle ali di un colombo.
 
Le strade mute 
Le viuzze con i negozi bruciati dell’antico mercato, le macerie sono mute come catacombe, il più debole accenno di rumore sembra aprire uno squarcio nella cappa nera del silenzio. Sento il calpestio di un soldato a un chilometro di distanza. Ma per un gioco di venti e di echi qui non arriva il brontolio dei cannoni governativi che martellano le posizioni dei miliziani. Persino gli aerei russi che passano alti nel cielo e aprono la strada alle fanterie verso il confine turco sembrano volare senza suoni.
Forse da nessuna parte ho avvertito così acutamente che lo spirito di una epoca cade in pezzi come tra queste pareti secolari che si sono sgretolate sotto i colpi della guerra. Il modo in cui le idee, i progetti geopolitici che fino a poco tempo fa erano considerati da noi monete sonanti, si svuotano è doloroso, inquietante: come trovare in un campo di macerie gli spiriti di persone che hai conosciuto e intrattenere con loro una spettrale conversazione. La guerra nella costanza definitiva del suo furore, va più svelta di noi temporeggiatori d’occidente, e la Forza, la terribile semplificatrice, ancora una volta si impone. 

La città nella città 
La città in cui sono arrivato, quella controllata dall’esercito siriano, incastonata, da cinque anni, come un nocciolo in un’altra città che è a lei nemica, è uno spazio di larghezza tra i venti e venticinque chilometri con una sola, via di uscita verso Sud. Intorno c’è la Aleppo ribelle, i suoi mille nomi, da al Nusra versione locale di Al Qaeda al poco che resta della vecchia Armata libera. Qui il Califfato di Raqqa e Mosul sembra lontano, la guerra è sempre quella tra gli esausti, furibondi nemici degli ultimi cinque anni. Sotto le mura della cittadella tenuta dai soldati e attraverso la città vecchia e il suk dato alle fiamme passa appunto il fronte. 
Che pace qui! Ecco la parola banale, assurda che sale alle labbra attraversando questi quartieri rimasti fedeli al regime: negozi e eleganti caffè aperti, il traffico chiassoso d’oriente, petulanti taxi gialli, piccole automobili costruite in Iran, e nuovissimi bus verdi, i vigili che braccano con il carro attrezzi i colpevoli di divieto di sosta.

Picnic e cannoni 
Era venerdì quando sono arrivato, giorno di festa, le famigliole celebravano il picnic nei giardinetti, indifferenti al rombo dei cannoni. Solo ai margini case colpite. Eppure: quanta guerra, incombente e buia! Manca la corrente elettrica e i generatori riempiono di fragore cortili e marciapiedi, autobotti con le sigle dell’Onu distribuiscono ai crocicchi l’acqua che non arriva più, sfrecciano pick-up con soldati feriti, zeppi di soldati che si fanno largo nel traffico verso l’ospedale sparando in aria con i mitra, scorrono funerali con gli altoparlanti su un camioncino che invitano a pregare. E poi c’è la città vecchia su cui un mago maledetto sembra aver lanciato una maledizione. E la radio, sempre accesa, che porta le notizie di sanguinose battaglie, che non ti lascia mai.
«Nelle località liberate giovedì scorso il nostro esercito ha trovato quantitativi ingenti di materiale che provano l’aiuto della Turchia ai terroristi: sacchi di farina armi vestiario. La quinta divisione avanza verso Azaz, la resistenza si fa più debole». 
I soldati attorno a un fuoco riposano e sussurrano come si fa al capezzale di un moribondo. Nell’atrio dell’hotel intitolato a Giulia Domna, matrona siriana della feroce età dei Cesari, hanno nascosto i carri armati. Sabat Barhat.
Tutto acquista un senso in questa strada devastata, si cammina al passo di una vita ammassata e abbreviata che sa dove va, verso la morte. 
                                                                                                                                                                                           
La vita continua 
Ci sono ancora abitanti qui! La vita continua, sconvolta stravolta ma continua. La ineluttabile vita degli uomini passa i sentimenti, la logica, la ragione. La pazienza di questa umanità ha qualcosa di tremendo, è il fluire fisico di un fiume. Ad Aleppo siamo tutti colore maceria. Un ragazzo mi guarda dalla finestra di una casa devastata come fossi qualcuno che arriva da un altro mondo, l’unico negozio aperto nella città vecchia offre umili ciambelle di pane. E gli altri, e il loro mondo pieno di rumore, di vita, di odori, dove sono? 
Ho visto altri quartieri distrutti, ridotti a terreni pietrosi. Ma qui si è colti da una inquieta mestizia, da un doloroso stupore. La città vecchia è stata bombardata a morte; ma le mura esterne restano in piedi in modo che presenta da lontano una parvenza di vita, mentre da vicino se ne percorri le vie appare come un cadavere sventrato. Le antiche dimore in stile turco-damasceno con le verande di legno da cui le donne spiavano non viste, golose, la vita della strada, sono senza tetto, alcune spazzate vie di netto, lasciando in vista i piani come per la scenografia di una farsa. I segni dei legami famigliari scoloriscono alle pareti o sono a terra tra calcinacci e rifiuti: fotografie di uomini baffuti, immagini della qaba e madonne coloratissime, diplomi e certificati. Tutto così immobile come se la gente potesse tornare a ogni istante.
«Le coraggiose milizie dei curdi siriani continuano la loro avanzata verso Sheik Maksud, il punto di incontro con l’esercito che avanza nell’altra direzione è fissato all’aeroporto riconquistato di Kweres».
 
