Il muro dei neonati

01.09.2015 12:21
Categoria: Articoli giornale, COSTUME

"..questa lettura vi coinvolgerà per similitudine dei destini e delle sensazioni, vi sentirete parte di qualcosa perché quelle cose semplici e scontate che hanno provato gli altri sono le stesse che sentite voi, e così è inevitabile sentirsi parte di una comunità ampia ma speciale, universale ma specifica di persone che attendono la nascita di un essere umano che già si ama..". Francesco Piccolo (La lettura, Corriere della Sera, 30 agosto 2015) ci aiuta a cogliere il senso delle scritte che ormai da anni ricoprono l'intero reparto di ostetricia dell'Ospedale San Camillo di Roma.

Tutte le attività umane, grandi o piccole che siano, urgenti o banali, utili o inutili, sono un tentativo maldestro di fermare il tempo. Un modo per dire io ci sono, ci sono stato, sono passato. Quando poi ci si trova di fronte a eventi assoluti, come la nascita di un nuovo essere umano, questa necessità di testimonianza è autorizzata, in sintonia con il passaggio cruciale. Quindi, la domanda sbagliata da fare di fronte a queste scritte che da anni stanno ricoprendo l’intero reparto di ostetricia dell’Ospedale San Camillo a Roma, è: perché?
Partiamo da una prima questione, banale certo, ma che è alla base di tutto questo: l’evento è normale ed eccezionale. Basta assumere i due punti di vista all’interno della sala parto: per una madre che partorisce (e per il compagno, i parenti, gli amici) è un fatto epocale, che cambierà la vita, anche quella quotidiana – soprattutto quella; le notti insonni, non ho abbastanza latte, avrà ancora fame, perché sta piangendo – e poi via via: dovremmo essere più severi, saranno gli ormoni, questa casa non è un albergo, con altre notti insonni in attesa del ritorno notturno dell’adolescente mentre si continua a controllare l’ultimo contatto su WhatsApp e così via, anno dopo anno. Poi basta assumere il punto di vista di chi sta accanto alle madri mentre devono respirare a fondo in attesa della prossima spinta, cioè dell’ostetrico: ordinaria amministrazione, serialità, mamma a posto fuori e dentro la prossima mamma, questo è nato quest’altro è nato quest’altro pure, però dite ai parenti di entrare in stanza non più di due alla volta. E – ancora – basta mettere a confronto la responsabile del nido, che si muove sicura tra culle e respiratori mentre il padre piange dicendo che è incredibile come un essere appaia così all’improvviso nel mondo e quella che ne gestisce venti, di neonati, intanto sta pensando a quando esce dal lavoro, al latte parzialmente scremato che è quasi finito e alla borsa da fare per la palestra.
Il reparto di ostetricia di qualsiasi ospedale del mondo è così, una comunicazione impari tra l’emozione e la freddezza, tra l’irrazionalità e la razionalità. Gli emozionati hanno bisogno dei freddi per far accadere le cose, e poi vogliono rompere quel muro costruito apposta per far funzionare il mondo. Esigono che i medici siano un po’ sconvolti dall’eccezionalità dell’evento di quel figlio irripetibile. I medici pazienti fanno finta che sì, è vero, è senz’altro irripetibile, ma sanno che la loro forza, la loro utilità sta non nell’indifferenza, per carità; bensì nella distanza.
Quindi come si fa per violare con un’onda emotiva questa diga di scientificità? Al San Camillo di Roma si è trovata la soluzione.

