La buona condotta - Gli errori ci fanno crescere

01.07.2015 18:27
Categoria: Articoli giornale, SCUOLA

Dalla pagina de “la Repubblica - R2” di martedì 30 giugno 2015 due articoli su pedagogia, educazione e comportamento scolastico: corrispondenze da Londra e Parigi, rispettivamente di Enrico Franceschini e Anais Ginori.

A Londra, il ministro inglese dell’Istruzione ha di recente nominato tra i suoi collaboratori un “consulente comportamentale” per spiegare agli insegnanti che devono pretendere dagli allievi rispetto, sicurezza e puntualità.

A Parigi, Edgar Morin, 94 anni il prossimo 8 luglio, spiega in un’intervista che “già alle elementari i bambini devono essere educati all’incertezza che fa parte dell’esistenza” e che “il maestro deve correggere e commentare, diventando una sorta di direttore d’orchestra”.

La buona condotta
(dal corrispondente da Londra de "la Repubblica", Enrico Franceschini)

Disciplina in classe, è la parola d’ordine. Per metter bin riga gli studenti maleducati e fuori controllo il ministro inglese dell’Istruzione ha avuto un’idea: un “consulente comportamentale”: agli insegnanti spiegherà che devono pretendere rispetto, sicurezza e puntualità dagli allievi. Chi sbaglia è avvertito