Distrutta ma non umiliata 
Percorriamo una complicata geografia di spigoli e svolte che evita il tiro dei cecchini. Una volta la guerra si faceva in piedi, ecco un altro luogo dove è fatta da uomini raggomitolati, che scivolano al suolo. Questo un tempo era il mercato. Ovunque è caduta l’ombra della guerra jihadista ogni cosa deve inaridire dalla radice.
«Nel Qalamun i nostri soldati affiancati dagli uomini di Hezbollah progrediscono verso gli ultimi villaggi tenuti dai terroristi: Rastan e Telbjsa sono quasi circondate, è vicina la riconquista della grande diga e del lago che attraversavano un tempo in barca con i rifornimenti».
La bella pietra di Aleppo è nera come pece, ma non è morta. Sì! Le pietre restano vive. Al fuoco hanno assunto colori così strani e belli che bisogna cercare in qualche racconto di magie orientali le parole per descrivere questa visione. Il Caravanserraglio del ministro si eleva così fiero nella morte con una maestosità che mette a tacere la compassione. Le facciate hanno tinte profonde, in altri luoghi la brunitura abbagliata da mistiche bave di luce che scendono dalle aperture nelle volte impallidisce nell’ avorio, i recessi e le nicchie sono segnati da un nero più denso di qualsiasi ombra. La magia è accresciuta dalla sua evanescenza, il suk risplende e muore davanti a noi come un tramonto. Ogni spigolo è stata una battaglia: la città vecchia è distrutta ma non umiliata.
Saliamo tra barricate di sassi, la cittadella è sopra di noi. I miliziani sono a 50 metri dove un tempo era un famoso bagno turco. Siamo inginocchiati sulle rovine di quello che fu l’hotel Carlton: le poltrone e i mobili sono serviti a ispessire le barricate.
«A Deir e Zoor assediata sono stati lanciati dal cielo con successo rifornimenti ai soldati e alla popolazione, grazie all’intervento dei caccia russi la fine dell’assedio è vicina». 
Lasciare questo fronte è come scendere dalle montagne. La maggior parte del quartiere di Salaheddin è nella mani dei ribelli, nascosta in fondo alle vie da gigantesche e sudice pareti di stoffa e di mattoni che sbarrano la vista e il tiro ai cecchini.
Di qua, nell’altro mondo, la vita si aggrappa al colore delle botteghe, il bianco del pane, i rossi e il verde della frutta e della verdura. In bilico sul fianco di una casa di cinque piani che le bombe hanno fatto scivolare uno sull’altro, un uomo bianco di polvere, scalpella i ruderi in piccoli blocchi rettangolari, gli ridà ancora forma e vita. E mi sembra già una resurrezione. Bimbi spingono nel fango di una mala strada, a pedate, bombole di gas. Su un marciapiede un telo raccoglie una distesa di pezzi di pane e decine di tortore gioiose. 
                                                                                                                                                                           
Il Dio confiscato 
L’offerta musulmana del cibo rimasto, nulla deve essere gettato perché è di Dio, ne devono godere almeno gli uccelli. Chi ha sconciato questa francescana umiltà in una fede violenta? Ecco: il dramma siriano, uomini in carne e ossa, in mezzo al mondo, senza che ci siano più dei a vegliare su di loro. Dio l’hanno confiscato per giustificare il delitto. La nostra angoscia nasce appunto dalla pura negazione.
Lascio che nella strada il fiume delle confessioni dei pianti delle maledizioni mi invada. Ascolto come fosse un’unica voce uomini, vecchi, ragazze.
«Non me ne andrò mai, non voglio diventare un numero, una profuga. Ho amici che sono fuggiti e ora vorrebbero tornare, trattati come pezzenti, ma non possono perché non hanno più soldi, siamo qui da due anni, ora c’è più sicurezza e poi dove possiamo andare? Ho negozi e case oltre quella strada, ma gli altri non mi lasciano entrare, spero che l’esercito liberi tutta Aleppo, in fretta! Soffriamo ma aspettiamo la vittoria, sauditi bastardi! Tutta colpa loro, hanno fatto venire gli stranieri, tra noi siriani si poteva trovare un accordo. Sono stanca, ho il cuore dilaniato. Il pane costava 15 lire siriane al chilo oggi costa 150».
Le parole risuonano come echi di caverna. «Nella città vecchia di Aleppo oggi sono state lanciate dai terroristi molte “bombe dell’inferno”, gli ordigni artigianali confezionati con bombole, esplosivo e frammenti di ferro».
Mi resta ancora un luogo da visitare, come pellegrino: la chiesa di santa Matilde e il convento dei salesiani. Spingo l’uscio, è aperto. Ti riempie il cuore trovare qui qualcosa che non è protetto, sbarrato. C’è il giovane prete che il Papa ha abbracciato come simbolo dei cristiani di Siria e del loro quotidiano sacrificio, e altri due padri, un siriano e un italiano che è qui da 40 anni. Parliamo di Dio e di martirio, e di cosa altro si può parlare ad Aleppo: «Noi ci occupiamo dei giovani, la nostra politica? È il padre nostro».

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