Qui tutto ruota intorno al tempo: quello trascorso finora dalla notizia della gravidanza, e più prepotentemente il tempo trascorso dal primo desiderio di avere un figlio. Il tempo che sarà segnato per sempre (la data di oggi – le date sono quasi sempre presenti a testimoniare il passaggio di chi scrive sui muri) come il giorno della nascita; e soprattutto, ora, il tempo che bisogna trascorrere qui fuori, in attesa che accada quel che deve accadere. Quindi a volte i padri – ma ora spesso i padri sono dentro –, i fratelli, gli zii, i nonni... Tutti lì fuori ad aspettare che l’evento si compia, e quindi le scritte che pian piano hanno riempito l’esterno, gli interni, le scale, persino i vetri separatori, sono di chi attende, di chi chiede di spingere di più per uscire, di chi ha appena avuto la notizia della nascita, e a volte anche del giorno dell’uscita (mamy e papy dicono che sei il regalo più bello della vita).
Si può dire: ma anche al tempo dei social? Certo: questi muri sono una versione in rilievo dei social. Non virtuali, ma è lo stesso. Infatti svolgono la stessa funzione e usano lo stesso linguaggio. Chi scrive «benvenuto bello de zia», potrebbe digitare o sta digitando sul cellulare una frase identica. La comunicazione è esattamente la stessa: il gruppo qui è composto da tutti quelli che hanno vissuto questa esperienza in questo luogo preciso, da tutti quelli che la stanno vivendo, da tutti quelli che la vivranno. È l’esigenza di dire: io ci sono nel mondo, anche come zia, e nel mondo adesso c’è anche mio nipote, ve l’ho detto, ricordatevelo, o dimenticatelo pure, non importa, ma io l’ho detto, c’è testimonianza, si può trovare sulla mia pagina Facebook e sui muri di questo ospedale, se intanto che anche voi sarete qui ad aspettare vi metterete a leggere, nell’attesa, i messaggi di altri. E pian piano vi trasformerete: all’inizio penserete ma che stupidaggine, ma si possono imbrattare i muri di questi annunci scontati, che inciviltà, ma chi se ne frega che sono nati in questi anni Patrizio, Beatrice, Khadim, Thomas e tutti gli altri; e poi questa lettura vi coinvolgerà per similitudine dei destini e delle sensazioni, vi sentirete parte di qualcosa perché quelle cose semplici e scontate che hanno provato gli altri sono le stesse che sentite voi, e così è inevitabile sentirsi parte di una comunità ampia ma speciale, universale ma specifica di persone che attendono la nascita di un essere umano che già si ama, qui, al San Camillo, e allora alla fine si sente la stupidità di sottrarsi, lo snobismo inutile di non lasciare traccia di sé, e che ci vuole, si prende un pennarello e si cerca un angolino libero e si scrive «spingi, ti sto aspettando, daje», e poi «è nato, benvenuto, Rocco c’è, amore de zia».
Il fatto più evidente, qui al reparto di ostetricia, è che il reparto in sé non è sufficiente a raccontare la sua portata simbolica, la sua retorica di vita. In fondo, basta arrivare qui davanti e guardare negli occhi le persone in attesa – in altri reparti dello stesso ospedale ci sono altre persone in attesa, ma l’angoscia e la speranza hanno percentuali proporzionate in modo inverso; qui invece c’è una spinta verso il futuro, una fibrillazione certo preoccupata, a volte angosciata, ma galleggia un’emotività tutta positiva, gli occhi lucidi sono febbrili, le persone che si toccano il braccio sorridono, si dicono senza dirsi: stiamo producendo futuro. È un evento appunto quotidiano (tutti producono futuro) e allo stesso tempo gigantesco (sì, è vero che tutti producono futuro, ma qui dentro, in uno spazio preciso, c’è il compito unico di produrlo, nella sostanza non si fa altro). Eppure non basta. La scritta «prima e seconda divisione di Ostetricia e Ginecologia» non è sufficiente a montare la portata simbolica di questo pezzo di ospedale – di ogni reparto identico in ogni ospedale del mondo. Evidentemente non basta, almeno qui a Roma non lo si ritiene sufficiente. Quelli che hanno cominciato a scrivere sui muri – tendiamo a dimenticarlo vedendo questa quantità infinita di scritte, ma c’è stato un primo e un secondo e un terzo che lo ha fatto – hanno sentito che stare davanti a questo reparto e aspettare un evento che produce futuro nella propria vita, andava sottolineato e fermato personalmente, in un modo che riguardava la comunità ma in particolare se stessi e la propria famiglia. E poi, a mano a mano, questa imposizione di particolarità, accumulandosi, ha rimesso in gioco l’intera comunità, perché adesso le scritte sono migliaia e migliaia e quindi non si riesce più a isolarle per davvero, ma compongono un quadro generale dell’umanità che ha prodotto un futuro molecolare in questo specifico ospedale.

Infine, c’è la vita là fuori. C’è il futuro che si compie. Quando un genitore scrive con caratteri giganti «Rocco c’è», poi, mentre negli anni altri leggono inevitabilmente che Rocco c’è, Rocco c’è davvero, cresce, diventa un individuo autonomo, produce sentimenti, pensieri, chiacchiere, allegria e dolore; e poi comincia a produrre futuro. Anche Rocco, come gli altri, avrà la tentazione di fermare il tempo, sui banchi di scuola, negli ascensori, sul tronco di un albero, e perfino sui muri di un monumento, perché alle persone non basta che il Colosseo abbia fermato il tempo, ma vogliono fermare il proprio tempo nel momento in cui sono state al Colosseo. Poi, a seconda del loro grado di consapevolezza del mondo (che chiamiamo civiltà) si tratterranno o si lasceranno andare, o si concederanno una monelleria. E forse, chissà, anche Rocco si troverà a camminare nervoso qui davanti, ad aspettare, a leggere i messaggi di molte generazioni, a pensare forse: ma perché lo fanno, e poi a rifarlo per testimoniare agli altri – ma soprattutto a se stessi – la felicità.
Ecco, è questo il pensiero che arriva qui davanti: si leggono i nomi di neonati appena arrivati nel mondo, e li si immagina un giorno che saranno proprio loro a venire di nuovo a scrivere qua. Chissà perché viene in mente questo. Forse è un pensiero che prova a tenere insieme il più possibile il mondo, a pensarlo con una larghezza visibile, che possiamo contenere e comprendere. Forse questo serpentone infinito di testimonianze gratuite può fermare il tempo. O più probabilmente no, ma che importa.

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