C’erano una volta i buoni e i cattivi. I buoni nel primo banco con il grembiule stirato e il fiocco perfetto, i cattivi in un angolo con le orecchie da somaro in testa. Ma ne è passata di acqua sotto i ponti dai tempi della scuola di “Pinocchio” e di “Cuore”, in particolare lungo le rive del Tamigi, dove la disciplina in classe veniva impartita a colpi di rami di betulla sul sedere, con i pantaloni calati: e non in qualche istituto correzionale per ragazzi di vita bensì a Eton, il college da cui escono re e primi ministri.
Queste e altre punizioni corporali, impartite davanti a tutta la classe perché servissero da esempio, sono andate avanti in Inghilterra dall’era vittoriana fino a una trentina di anni fa, influenzando, grazie alla forza economica e culturale dell’Impero britannico, i metodi per mantenere l’ordine a scuola in gran parte dell’Occidente. Ora tuttavia un terremoto scuote la scuola inglese, “madre” della scuola moderna, e le sue scosse si avvertono nell’Europa intera.
La settimana scorsa Nicky Morgan, ministro dell’Istruzione britannico, ha nominato per la prima volta fra i suoi collaboratori un “consigliere comportamentale”, il cui compito è fornire suggerimenti su come affrontare le intemperanze durante le lezioni. Il prescelto, Tom Bennett, è un ex-insegnante ed ex-gestore di night club. Non è chiaro quale dei suoi due precedenti mestieri gli sarà più utile per fare rinascere quella che definisce “l’arte perduta di controllare una classe scolastica”.
I manuali per la disciplina nella scuola del ventunesimo secolo, nota il Times nel dare notizia della nomina, sono basati sulla filosofia di Paul Dix, uno dei più autorevoli esperti in materia, in Gran Bretagna e all’estero. Le sue regole si possono riassumere in due concetti di fondo: abolire i “premi” per gli alunni considerati buoni e le “punizioni” per quelli giudicati cattivi.
«Tutto quello che diciamo agli insegnanti è pretendere rispetto, sicurezza e puntualità dagli scolari», spiega il professor Dix. «Abbiamo applicato i nostri principi a scuole private di élite nel centro di Londra e a scuole statali derelitte nelle periferie povere, con lo stesso training e le stesse regole, e abbiamo ottenuto gli stessi risultati positivi».
Secondo una diffusa scuola di pensiero, il problema non è che negli anni ‘60 si è allentata la disciplina, bensì che la scienza comportamentale è scomparsa dal curriculum degli insegnanti. La chiave per governare gli alunni, affermano gli specialisti inglesi, non è tanto il rapporto tra adulti e bambini, bensì l’atteggiamento degli adulti tra di loro, l’esempio che danno, la coerenza che insegnano nei rapporti inter-personali.
Quanto agli allievi, l’importante è trattarli come si vorrebbe essere da loro trattati. Un preside dovrebbe accogliere tutti gli allievi sulla porta della scuola, salutandoli uno per uno, aggiustando loro il grembiule o l’uniforme, imparando a conoscerli per nome. L’insegnante dovrebbe attenderli sulla porta della classe, ringraziandoli per essere venuti a lezione e stringendo loro la mano (evitando il “dammi il cinque”, buffetti o pacche sulle spalle).
Visibilità e sostegno”, riassume Dix: le stesse funzioni, in fondo, che hanno reso popolare il “bobbie”, il tipico poliziotto inglese che fa il giro del quartiere disarmato, mantenendo la sicurezza senza bisogno di sbraitare e minacciare.
Le nuove teorie comportamentali sulla scuola hanno scoperto che raramente le tecniche di disciplina più utilizzate in passato ottenevano l’effetto desiderato. Mandare un alunno alla lavagna a scrivere cento volte “parlo troppo durante le lezioni” o costringerlo a sedere in quella che gli inglesi chiamano “naughty chair” o “posto del birichino”, realizzano spesso l’effetto opposto, fornendo uno status da celebrità al punito.
Quanto alla sospensione dalle lezioni, portata agli estremi rivela tutta la sua fragilità: «Sono stato in una scuola in cui il mercoledì erano stati sospesi 267 studenti e il venerdì altri 200», commenta il professor Dix. «È servito a migliorare le cose? Naturalmente no». I buoni o bravi studenti vanno elogiati, ma meglio se con messaggi privati ai genitori, afferma il suo manuale. Per i “cattivi” dovrebbe esserci un sistema graduale: un avvertimento, seguito da un ammonimento, seguito da una “ultima possibilità”, seguita da una sospensione di privilegi come l’intervallo, giochi o gite, seguita dall’obbligo di restare da soli per tutta la lezione in un’aula appositamente designata.
«La verità è che non esiste una correlazione dimostrata fra disciplina scolastica e risultati accademici», osserva un altro esperto, Brett Wigdortz, direttore di Teach First (Prima insegna). «Ho visitato classi in Asia dove vigeva la massima disciplina e classi in Finlandia dove c’era un’atmosfera molto più rilassata, e non è che nelle prime siano tutti bravissimi e nelle seconde tutti somari. Fare l’insegnante è come fare il genitore. Devi essere chiaro e stabilire chiare conseguenze, ma occorrono sistemi diversi di caso in caso».
C’è chi cita come modello John Dewey, insegnante americano dell’Ottocento considerato il fondatore dell’educazione progressista, che criticava il nozionismo ed esortava a insegnare attraverso l’esperienza, sviluppando “uno spirito di cooperazione reciproca”. Oppure chi propone come esempio Summerhill School, “la più antica democrazia di bambini al mondo”, una scuola così libera che gli scolari possono scegliere di non andare a lezione e partecipano a tutte le decisioni, con voti che contano quanto quelli degli insegnanti: il libro che descrive questo metodo, scritto dal fondatore A. S. Neill, è stato a lungo un best-seller internazionale. Una cosa è certa: non è con le orecchie da somaro che si mantiene la disciplina o si creano i leader di domani. Tantomeno con le scudisciate di rami di betulla: non a caso abolite da Eton, la scuola da cui sono usciti David Cameron, l’attuale premier britannico, e il principe William, futuro re, mai costretti a calarsi i calzoni in classe.

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Gli errori ci fanno crescere
(dal corrispondente da Parigi de "la Repubblica", Anais Ginori)

«L'autorità degli insegnanti è così in crisi perché la scuola non ha saputo adattarsi alla nuova autonomia dei giovani». Il filosofo Edgar Morin non crede all'educazione che viene dall'alto, alla matita rossa e alle punizioni. È favorevole a un dialogo continuo nella magnifica avventura della conoscenza, "L'aventure de la méthode", come spiega nel suo libro appena pubblicato in Francia.
Da tempo Morin s'interroga sulle nuove frontiere della pedagogia, e nell'ultimo saggio tradotto in Italia, "Insegnare a vivere", immagina una rivoluzione dell'istruzione del ventunesimo secolo, una "metamorfosi", dice, che possa ricostruire le fondamenta dell'insegnamento, al passo con la nostra civiltà, sempre più interconnessa e multidisciplinare.
"È sbagliato privilegiare una cultura scientifica, tecnocratica, sacrificando una cultura umanista" spiega l'intellettuale francese, 94 anni, che ci riceve nel suo ufficio al Cnrs dove viene sempre meno. "Mi faccio prendere dalla pigrizia, non dovrei, divento casalingo, si dice in italiano?" racconta Morin con un grande sorriso. "Insegnare a vivere", titolo del libro pubblicato dall'editore Raffaello Cortina, è un'espressione usata in passato da Jean-Jacques Rousseau.

Cosa significa insegnare a vivere?
"Imparare non significa solo conoscere la grammatica, la matematica, un po' di geografia e storia. La scuola deve occuparsi della nostra doppia aspirazione: realizzarci come individui, nelle nostre attitudini, capacità, e costruire legami all'interno di una comunità. Se c'è solo l'individualismo, diventa egoismo. Se c'è solo la comunità, si crea frustrazione. I professori devono prima di tutto avere la consapevolezza che i ragazzi vanno accompagnati in questa doppia aspirazione".

Lei propone di introdurre lo studio della conoscenza, l'epistemologia, già alle elementari. Perché?
"La conoscenza della conoscenza è la prima cosa da imparare. In particolare, per ridare spazio e dignità all'errore. Se guardiamo al Novecento, vediamo solo una sequenza di sbagli: la gente è stata comunista, fascista, ha creduto in rivoluzioni o ideologie fallimentari. Anche molte scoperte sono state fatte in seguito ad errori. La conoscenza non è un percorso lineare ma pieno di insidie, dubbi, correzioni".

L'errore deve essere accettato e non punito?
"Ogni errore va analizzato, compreso: è una straordinaria opportunità per progredire. La scuola insegna molte certezze, ma nessuno spiega ai ragazzi che la vita è fatta soprattutto da incertezze: la salute, l'economia, le guerre. Già alle elementari i bambini devono essere educati all'incertezza che fa parte dell'esistenza e devono saper riconoscere errori e illusioni. Il modo migliore per poterlo farlo è avere un approccio alla conoscenza multidisciplinare".

È il "pensiero complesso", che lei ha definito anni fa?
"La separazione delle materie oggi non ha più senso. È tutto il sistema di educazione contemporaneo, fondato sulla disgiunzione fra scienza e cultura umanistica, che bisogna rivoluzionare. Purtroppo la maggiore resistenza a questo approccio viene dagli insegnanti. Non hanno più il prestigio di un tempo, vengono contestati dalle famiglie e perciò si rifugiano nella difesa della sovranità delle loro materie. È un peccato".

Lei parla di una "rigenerazione dell'Eros" nella scuola. Cosa c'entra l'Eros?
"L'Eros, nel senso di desiderio, è presente nell'amore per il sapere che gli insegnanti hanno avuto quando hanno scelto il loro mestiere, e che oggi devono ritrovare. Nei bambini e nei giovani, l'Eros è presente in quella meravigliosa curiosità per tutte le cose, spesso purtroppo delusa da un insegnamento che taglia la realtà in pezzi separati, e con il quale anche la letteratura diventa noiosa nell'era semiotica".

È contrario ai voti, alle pagelle?
"I giudizi degli insegnanti sono più importanti dei voti. Forse in alcune materie scientifiche si possono mantenere i voti, ma nelle discipline umanistiche non credo ai voti".

Come usare Internet e le nuove tecnologie nella scuola del ventunesimo secolo?
"L'insegnante non deve più distribuire come priorità il sapere agli allievi, ma deve correggere, commentare, diventando una sorta di direttore d'orchestra, in un dialogo continuo. Deve anche stimolare lo spirito critico. Internet offre un'informazione libera ma fa circolare anche leggende e teorie folli. Ci troviamo di fronte al problema permanente della conoscenza umana: distinguere tra vero e falso. L'unico modo di lottare contro la diffusione del falso è avere più fonti di informazione. La pluralità permette la ricerca della verità".